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Febbraio
12 Febbraio 2024

CON­TRO IL GATE­KEE­PING

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“Ode al Crin­ge” scri­ve Il Bestia­rio in un post su Insta­gram [https://www.instagram.com/p/CnJ8Vlkt7eC/[] : “un disa­gio gene­ra­zio­na­le che si nutre del­la pau­ra di sba­glia­re, di non esse­re mai abba­stan­za, di tra­di­re il gala­teo dei rap­por­ti e di fal­li­re le aspet­ta­ti­ve del bran­co”. Insom­ma, una paro­la nuo­va rife­ri­ta ad una sen­sa­zio­ne che pri­ma for­se nean­che esi­ste­va, o che – come scri­ve­reb­be Witt­gen­stein – esi­ste ades­so pro­prio per­ché iden­ti­fi­ca­ta con un’espressione e rico­no­sciu­ta da una comu­ni­tà. Si potreb­be tra­dur­re la paro­la “crin­ge” con “imba­raz­zo”, ma sem­pre indi­riz­za­to ver­so qual­cu­no o qual­co­sa lon­ta­no da me, oltre da me. Un ter­mi­ne che, come ha sot­to­li­nea­to Il Bestia­rio, è diven­ta­to il metro di misu­ra di alcu­ne com­mu­ni­ty, un nuo­vo stig­ma che vie­ne affib­bia­to a chi non è omo­lo­ga­to agli stan­dard del grup­po, che rischia di for­ma­re “un’orda di gio­va­ni apa­ti­ci, per­fet­ti, com­po­sti, cal­co­la­to­ri seria­li, per­for­mer, bril­lan­ti: nel­la dia­let­ti­ca dell’andatura e nel­la postu­ra”. E da qui l’”Ode al Crin­ge” del­la rivi­sta: un appel­lo ad affer­ma­re la pro­pria diver­si­tà: “pre­fe­ria­mo mori­re da giul­la­ri, che vive­re per sem­pre den­tro una teca di vetro mas­sic­cio”.

Tut­to ciò è con­di­vi­si­bi­le, anzi, Il Bestia­rio ha già descrit­to un pro­ble­ma rela­ti­vo ad una paro­la che solo da poco ha occu­pa­to qual­che riga nei dizio­na­ri, e quin­di un gros­so plau­so per l’avanguardia. Eppu­re c’è da fare una spe­ci­fi­ca­zio­ne seman­ti­ca, per­ché il pro­ble­ma non è l’attributo, ma la discri­mi­na­zio­ne: come il pro­ble­ma del raz­zi­smo non è la raz­za, ma il raz­zi­smo stes­so, in que­sto caso il pro­ble­ma non è il “crin­ge”, ma il gate­kee­ping.

Gate­kee­ping signi­fi­ca let­te­ral­men­te “custo­di­re il can­cel­lo”, ed è un ter­mi­ne mol­to ambi­guo e tri­via­le: vie­ne usa­to nel gior­na­li­smo per rife­rir­si all’attività di sele­zio­ne del­le noti­zie, oppu­re nell’industria cul­tu­ra­le per iden­ti­fi­ca­re il fil­trag­gio del­le ope­re che pos­so­no esse­re pro­dot­te o scar­ta­te. Ai fini del discor­so inte­res­sa però l’uso che ne vie­ne fat­to su Inter­net, e qui vie­ne in soc­cor­so Urban Dic­tio­na­ry – la Trec­ca­ni del­lo slang ame­ri­ca­no – dove la defi­ni­zio­ne più accre­di­ta­ta di gate­kee­ping è la seguen­te (tra­du­co dall’inglese): “la deci­sio­ne di chi ha e chi non ha l’accesso ad una com­mu­ni­ty”. Seguo­no degli esem­pi: “Mi piac­cio­no le band punk, come i Green Day!”, “Bleah, i Green Day non sono nem­me­no punk”, oppu­re: “Sono un gran­de fan dei System of a Down!”, “Beh, allo­ra nomi­na­mi cin­que can­zo­ni!”. Insom­ma, chi fa gate­kee­ping ten­ta di pro­teg­ge­re il pro­prio grup­po ed i pro­pri inte­res­si, ele­van­do­li secon­do degli stan­dard di ricer­ca­tez­za, gusto o intel­li­gen­za, esclu­den­do chi o cosa vie­ne stig­ma­tiz­za­to come crin­genor­mie o main­stream.

Mi per­do­ni il let­to­re per que­sta matas­sa di paro­le del­lo slang di inter­net, e mi per­met­ta di fare un po’ di ordi­ne par­ten­do da un meme, quel­lo dell’iceberg.”


