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Gennaio
30 Gennaio 2023

POVERI CONTRO POVERI

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Sono i poveri a mantenere il sistema che li costringe alla povertà

Che differenza fa sedersi in prima o in seconda classe sul treno? Lo so che nessuno usa più il termine “classe”, figuriamoci per descrivere la carrozza di un treno o per sottolineare le differenze di comfort tra un biglietto e un altro. Più sovente ci imbattiamo in termini come “economy” o “smart”, ma – non vogliatemene – si leggono “seconda” o “terza classe”. È sconsolante accorgersi all’improvviso che tutto ciò che ti circonda appare semplicemente fuorviante e truffaldino. Ma non è, credo, una volontà precisa da parte delle compagnie ferroviarie quello di cambiare il senso alle parole. Più che altro è un adeguarsi alla concezione generale per cui i poveri non sanno di essere i poveri e che “smart” significa fondamentalmente “seconda classe” e non “prima”. Un tempo sapevamo (anche con un certo orgoglio d’appartenenza) di essere poveri o meno benestanti e acquistavamo un biglietto di seconda classe, perché sapevamo che la società era divisa in classi e c’era qualcuno più fortunato (oppure un po’ più ladro) di noi. E un po’, diciamocelo non troppo a bassa voce, questo ci faceva rosicare e ci faceva sperare in una società più giusta. Bei ricordi i termini come “giustizia sociale” eh! Quando ancora si poteva davvero dire con sincerità che “il denaro non rende felici”.

Vivo in questo tempo e ormai mi pare di capire che oggi l’affermazione “il denaro non rende felici” è del tutto priva di fondamento scientifico. Se osservo, più o meno da vicino, il comportamento della maggioranza delle persone che mi passano accanto, anche compreso colui che guardo allo specchio tutte le mattine, mi sembra di intravedere esseri del tutto inconsapevoli della propria esistenza, proni soltanto al desiderio di arricchimento e di consumo. E questo, a quanto pare, le rende assai felici, tanto da ripetere i medesimi comportamenti giorno dopo giorno, anno dopo anno, nel rinnovato tentativo di fare più soldi del giorno prima o dell’anno prima. Se le persone pensassero che il denaro renda tristi, credo che rifiuterebbero volentieri di guadagnarne dell’altro. E siccome così non è, giungo alla conclusione che il denaro – o quantomeno la sua ricerca – le renda davvero felici. Così hanno insegnato loro e così inconsciamente muovono le proprie esistenze attraverso un sentiero prevedibile, già scritto, rinnovato di generazione in generazione: “nasci, lavora, consuma, crepa”.

Se non è il possesso del denaro in sé a rendere felici, ma la sua potenziale capacità di scambio con qualcosa che possiamo impunemente consumare, chiederei solo la pazienza di comprendere che in fondo il concetto è il medesimo: senza consumo il denaro non avrebbe senso d’esistere.

Nessuno viene escluso dal girone infernale dei corruttibili, dal più ricco desideroso di accrescere il proprio capitale, all’impiegato che preferisce spendere il proprio salario durante il weekend, così come l’ultimo tra i più poveri del pianeta che dispone del proprio corpo come unica merce di scambio per ricevere quel (poco) denaro che gli consente di sopravvivere un giorno in più. Tutti concorrono alla perpetuazione del sistema. Coloro che leggendo queste righe affermino di essere diversi dalle categorie appena descritte, sappiano soltanto che stanno mentendo a se stessi. Anche io, molto spesso, mento a me stesso e d’altronde siamo esseri mortali e della fame ne facciamo, atavicamente come tutti gli esseri viventi del pianeta, la nostra acerrima nemica e nessuno dovrebbe farcene una colpa, a patto di esserne pienamente consapevoli.

