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Luglio
14 Luglio 2022

LA RIBAL­TA DEL CINE­MA GIAP­PO­NE­SE: DRI­VE MY CAR

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Ci sono mol­ti modi per rac­con­ta­re una sto­ria, infi­ni­ti potrem­mo dire, e poi ci sono quei regi­sti che han­no uno sti­le tut­to loro, raro. Per­so­ne che comu­ni­ca­no in manie­ra uni­ca, taglien­te e sen­si­bi­le da non lascia­re indif­fe­ren­te lo spet­ta­to­re. È il caso di Ryū­su­ke Hama­gu­chi, regi­sta giap­po­ne­se che con il suo ulti­mo film, Dri­ve My Car, è riu­sci­to a toc­ca­re le cor­de più pro­fon­de dell’animo uma­no. Hama­gu­chi si è sem­pre con­trad­di­stin­to per il suo sti­le cine­ma­to­gra­fi­co fuo­ri dagli sche­mi e dal­le con­ven­zio­ni. Il suc­ces­so da par­te del­la cri­ti­ca arri­va con il suo quin­to lun­go­me­trag­gio, Hap­pīa­wā, pre­mia­to con il Par­do per la miglio­re inter­pre­ta­zio­ne fem­mi­ni­le al Festi­val di Locar­no del 2015. La pel­li­co­la susci­tò parec­chio cla­mo­re per la sua lun­ghez­za: ben cin­que ore di film, e il tut­to reci­ta­to da atto­ri non pro­fes­sio­ni­sti. Con Il gio­co dell’amore e del­la fan­ta­sia (2021), arri­va la con­sa­cra­zio­ne defi­ni­ti­va per il regi­sta giap­po­ne­se, pre­sen­ta­to al 71º Festi­val di Ber­li­no, dove si è aggiu­di­ca­to l’Orso d’argento, gran pre­mio del­la giu­ria. Il film, divi­so in tre dif­fe­ren­ti rac­con­ti tra loro, è l’inizio di una serie di sto­rie anto­lo­gi­che, che nel­la men­te del regi­sta sono le pri­me di set­te. Dri­ve My Car è il secon­do adat­ta­men­to let­te­ra­rio di Hama­gu­chi, nel 2018 era usci­to nel­le sale con il film Nete­mo same­te­mo, trat­to dall’omonimo roman­zo di Tomo­ka Shi­ba­sa­ki. 

Dri­ve My Car, inve­ce, attin­ge dall’omonimo rac­con­to di Haru­ki Mura­ka­mi, il più impor­tan­te scrit­to­re giap­po­ne­se viven­te, e ad altre due sto­rie: Sche­he­ra­za­de e Kino, tut­te con­te­nu­te nel­la rac­col­ta Uomi­ni sen­za don­ne. Quan­do Hama­gu­chi ha invia­to nel det­ta­glio il pro­get­to a Mura­ka­mi, lo scrit­to­re non ha rispo­sto al gio­va­ne regi­sta per mol­to tem­po. Sola­men­te dopo sei mesi Mura­ka­mi ha dato il suo con­sen­so alla rea­liz­za­zio­ne del film, con una rispo­sta strin­gen­te e sen­za aggiun­ge­re com­men­ti. Mura­ka­mi non con­ce­de qua­si mai i dirit­ti dei suoi roman­zi, ma con Dri­ve My Car sape­va che i suoi testi sareb­be­ro fini­ti in buo­ne mani.Vincitore del Prix du scé­na­rio al 74º Festi­val di Can­nes, del Gol­den Glo­be per il miglior film in lin­gua stra­nie­ra, e vin­ci­to­re del pre­mio Oscar come Miglior Film Inter­na­zio­na­le, Dri­ve My Car ha uni­to cri­ti­ca e non solo, in un vor­ti­ce inces­san­te di emo­zio­ni e pul­sio­ni.

