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Dicembre
7 Dicembre 2022

IMPRESSIONI DI FINE ESTATE

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Il suono delle cicale si impose, strappando Luigi da un sonno leggero. Leggero era pure il vento, che, spirando, sollevava le tende in un suadente spettacolo di tessuti. Aprendo gli occhi, Luigi ebbe un sussulto, come di quando non si riconosce il posto in cui ci si risveglia. Poi si ricordò di non essere nel soggiorno della sua casa di Milano. E il 30 d’agosto non poteva che essere una fortuna.

La camera da letto della casa di sua nonna lo accolse con un silenzioso buongiorno, bianco come le pareti del soffitto. La vecchia aveva lasciato la casa ai genitori di Luigi, dopo la sua morte. Era una di quelle case in cui ogni oggetto era dotato di un’immobilità austera, come in tutte le case dei vecchi; dove le cose sembrano essere in una certa posizione, in un certo luogo, per volontà divina e immutabile.  Era vent’anni esatti che Luigi non vedeva quella stanza da letto. Andando in bagno, i granelli di sabbia sul pavimento gli solleticarono le palme dei piedi.

Seduto sulla tazza del water, salutò la cena e fece spazio per la colazione. A destra del cesso, da una finestra si scorgeva il mare, solcato da una luminosa scia di sole già caldo; di fronte stava uno specchio, stranamente basso. Da giovane, nel cuore della pubertà, poteva contemplarcisi colpevole e seduto al termine di ogni masturbazione. Ora, invece, nello specchio si rifletteva un uomo adulto, dalla pelle già abbronzata per le poche ore di sole del giorno prima, peli e capelli ormai più bianchi che corvini, la barba corta e ispida. Luigi ebbe per un attimo l’illusione di essere reduce da un lunghissimo viaggio nel tempo. Divertito dal gioco, finse un’espressione stupita, e cominciò a comportarsi come se le fantasie fossero state non tali, bensì una realtà misteriosa e inspiegabile. Doveva essere svenuto su quello stesso water all’età di quindici anni, nel corso di un autoerotismo talmente vigoroso da lasciarlo senza sensi per venticinque lunghi anni! Riusciva persino a sentire l’antica eccitazione, l’antico fuoco risalirgli dal basso ventre. La fatica dei primi istanti della giornata impedì a Luigi di passare ad una nuova e più fruttuosa sequela di pensieri. L’unico modo fu quello di dar retta al sé di venticinque anni prima, e masturbarsi. Libero dall’incantesimo, poté finalmente uscire dal bagno.

Dopo aver messo sul fuoco la moka, Luigi uscì in mutande sul balcone della cucina, per gustarsi il paesaggio mentre attendeva il gorgoglìo della vecchia caffettiera. L’interno di Scoléa Marina brillava della sua solita mediocrità mattutina. Il paese, figlio deforme del mare e del boom edilizio, era abitato da un centinaio di abitanti, più una cinquantina di turisti nel periodo più affollato dei mesi estivi. Questi godevano sicuramente delle sue spiagge vuote di giorno e dell’atmosfera tranquilla sul lungomare la sera; meno, di un paese costruito senza che vi fosse una piazza, un luogo di ritrovo, ma solamente una distesa di blocchi bianchi, gialli e azzurrini, e una sgraziata chiesa moderna, che, come sagrato, aveva un parcheggio. Nonostante fossero anni che Luigi non tornava su quel balcone – e come erano passati quegli anni impietosi sul volto che poco prima aveva visto riflesso nello specchio — Scolèa Marina sembrava uscita dal congelatore della memoria di Luigi, tale e quale a come vi era entrata venticinque anni prima: ingenua e innocente, tutto sommato, nella sua bruttezza seccata dal sole.

Dopo aver bevuto il caffè, Luigi passò la mattinata sbrigando un po’ di faccende di lavoro. Lavorava quasi da dieci anni per una grossa agenzia delle Nazioni Unite, occupandosi di sviluppo agricolo e rurale. Guardando le foto di un progetto in Tunisia, venne per un attimo arrembato da un ricordo: una casa in campagna, non lontano dal centro di Scolèa Marina, appartenente alla sua famiglia da generazioni, che era stata venduta esattamente l’anno dopo la pandemia. Era precisamente da allora che Luigi non metteva piede in paese.