Que­sto è uno dei tan­ti meme rea­liz­za­ti par­ten­do dal for­mat dell’iceberg, una strut­tu­ra meme­ti­ca tal­men­te poten­te che rap­pre­sen­ta lim­pi­da­men­te il discor­so socia­le del gate­kee­ping. Que­sto meme anda­va mol­to di moda qual­che anno fa, uti­liz­za­to per clas­si­fi­ca­re degli inte­res­si musi­ca­li, cine­ma­to­gra­fi­ci, o gene­ral­men­te cul­tu­ra­li, secon­do un indi­ce di “popo­la­ri­tà”. Nel caso dell’immagine alle­ga­ta sono cate­go­riz­za­te le band musi­ca­li: in alto quel­le più rino­ma­te, men­tre scen­den­do si tro­va­no quel­le sem­pre più sco­no­sciu­te e par­ti­co­la­ri. Tut­to bene, fin­ché l’iceberg non si tra­sfor­ma in uno stru­men­to discri­mi­nan­te, una sor­ta di pira­mi­de rove­scia­ta dove chi sta in fon­do può dir­si un fine e ricer­ca­to frui­to­re musi­ca­le, che si distin­gue dal­la “mas­sa” degli “ascol­ta­to­ri medi” – i cosid­det­ti nor­mie –  che gal­leg­gia­no sopra.

Da que­sta discri­mi­na­zio­ne nasce il gate­kee­ping che, sem­pre nel caso del­le can­zo­ni, può tra­dur­si nei discor­si di chi ripe­te, ad esem­pio, che “I Måne­skin non sono vero rock!”, o che “La musi­ca di oggi non è vera musi­ca!”. E fin qui, a par­te l’affermazione – spes­so anti­pa­ti­ca – di qual­che ami­co che ha biso­gno di fle­xa­re la pro­pria cono­scen­za musi­ca­le smi­nuen­do i gusti altrui, il gate­kee­ping non sem­bra poi un gran pro­ble­ma.

Quan­do que­sta discri­mi­na­zio­ne vie­ne posta alla base dell’identità di grup­po, però, il discor­so cam­bia: quan­do a soli­di­fi­ca­re i lega­mi tra gli indi­vi­dui è l’esclusione di chi cer­ti gusti non li con­di­vi­de, il gate­kee­ping diven­ta una dina­mi­ca tos­si­ca. È la stes­sa dia­let­ti­ca che Carl Sch­mitt pone alle fon­da­men­ta del­lo Sta­to e dell’azione poli­ti­ca: quel­la tra “ami­ci” e “nemi­ci”, dove una cate­go­ria esi­ste in fun­zio­ne dell’altra, secon­do cui la con­di­zio­ne di esi­sten­za di uno Sta­to è fon­da­ta sull’individuazione degli stra­nie­ri. Esclu­de­re chi ha gusti bana­li, chi è nor­mie o main­stream, per­met­te al gate­kee­per di alza­re l’asticella del grup­po, defi­nen­do­ne l’identità.

Tut­to ciò diven­ta offen­si­vo per­ché il discor­so non si limi­ta ai soli gusti musi­ca­li, ma vie­ne este­so alla per­so­na, alla sua intel­li­gen­za o al suo gra­do di inte­res­se: ad esem­pio, chi ascol­ta i Cold­play non ha solo gusti noio­si, ma è una per­so­na noio­sa. Chi guar­da i cine­pa­net­to­ni non ha un inte­res­se per i film stu­pi­di, ma è stu­pi­do. Così il gate­kee­per slit­ta l’oggetto ver­so cui pun­ta il dito, pas­san­do dagli inte­res­si ai com­por­ta­men­ti del­la per­so­na, accu­san­do alcu­ne azio­ni, gesti o paro­le di esse­re crin­ge.

Ed ecco­ci tor­na­ti al pun­to di par­ten­za, alla paro­la ini­zia­le, al nuo­vo stig­ma nato nel e dal ven­tu­ne­si­mo seco­lo. Un’etichetta che con­di­zio­na for­te­men­te la for­ma­zio­ne e l’auto-determinazione dell’individuo, omo­lo­gan­do­lo a stan­dard di com­por­ta­men­to gri­gi e pri­vi d’identità. Una nuo­va val­vo­la a pres­sio­ne che obbli­ga un ragaz­zo ad ascol­ta­re can­zo­ni che non gli piac­cio­no, a guar­da­re film in cui non si rico­no­sce, il tut­to per­ché schiac­cia­to dal peso del giu­di­zio altrui che oscil­la sem­pre tra l’’ ”ok” ed il “crin­ge”.

Ecco per­ché spo­sa­re l’appello del Bestia­rio è impor­tan­te, per riaf­fer­ma­re il pro­prio dirit­to ad esse­re se stes­si, a mani­fe­sta­re i pro­pri gusti sen­za teme­re di esse­re nor­mie, ad ave­re dei guil­ty plea­su­re sen­za far­se­ne una col­pa, per sfia­ta­re una socie­tà che somi­glia sem­pre più ad una pen­to­la a pres­sio­ne. Ma rimo­du­le­rei l’appello, inneg­gian­do non tan­to ad esse­re crin­ge, ma a non esse­re gate­kee­per, a non con­tri­bui­re a que­sta dina­mi­ca di esclu­sio­ne che omo­lo­ga l’individuo, o fa male a chi non vuo­le o non rie­sce a cam­bia­re. E quin­di non solo “ode al Crin­ge!”, ma “abbas­so il gate­kee­ping!”.

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