La sto­ria rac­con­ta di Yūsu­ke Kafu­ku, inter­pre­ta­to da Hide­to­shi Nishi­ji­ma, gli aman­ti del cine­ma giap­po­ne­se lo ricor­de­ran­no per il film Dolls del regi­sta Take­shi Kita­no, in cui inter­pre­ta­va il per­so­nag­gio di Matsu­mo­to. Yūsu­ke è un atto­re e regi­sta tea­tra­le, vive feli­ce­men­te con sua moglie Oto (Rei­ka Kiri­shi­ma), ex attri­ce e sce­neg­gia­tri­ce per una TV nazio­na­le. Il loro è un amo­re pas­sio­na­le e visce­ra­le, segna­to da una com­ple­men­ta­ri­tà pro­fon­da. Lui le ricor­da le sto­rie per la tele­vi­sio­ne che Oto con­ce­pi­sce dopo il ses­so, men­tre lei regi­stra i dia­lo­ghi degli spet­ta­co­li tea­tra­li di Yūsu­ke, in modo che lui pos­sa impa­ra­re le bat­tu­te. Dopo un volo aereo can­cel­la­to cau­sa mal­tem­po, Yūsu­ke ritor­na a casa e sco­pre Oto che lo tra­di­sce con un ragaz­zo, lo stes­so gio­va­ne atto­re pre­sen­ta­to pochi gior­ni pri­ma pro­prio al mari­to. Yūsu­ke farà fin­ta di nien­te. Pre­fe­ri­sce non affron­ta­re l’argomento per pau­ra di liti­ga­re e poter per­de­re la per­so­na che più di ogni altro ama. L’eventualità che tut­to que­sto pos­sa avve­rar­si è trop­po rischio­sa e non ne var­reb­be la pena. E se il cine­ma fos­se come la boxe, Hama­gu­chi avreb­be il dono più pre­zio­so, la capa­ci­tà di sfer­ra­re un col­po da ko quan­do l’avversario meno se lo aspet­ta.

Difat­ti Yūsu­ke per­de­rà Oto a cau­sa di un’emorragia cele­bra­le, e sen­za il suo amo­re crol­le­rà. D’altronde come si può vive­re con un cuo­re spez­za­to? Que­sta sepa­ra­zio­ne lo ren­de­rà iner­me e disar­ma­to. L’angoscia da sop­por­ta­re è tal­men­te for­te che duran­te uno spet­ta­co­lo tea­tra­le, inter­pre­tan­do Zio Van­ja del dram­ma­tur­go rus­so Che­khov, il suo cor­po e la sua men­te si arren­do­no, il dolo­re da sop­por­ta­re è tal­men­te dirom­pen­te che la nevra­ste­nia pren­de­rà il soprav­ven­to. 

Ognu­no rea­gi­sce a modo pro­prio ad un lut­to, spe­cial­men­te nell’elaborazione e nel supe­ra­men­to. Non c’è un’unica via o solu­zio­ne a tale pro­ble­ma, c’è il tem­po. E il tem­po è sem­pre un nostro allea­to. C’è chi per supe­ra­re un lut­to ha biso­gno di fug­gi­re, di scap­pa­re dal luo­go in cui si è col­ti­va­to il trau­ma, “il pri­mo pas­so non ti por­ta dove vuoi, ti toglie da dove sei”, scri­ve­va Jodo­ro­w­sky. C’è chi si rifu­gia nel­la mon­da­ni­tà del­la vita moder­na, e chi sfrut­ta que­sti momen­ti di dolo­re per lavo­ra­re su sé stes­so, per miglio­rar­si, per esse­re una per­so­na miglio­re per gli altri, ma soprat­tut­to per sé stes­si. Non c’è nes­su­na tem­pi­sti­ca o sche­ma defi­ni­to per ela­bo­ra­re un trau­ma, qual­sia­si esso sia. “Accet­tan­do il fal­li­men­to ci libe­ria­mo dal­le nevro­si”, soste­ne­va Freud. Que­sto è il mes­sag­gio che il regi­sta Hama­gu­chi ha cer­ca­to di comu­ni­ca­re al pub­bli­co.

Dopo due anni, Yūsu­ke si tra­sfe­ri­sce a Hiro­shi­ma per diri­ge­re lo stes­so spet­ta­co­lo tea­tra­le che anni pri­ma non era riu­sci­to a con­clu­de­re. Da quel momen­to ave­va mes­so in pau­sa la sua vita. Oggi, però, Yūsu­ke è pron­to per affron­ta­re un lun­go viag­gio alla sco­per­ta di sé, rivi­ven­do il pas­sa­to e sapen­do che nul­la si può can­cel­la­re. L’incontro con Misa­ki (Tôko Miu­ra), un auti­sta affi­da­ta­gli dal­la com­pa­gnia tea­tra­le, cree­rà un lega­me tal­men­te for­te tra i due da stra­vol­ge­re la vita di entram­bi. I loro con­ti­nui viag­gi in mac­chi­na, den­tro una Saab 900 Tur­bo ros­sa del 1987, ci accom­pa­gne­ran­no per tut­ta la dura­ta del film e nei gior­ni suc­ces­si­vi. Misa­ki pren­de­rà il coman­do dell’auto del regi­sta e in que­sti dia­lo­ghi così pro­fon­di è rac­chiu­so il ful­cro e l’anima del film. Se vi aspet­ta­te un rac­con­to immer­so nel caos del­le metro­po­li giap­po­ne­si rimar­re­te delu­si, Hama­gu­chi ci tra­spor­te­rà in una dimen­sio­ne inti­mi­sta di stam­po esi­sten­zia­le, attra­ver­so una sce­neg­gia­tu­ra che sa esse­re deli­ca­ta e spie­ta­ta allo stes­so tem­po.