A mezzogiorno venne il momento di pensare al pranzo. Di fronte al frigo vuoto, Luigi decise di uscire a comperare qualche cosa da mangiare al mare. Non gli dispiaceva per altro uscire a quell’ora. Fin da piccolo l’afa gli provocava un senso di piacere masochistico. Per un attimo la vista e i sensi gli si annebbiavano, e poi velocemente tutto spariva, lasciandogli tracce di ebbrezza nel cranio. Nel tragitto, passò di fianco ai binari della stazione. Un tempo, a fianco ai binari, crescevano selvatici alberi di fico e di vite, e piante di more in un letto di canne secche e alte, che ballavano quando s’alzava la brezza di mare. Di quella natura viva, ora non rimaneva che un banale e triste tratto di ferrovia, senza canne, more, fichi o viti. Una fila di macchine attendeva a motori accessi che si alzasse il passaggio a livello. Una volta arrivate, invece di passare oltre come avevano sempre fatto (e soprattutto, come Luigi si aspettava) le carrozze del treno di fermarono alla stazione di Scolèa, scaricando sulla banchina un gruppo di ragazzi diretti in spiaggia e qualche venditore ambulante, carico di merci frivole. Questo tradimento del treno turbò non poco Luigi, rischiando di far crollare quasi del tutto la sensazione di trovarsi in un porto sicuro. Le piccole ferite dell’animo, che amava stuzzicarsi come un bambino con i suoi denti da latte sul punto di cadere, si lenirono, duecento metri più in là. Da sempre il mare aveva il potere di tranquillizzare l’animo sennò tormentato di Luigi; e, almeno quello, sembrò non essere cambiato.

Il suono delle onde, da promessa sussurrata in sottofondo, era diventato un manto blu solcato dalla bianca spuma del sole, fascia centrale di un quadro semplice ma intenso come quelli dei macchiaioli: in basso l’oro della sabbia, in alto un cielo limpido e senza nuvole. La spiaggia era praticamente deserta. Nell’aria c’era un forte odore di fritto. Seguendolo, Luigi si ritrovò di fronte ad una piccola baracca di legno, dove un barista di mezza età tozzo e con un vistoso neo sul collo stava sistemando degli arancini appena sfornati in una teca di plastica. Luigi ne acquistò uno e poi andò in spiaggia. Ma una volta messo piede nella sabbia, buttò disordinatamente tutto per aria, e corse a capofitto verso il bagnasciuga, da cui si tuffò in acqua senza più forza nelle gambe.

Avesse aspettato ancora qualche secondo probabilmente sarebbe stramazzato al suolo. Luigi se ne rese conto solamente una volta riemerso, rivitalizzato dalla frescura dell’acqua marina. Fece qualche bracciata verso il largo per tonificarsi. Quando si fermò, il litorale del Golfo di Scolèa gli si aprì di fronte come un ventaglio. A Nord il Mar Jonio si perdeva fin oltre Isola Capo Rizzuto, terra promessa indistinta sull’orizzonte, butterata dai profili sottili delle pale eoliche; a Sud la vista era impedita dal solito promontorio attraversato un po’ dalla macchia mediterranea, un po’ dalla statale. Guardando verso la spiaggia, Luigi notò che dei quattro colori che ricordava, solamente uno resisteva sui tessuti degli ombrelloni, il bianco dell’immortale Lido Borbone. Tornato a riva, mangiò il suo arancino, e decise di avvicinarsi al Lido. Di fianco si trovava, da sempre, una fila di umili e poco spaziose casette con vista mare. Queste erano state il sogno proibito di Luigi, quando da ragazzino andava a vedere l’alba in compagnia degli inquilini di quei piccoli fabbricati in cemento, candidi e semplici, una vera e propria linea di frontiera fra la spiaggia di agosto e il mondo reale. Non c’era segno di presenza umana, eccezion fatta per un tavolo su cui languivano gli avanzi di un pasto alla mercé delle mosche.