È dunque necessario, per essere sinceri con noi stessi, concedersi la consapevolezza della propria condizione. Se fossi una donna o un uomo appartenente all’alta borghesia trarrei un certo e sicuro vantaggio dal sistema in cui vivo, perché la mia principale preoccupazione sarebbe soltanto quella di mantenere o accrescere la mia grande ricchezza. D’altronde è il sistema stesso che protegge l’opulenza, per la natura propria del sistema. Se appartenessi alla categoria della medio-piccola borghesia o a quella dei poveri del pianeta, il discorso sarebbe ben diverso e infatti lo è.

I dati che facilmente possiamo rimediare parlano chiaro ormai da sempre: una piccolissima percentuale degli esseri umani (circa l’1%) detiene quasi la metà della ricchezza mondiale. Il che significa che il 99% degli esseri umani devono dividersi la restante metà. Circa il 10% di questi non se la passa male e trae ancora vantaggio dal sistema, ma quasi il 90% della popolazione mondiale vive in una condizione di precarietà o povertà (fonte dell’estremista e bolscevica Crédit Suisse). Questi dati non sortiscono alcun senso di rivalsa, né di orgoglio, in quel 90%, almeno non nelle proporzioni che logicamente ci si aspetterebbe. Anzi, si accetta con normalità la disparità tra portafogli, tra abitanti dello stesso Paese, così come tra abitanti di continenti diversi. «È normale, il mondo va così, è sempre andato così, non possiamo farci nulla, fermiamoci a bere uno spritz, dove vai in vacanza l’estate prossima?»

L’inconsistenza di proposte alternative si fa sempre più fitta. Passiamo l’esistenza a rincorrere una ricchezza materiale che mai arriverà, poiché il sistema è pensato non per distribuire ma per accentrare le ricchezze nelle mani di pochi. Se fosse solo una questione di disponibilità economica potrei tradurre questa accettazione della realtà – da parte del nostro 90% — come un “sano” accontentarsi di quello che si dispone. Ma non credo di essere smentito se dico che il portafogli influenza l’accesso ad una sanità efficiente, con essa l’aspettativa di vita, il rispetto dei propri diritti civili, l’accesso all’istruzione e potrei continuare per molte altre righe, ma riassumendo potrei dire che oggi la ricchezza (o la povertà) influenza la vita intera degli esseri umani. Allora non si tratta di accontentarsi, ma di essere fondamentalmente in errore (gli eufemismi sono il mio forte).

Il punto è che quel 90% crede (erroneamente) di poter passare prima o poi nell’altro 10% della popolazione. A qualcuno potrà pure capitare, non lo escludiamo, ma quali sono le probabilità realistiche? Non solo ci crede, ma lo fa anche convintamente e, al netto di indiscutibili e rigorosi dettami religiosi, ci troviamo di fronte a una massa di raggirati, di truffati. A tutti viene escluso anche ogni minimo pensiero di un’alternativa al sistema che li costringe alla propria esistenza poiché, sappiamo bene, l’uccellino nato in gabbia non sa che può volare.

In fondo ci viene garantita (dall’altro 10% della popolazione) quella sopravvivenza che in modo minimo possiamo definire dignitosa (ognuno con il proprio metro di paragone in base alla gabbia in cui gli è capitato di nascere), ma che negli ultimi decenni, a colpi di globalizzazione, di sperequazione sistemica e di cambiamenti climatici, si è ridotta sempre di più all’osso. D’altronde siamo esseri adattivi – il 90% della popolazione lo è ancora di più – e ci facciamo andare bene anche le ossa.

Il denaro (poco) che ci rende felici non è che l’ombra di un grande desiderio, il desiderio che quel denaro un giorno potrà forse renderci felici. L’accettazione di questo desiderio come unico metro di paragone per l’esistenza su questo pianeta è solo il frutto di un duro lavoro di persuasione portato avanti egregiamente dai nostri “ricconi” del 10%. Poiché questi conoscono e usano ancora la parola “classe”, la lotta, quella di classe, per ora l’hanno vinta loro, 90 a 10.

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