Il cine­ma giap­po­ne­se, spe­cial­men­te negli ulti­mi anni, ha dedi­ca­to mol­ta atten­zio­ne a gran­di tema­ti­che socia­li, eco­no­mi­che e ses­sua­li a cui né il nostro cine­ma né quel­lo hol­ly­woo­dia­no ci han­no più abi­tua­to. Per mol­ti regi­sti giap­po­ne­si alcu­ne tema­ti­che come il matri­mo­nio, la fami­glia e la mono­ga­mia non sono più un tabù da sot­ta­ce­re, anzi, que­sti argo­men­ti così vasti e deli­ca­ti ven­go­no let­ti sot­to una luce pro­gres­si­sta, in net­to con­tra­sto con la mora­le occi­den­ta­le che impli­ca un sen­ti­men­to di ver­go­gna e sen­so di col­pa per cer­ti tipi di com­por­ta­men­to.

Il regi­sta giap­po­ne­se Hiro­ka­zu Kore’eda è un esem­pio lam­pan­te di que­sto nuo­vo modo di ripen­sa­re alle gran­di isti­tu­zio­ni del­la nostra socie­tà, rac­con­tan­do­le die­tro ad una mac­chi­na da pre­sa per ren­der­le inde­le­bi­li. Nel film Father and son (2013), Kore’eda si inter­ro­ga in manie­ra filo­so­fi­ca sul­la figu­ra del geni­to­re e sul rap­por­to con i pro­pri figli, anche nel film Un affa­re di fami­glia, vin­ci­to­re del­la Pal­ma d’oro al Festi­val di Can­nes del 2018, il ruo­lo del­la fami­glia tra­di­zio­na­le vie­ne ribal­ta­to e mes­so in discus­sio­ne. Per­ché cata­lo­ga­re il con­cet­to di fami­glia? Per­ché pri­vi­le­gia­re la paren­te­la bio­lo­gi­ca e svi­li­re quel­la puta­ti­va? O addi­rit­tu­ra, per­ché non sce­glier­se­la una fami­glia? 

Que­sti film, oltre ad esse­re tra­vol­gen­ti da un pun­to di vista foto­gra­fi­co e sce­no­gra­fi­co, sono spin­ti da un ven­to di cri­ti­ci­tà e di aria fre­sca nel pano­ra­ma cine­ma­to­gra­fi­co mon­dia­le, ma non solo. Rispon­do­no a mol­te doman­de che si pon­go­no oggi­gior­no le per­so­ne. Mol­to spes­so le strut­tu­re por­tan­ti del­le nar­ra­zio­ni di que­sti film non si con­cen­tra­no sul­la tra­ma, sono i per­so­nag­gi che ruo­ta­no intor­no ad essa ad appro­fon­di­re i temi che il regi­sta ha inten­zio­ne di trat­ta­re.

E in Dri­ve My Car c’è tut­to que­sto. La sto­ria di un uomo che per­de la don­na ama­ta, il suo più gran­de teso­ro, ma nono­stan­te ciò com­bat­te, accet­ta le dif­fi­col­tà del pas­sa­to rivi­ven­do i suoi ricor­di più sof­fe­ren­ti in que­sti dia­lo­ghi tera­peu­ti­ci con Misa­ki. E sem­pre in sel­la alla sua Saab 900 Tur­bo, com­pa­gna fede­le e ras­si­cu­ran­te, o come la defi­ni­sce il regi­sta Hama­gu­chi: “Un luo­go, in real­tà, un non-luo­go che ci aiu­ta a sco­pri­re aspet­ti di noi stes­si mai mostra­ti a nes­su­no. O pen­sie­ri che, pri­ma, non sape­va­mo espri­me­re con le paro­le”. È pro­prio que­sto rac­con­to inces­san­te, inti­mo e cru­de­le che ren­de Dri­ve My Car una del­le pel­li­co­le più impor­tan­ti degli ulti­mi anni, e con­sa­cra defi­ni­ti­va­men­te il cine­ma giap­po­ne­se nell’olimpo cine­ma­to­gra­fi­co. Yūsu­ke non si è arre­so. Al con­tra­rio, è tor­na­to alla cari­ca. Rica­de, si risol­le­va, una vol­ta e una vol­ta anco­ra. Come sono glo­rio­se que­ste scon­fit­te. Dico­no un gran bene dell’uomo. Come lo fan­no cre­sce­re.

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