Dopo aver preso un po’ di sole, Luigi venne disturbato dai ricordi un’ultima volta. Un pallone da beach volley lo urtò sulla spalla destra. Alzò lo sguardo e incontrò due occhi spauriti, di un ragazzo esile e abbronzato, che timidamente chiedeva

“Palla…”.

Per un attimo fu tentato di chiedergli di giocare, preso dall’entusiasmo. Ma qualcosa lo inibì da esprimere quel desiderio insignificante, la paura di turbare un ordine piccolo, eppure perfetto e da preservare. Luigi restituì la palla al ragazzo, e dopodiché cominciò a osservare attentamente la partita, in maniera discreta, da dietro gli occhiali da sole. Niente avrebbe potuto deturpare quel piccolo angolo di paradiso terrestre più di un quarantenne leggermente scottato, che, per ingoiare la sua crisi di mezza età, chiede a quattro ragazzi di giocare a squadre dispari, e senza umiliarlo eccessivamente.

Verso le sei del pomeriggio Luigi decise di salire al Lido a bersi un drink. Per raggiungerne la terrazza, il percorso passava dalla veranda comune delle casette sulla spiaggia. Questa era ora popolata dai figli dell’unica famiglia ancora lì in vacanza, i quali correvano su e già dalla veranda alla spiaggia in un moto vorticoso di giochi e risate. Dalla porta dell’abitazione arrivava della musica. Era una vecchia canzone, un reggaeton dimenticato da tutti. Stava ancora osservando divertito l’irrequietezza dei bambini, quando la madre uscì di casa per dirgli di andare a fare la doccia. Luigi si girò, e non appena i bambini entrarono in casa ancora rapiti dal gioco, il suo sguardo incontrò quello della donna.

I suoi grandi occhi castani non riconobbero subito il viso rosso e incredulo che li fissava, invece, sbigottito. Mai Luigi avrebbe potuto confondere quegli zigomi perfetti, ignorati dal tempo, e quelle labbra sottili, per quelle di qualcun’altra. I capelli erano solo leggermente accarezzati da un velo candido, che sembrava esaltare più che fiaccare la sfumatura dorata che Luigi ricordava. Anche la donna aveva riconosciuto Luigi, e gli aveva rivolto un sorriso smagliante ed entusiasta, che lo stordì definitivamente.

“Luigi?”

“Miriam…come…come stai?” rispose incerto Luigi, messo in soggezione dagli sguardi impauriti dei bambini accorsi a spiare, protetti dal pareo rosa della madre, quello sconosciuto che sembrava conoscerla.

“Chi è quello mamma?” chiese il più piccolo, un grazioso esserino bianco, biondo e con gli occhi azzurri.

“Veniva qua al mare insieme alla mamma…adesso andate a prepararvi che fra un po’ passa la nonna a prendervi!” e detto questo i bambini obbedirono immediatamente, lasciando Miriam e Luigi da soli.

“Cosa ci fai qui? Non ti vedevo da un sacco di tempo” disse lei senza smettere di sorridere.

“Ho deciso di riposarmi un po’…a differenza degli ultimi anni…ho lavorato molto, ecco…” rispose Luigi tentando maldestramente di giustificarsi, per poi aggiungere:

“C’è qualcuno degli altri?”

“Non credo, penso siano ripartiti tutti ormai…calabresi e non”. Poi fu il turno di Luigi.

“E tu invece? Sei in vacanza?”

“Sì…preferisco venire quando c’è meno gente…”.

A quel punto, Luigi non seppe più cosa dire. Un fuoco lo divorava dal basso ventre fino alla bocca dello stomaco, e da un lato lo implorava di poter sentire ancora una volta la sua voce, dall’altro glielo impediva bruciando a Luigi le parole e la lucidità. La fuga gli sembrò l’opzione migliore.

