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Aprile
24 Aprile 2023

DA NESSUNA PARTE

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«Per questo lo spettatore non si sente presso di sé da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto.»

G.Debord, La società dello spettacolo

Comincio l’articolo con una citazione della – a buona ragione– iperconosciuta opera di Guy Debord non per flexare un po’ di cultura accademica; spero di aver fugato ogni dubbio a riguardo con questa mia ultima scelta lessicale. La frase di Debord mi serve perché nella sua essenziale bellezza è l’inizio perfetto del percorso in cui chiedo al lettore di seguirmi, nonostante le parole. Chiedo al lettore uno sforzo titanico fuori dalla narrazione, un esercizio di realtà, per cercare un primissimo ritaglio di autenticità, oltre i ritagli dello spettacolo.

Invito ciascuno a portare l’attenzione a quanto sia facile e, dunque, necessariamente conforme (in senso tanto sociologico quanto etimologico) e conseguentemente distante dall’obiettivo di ogni ricerca fuori dal sistema di dominio, parlare di spettacolo onnipervasivo facendo riferimento all’era dei social, agli influencer e ai balletti trash su TikTok, o, in alternativa, al medium televisivo, religione laica della generazione precedente. Non farò esempi di come lo spettacolo si manifesti e si insinui in ogni nostra azione, in ogni momento. Eccellenti autori ne hanno scritto e anche se alcuni di loro trattano un periodo storico antecedente all’attuale e situazioni lievemente diverse dall’esatto quadro odierno, non è difficile applicare le loro teorie alla nostra quotidianità.

Tutti scrivono qualcosa e quasi nessuno legge. La smania di autorappresentarsi attraverso la parola scritta funge da versione intellettuale del selfie su Instagram: se lo spettacolo è dappertutto, la deduzione logica è che, per esistere, «io» deve ritagliarsi un posto dentro lo spettacolo. L’invito di oggi è invece l’opposto, è l’invito a spaccare lo spettacolo attraverso una breccia oltre la trama dello spettacolo, che, controintuitivamente, non può essere ottenuta con la metanarrazione, né con la veracità nevrotica. La prima poteva essere efficace agli inizi del Novecento, ma non credo che possa fare effetto sugli allenatissimi consumatori culturali postmoderni, procurando in loro, nella migliore delle ipotesi, una reazione annoiata davanti al «già visto». La seconda, assai peggiore, riflette la moda di amplificazione dell’autorappresentazione spettacolare della «normalità».

Per spaccare lo spettacolo occorre fare un unico esercizio di memoria: occorre ricordare che abbiamo creato le parole, e che ci sono le cose, e che le cose sono reali e che invece le parole non lo sono. Dove le parole sono tutto, non solo l’insieme dei segni grafici, non solo l’insieme dei fonemi o dei gesti, ma anche tutti gli arbitrari ritagli di realtà che hanno assunto tale livello di esistenza autonoma da sostituire l’unica realtà effettiva, la realtà delle cose. Ora, non sto dicendo che non vi sia alcunché al di fuori delle cose, bensì che, per generare un pensiero fuori dallo spettacolo – o fuori dal dominio, che è la stessa cosa – occorre in primo luogo imparare a pensare fuori dalle parole, e il primo passo è reimparare il mondo da zero, a partire dai suoi «componenti» di base.

Non c’è alcun «albero» di parole, ma c’è l’albero accanto a cui cammino quando vado al fiume, che ha la sua corteccia, modellata nel suo modo, e la sua specifica altezza e il suo odore che è simile a quello di altri alberi simili, ma che è solo suo perché solo lui si trova vicino a quel punto del fiume dove l’acqua scorre sopra una pietra con una specifica forma, rallentando e creando un gorgo dove ristagna, mescolandosi a insetti e foglie e cambiando odore, che si va a mischiare a quello dell’albero e che diventa solo suo. Questo è solo un racconto, ancora, e non è la realtà, ma chi legge sa cos’è la realtà e sa che non è il racconto.

Ecco dunque l’esercizio: se di fronte a una realtà riesco a non fuggire, riesco a resistere di fronte all’immensità di una cosa che è, allora posso dire, per un istante, di essere sfuggito alle maglie dello spettacolo-dominio, di aver vissuto, per un attimo, da nessuna parte.

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