“È stato bello vederti…” abbozzò Luigi tentando di girare i tacchi e andarsene, ma subito Miriam lo incalzò

“Ma come, vai già? Quanto rimani?”. Per risponderle Luigi si contorse in una camminata da gambero, per combattere la tentazione di rimanere lì a farsi traviare dall’attrazione e dall’imbarazzo.

“Sto ancora qualche giorno”

“Allora stasera ti andrebbe di bere qualcosa? I bimbi sono dalla nonna a dormire, potremmo vederci al Lido per…le dieci e mezza?”. Incredulo, Luigi ribatté:

“Io e te? Va benissimo…alle dieci e mezza allora!” e si voltò per andarsene, dopo essersi stampato bene in testa il sorriso con cui Miriam lo aveva salutato.

Tornato a casa, Luigi aprì febbrilmente l’armadio cercando qualcosa di indossabile per l’appuntamento di quella sera. Dopo aver trovato in una maglietta bianca e dei bermuda beige l’abbinamento meno trasandato, si decise a farsi una doccia. Preso dal moto di preparativi e premure estetiche, si dimenticò di cenare; tanta era stata l’attenzione nei confronti delle unghie della mano destra, lasciate solitamente libere di crescere, o della congiuntura del monociglio, disgrazia ereditata da qualche ramo familiare sardo. Per l’ansia dell’appuntamento, finì per arrivare leggermente in anticipo. La terrazza dove servivano gli avventori serali dava sul mare notturno; quella vista, e la tensione che gli contorceva le budella, provocarono qualche vertigine a Luigi, che si immaginò ad un passo dal vuoto siderale dello spazio, su un bar intergalattico con vista Andromeda. Il loro tavolo si trovava al lato opposto della terrazza rispetto alle casette sul mare. Senza saperlo, Luigi aveva scelto il posto migliore per ammirare, per intero, la sfilata che Miriam fece uscendo dalla penombra, raffinata come la luna sotto i potenti lampioni bianchi del Lido.

Aveva un vestito blu notte, corto sulle cosce lisce e aperto sul petto. Una piccola collana argentata le cingeva il collo, dandole un tocco di regalità, bilanciata da un sandalo nero dalla trama essenziale. Una bellezza di una semplicità sconvolgente. Preso dalla contemplazione, Luigi ci mise qualche secondo a notare che Miriam lo stava cercando con lo sguardo per i quattro angoli della terrazza. Le fece un cenno con la mano per attirarne l’attenzione, e quando arrivò al tavolo, la colse di sorpresa alzandosi per scostarle la sedia.

“Grazie…” rispose, disorientata, Miriam.

“Prego, principessa” replicò Luigi, tentando di mascherare dietro ad una finta ironia quel piccolo passo falso, dovuto alla smania di compiacerla.

“Lo sai che vuol dire proprio questo Miriam? Significa ‘principessa’!” disse. ‘E forse l’ho sempre saputo’ ebbe la decenza di pensare, e basta.

“Cosa prendiamo?” chiese Miriam di fronte al silenzio di Luigi. I due si guardarono, cercando, dietro le rispettive espressioni interrogative, di comprendere se anche l’altro aveva intenzione di arrivare ubriaco a fine serata.

“Io avrei proprio voglia di un London Mule” ruppe il ghiaccio Luigi, sfruttando un suo vecchio asso nella manica: sfoggiare la conoscenza di un drink diverso dal Gin Tonic, pur non sapendo distinguere un whisky da una limonata.

“Anche io prenderò un drink, dai…” rispose Miriam quattro secondi prima di ordinare al cameriere uno Sbagliato.

Nell’attesa del drink, i due si misero vicendevolmente al corrente dello stato delle rispettive esistenze. Miriam aveva intrapreso una carriera da impiegata in un’agenzia turistica a Torino, per lo più rivolta ai villeggianti stranieri in città. Luigi suscitò la solita reazione meravigliata quando riferì di essere entrato a lavorare in una grossa agenzia delle Nazioni Unite, e che grazie a quel magnifico lavoro aveva avuto l’opportunità di viaggiare in tutti i continenti del globo.

“E’ una cosa bellissima!” giudicò sinceramente Miriam. Luigi quasi si pentì di aver omesso tutta la delusione e la stanchezza che negli anni aveva accumulato in tutti quei viaggi, in tutti quei progetti dove impotente aveva dovuto assistere ad ogni genere di meschinità o avidità, a discapito di ogni nobile obiettivo. Dopo qualche sorso, la conversazione si fece più sciolta. Luigi intrattenne Miriam con qualche storia africana di virus intestinali e funerali tribali, chiedendole poi curioso l’entità del turismo asiatico nel centro di Torino. Alla fine del primo giro, e subito all’inizio del secondo, a Luigi sembrò il momento giusto per pilotare la conversazione lì dove serviva.

“Sono bellissimi”

“Chi?”

“Intendo i tuoi bambini, scusa…”

Miriam rise.

“Solo il ragazzino biondo è mio figlio, gli altri due sono i miei nipotini, sono i figli di mia sorella”.

Ora che la breccia era stata aperta, fin dove si sarebbe potuto spingere? Era già arrivato il momento di temporeggiare?

“Ma i capelli biondi e gli occhi azzurri…li ha presi dalla tua famiglia?” domandò, auto-concedendosi il beneficio del dubbio.

“No, no…” rispose Miriam, troncando il discorso con un lungo sorso del suo secondo Negroni.

“Quanti anni sono che non venivi più a Scolèa?” si sentì domandare Luigi.

“L’ultima volta è stata l’estate del 2020, ai tempi della pandemia”

“È vero! Che tempi, ci pensi? Ma perché poi non sei più sceso?”. Luigi in questo caso fu quasi onesto. Non lo sapeva. O, almeno, non lo aveva saputo fino a quel pomeriggio. Era dall’anno della pandemia che aspettava il momento in cui quell’incontro sarebbe stato meno letale; evidentemente quel momento non era ancora arrivato.

“Guarda Miriam, è successo quasi per caso…prima il Servizio Civile, poi lo scambio con la Cina, poi lo stage…e poi ho iniziato subito a lavorare…è andata così. Tu invece? Sarai sempre venuta immagino…”

“In verità no” lo soprese Miriam. Esitò un secondo prima di proseguire.

“Sempre da quell’anno, ho passato tutte le estati nelle Marche con il mio ragazzo…tu lo hai mai conosciuto?”. Luigi rintracciò nella memoria la foto di un ragazzo biondo con gli occhi azzurri, vista venticinque anni prima sullo schermo di un vecchio IPhone.

“Allora come fai a sapere che non sono più venuto?”,

“Me lo hanno raccontato gli altri, quando li ho rivisti in questi giorni. Ma anche non me l’avesse detto nessuno, te lo si leggeva in faccia questo pomeriggio. Avevi la stessa espressione che penso di aver fatto quando sono finita di nuovo qui”

“Stavo solo per svenire dal caldo…perché non mi hai salutato se mi hai visto?” domandò Luigi a metà fra il curioso e l’innervosito.

Miriam si fece di colpo più fredda. Il viso le si irrigidì, e il suo sguardo si fissò sul fondo del bicchiere, in cui rimestava il cocktail con i cubetti di ghiaccio prossimi allo scioglimento. Poi fece un respiro profondo e si liberò dal peso che la turbava.

“L’ultima volta che ci siamo visti, se ci pensi…insomma, l’anno della pandemia è stato l’anno in cui hai provato a baciarmi, in discoteca…se ci pensi non ci parliamo praticamente da allora”. Terminò quella confessione con un sorriso sereno e liberatorio, ammettendo con candore.

“Ero un po’ in imbarazzo, se devo essere sincera…scusami, non è stato un atteggiamento molto maturo”.

Luigi, nel risponderle, fu comprensivo quanto subdolo.

“Avrei dovuto immaginarlo, non ti preoccupare lo capisco…spero che adesso non ti vergognerai di presentarmi a tuo marito!”

Luigi era solito reagire con scherzi o battute alle situazioni che lo facevano innervosire, ed era questa un’arte in cui si sentiva piuttosto navigato. Tuttavia, complice forse il secondo London Mule, questa volta l’esperienza non lo aveva aiutato a comprendere, dal viso e dalle espressioni di Miriam, che era il caso di porre un limite alle provocazioni. Dopo quell’uscita, lei inizialmente girò lo sguardo verso il mare, poi si mise una mano di fronte agli occhi, nascondendoli; di modo che fu troppo tardi quando Luigi, intrappolato in un’espressione faceta, si accorse che gli occhi di Miriam luccicavano di un pianto prossimo. Per la verità, fu necessario che Miriam si girasse per scolare in un sol sorso il resto del suo Negroni; dopodiché si alzò, e recuperato un minimo di contegno si congedò da Luigi con un forzato ‘grazie per la serata’. Andandosene a passo spedito verso casa, fece risuonare nel cervello di Luigi il secco suono dei suoi sandali, unico rumore udibile, oltre alla risacca delle onde del mare, in quella terrazza ormai vuota. Ci mise qualche secondo, ma infine si decise e, pagati i drink, si alzò per inseguirla.

La ritrovò esattamente come immaginava, seduta al tavolo dove quel pomeriggio aveva visto gli avanzi, a fumare una sigaretta. Il marito di Miriam doveva essere morto, e poco tempo prima. Lo sentì arrivare, senza girarsi.

“Non trovi anche tu che di fronte a questo mare anche le più grandi preoccupazioni, i più grandi dolori perdano all’improvviso importanza? L’ho presa apposta, questa casa…”

Luigi prese posto all’altro lato del tavolo, e sfilò una sigaretta dal pacchetto che vi era poggiata sopra. L’accese con l’accendino che teneva in tasca.

“Fa con comodo!” scherzò Miriam.

“Mi hai lasciato i Negroni da pagare, fai poco la tirchia…” rispose Luigi, strappandole una piccola risata. Per qualche secondo rimasero soli in compagni del fumo delle sigarette, Miriam ricercando, nel ritmo della boccata, di riportare il respiro ad una frequenza normale, Luigi nel disperato tentativo di transumare nella cenere, che pian piano consumava la sigaretta, la fine di un desiderio che, beffardo, sembrava invece avvolgerlo, ora più che mai.

“Mi dispiace molto Miriam…”

“No, dispiace a me. Non potevi saperlo” e si girò, per rassicurarlo nuovamente con uno sguardo.

“Ho reagito in modo isterico solo perché questo posto ha il potere di alienarmi dalla realtà…poi però a volte la realtà ritorna…”

“Già…” rispose Luigi.

“Sai, credo fosse anche il motivo per cui provai a baciarti quella sera. Ti implorai di baciarmi, a dire il vero…”. Miriam rise, compiacendo non poco l’ego di Luigi.

“Mentre scrivevo la tesi, al mare, in quella casa meravigliosa in campagna…”

“Mi han detto che l’avete venduta!”

“…sì, purtroppo. Ti stavo dicendo, con i pomeriggi passati a giocare a beach volley, e le sere a ballare tutti appiccicati, assieme a mille altri sconosciuti subito dopo una pandemia globale…io mi ero sentito per un attimo fuori, o anzi, al di sopra della realtà.”

“Aggiungerei che eri anche molto ubriaco” cercò di scherzare Miriam. Ma questa volta, fu lei a non comprendere realmente le parole di Luigi, che replicò con un sorriso di rara amarezza.

“Anche i giorni dopo, in verità, non riuscivo a smettere di pensare a te…”, e Miriam nuovamente lo interruppe, credendola ancora una conversazione innocente.

“Poi però sei tornato dalla tua ragazza, no?”

Luigi non rispose alla domanda della donna, e cadde in silenzio tanto lungo e assorto, che finì per incuriosirla.

“A cosa stai pensando?”

“Quella sera, tu, mi hai fatto una domanda. Una domanda che mi ha tormentato almeno fino a quando Giulia non mi ha lasciato”. Luigi fece una pausa per vedere se i ricordi di Miriam erano nitidi quanto i suoi.

“Mi hai chiesto se credessi nell’amore. Sul momento ti risposi di no, sicuro. Ma per tutti i giorni successivi, ho continuato a pensarci. Mentre scrivevo la tesi, facevo il bagno o giocavo a beach volley, oppure mentre ubriaco ti guardavo ballare da lontano…e sono arrivato alla conclusione che non potevo rispondere a quella domanda, perché in realtà io non avevo la minima idea di che cosa fosse questo ‘amore’”

“Sì che lo sapevi” rispose Miriam. Finalmente rasserenata, stava guardando il riflesso della luna sul mare.

“Lo stavi vivendo, quindi lo sapevi”.

“L’unica cosa che stavo vivendo era un dubbio lacerante, talmente intenso che mi rese completamente assente, pauroso, tiepido e insicuro nei confronti della ragazza che, per prima e unica, sosteneva invece con assoluta certezza di essersi innamorata di me”

“E qual era questo dubbio?”

“Continuamente io mi chiedevo se l’amore fosse ciò che mi spingeva alla fedeltà, alla tenacia, alla sicurezza e alla stabilità che dopo quattro anni Giulia significava per me, o se invece era quel bruciore adolescenziale che ogni volta che ballavi mi annebbiava la vista e mi implorava di prenderti e farti mia, senza pensarci!”

“E ora? Lo hai capito?” gli chiese Miriam, pacata. Luigi fissò Miriam con una tale intensità che questa si girò verso di lui, distogliendo per un attimo lo sguardo dal crepitio lunare.

“Adesso sì, penso di sì, Miriam”

Miriam guardò Luigi con uno strano sguardo, privo di qualunque voluttà o complicità, comprensiva quanto distaccata dai patemi di quel ragazzo invecchiato nel corpo, ma non nello spirito, rimasto irrequieto e agitato per una questione da ventenni.

“Io invece ho vissuto, e quindi so e saprò per sempre cos’è, l’amore”

“E’ cos’è?” le chiese Luigi.

“E’ ciò che resiste a tutto, anche alla morte, come un faro in mezzo al mare, luminoso e saldo sul suo scoglio contro la peggiore delle tempeste”

Luigi rimase di sasso, di fronte a quell’inaspettata saggezza. In un estremo atto di disperazione, fece a Miriam una domanda, conscio che a prescindere dalla risposta probabilmente sarebbe stata l’ultima.

“Ti sei mai chiesta cosa sarebbe successo se quella sera mi avessi baciato? “

“Assolutamente no, Luigi”. Detto questo si alzò, e dopo avergli dato un dolce bacio sulla fronte gli mormorò:

“Buonanotte, Luigi”

E rientrò in casa, senza aspettare che l’ospite se ne andasse.

Rimasto solo, Luigi si alzò per rincasare. All’improvviso, un blackout fulminò i lampioni, e la strada si fece buia. Tutto ciò era perfettamente in linea con il suo stato d’animo: né triste, né sollevato, semplicemente imperscrutabile. A un certo punto della strada, senza nemmeno rendersi conto di dove si trovava, decise di approfittare del buio per scavarsi dentro guardando le stelle, e assorto nell’astronomia, credette di recuperare un poco di serenità. Forse era finalmente giunto il momento di abbandonare quella pagina della sua vita, pensò di fronte alla maestosità del Grande Carro. Un gatto randagio gli si strofinò sulle gambe, distogliendolo dalla contemplazione celeste.

Fu allora che il treno lo investì con violenza inaudita, scaraventando il corpo decine di metri più in là, in una ribrezzante pozza di sangue. Prima di perdere i sensi, Luigi credette di vedere il volto di Miriam, e di risentire le sue parole, sebbene fosse solamente il gatto che, scampato all’impatto, curiosava su quel curioso corpo paralizzato. Ma l’ultimo miagolio suonò sicuramente così:

“Buonanotte, Luigi”.

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