“Ode al Cringe” scrive Il Bestiario in un post su Instagram [https://www.instagram.com/p/CnJ8Vlkt7eC/[] : “un disagio generazionale che si nutre della paura di sbagliare, di non essere mai abbastanza, di tradire il galateo dei rapporti e di fallire le aspettative del branco”. Insomma, una parola nuova riferita ad una sensazione che prima forse neanche esisteva, o che – come scriverebbe Wittgenstein – esiste adesso proprio perché identificata con un’espressione e riconosciuta da una comunità. Si potrebbe tradurre la parola “cringe” con “imbarazzo”, ma sempre indirizzato verso qualcuno o qualcosa lontano da me, oltre da me. Un termine che, come ha sottolineato Il Bestiario, è diventato il metro di misura di alcune community, un nuovo stigma che viene affibbiato a chi non è omologato agli standard del gruppo, che rischia di formare “un’orda di giovani apatici, perfetti, composti, calcolatori seriali, performer, brillanti: nella dialettica dell’andatura e nella postura”. E da qui l’”Ode al Cringe” della rivista: un appello ad affermare la propria diversità: “preferiamo morire da giullari, che vivere per sempre dentro una teca di vetro massiccio”.
Tutto ciò è condivisibile, anzi, Il Bestiario ha già descritto un problema relativo ad una parola che solo da poco ha occupato qualche riga nei dizionari, e quindi un grosso plauso per l’avanguardia. Eppure c’è da fare una specificazione semantica, perché il problema non è l’attributo, ma la discriminazione: come il problema del razzismo non è la razza, ma il razzismo stesso, in questo caso il problema non è il “cringe”, ma il gatekeeping.
Gatekeeping significa letteralmente “custodire il cancello”, ed è un termine molto ambiguo e triviale: viene usato nel giornalismo per riferirsi all’attività di selezione delle notizie, oppure nell’industria culturale per identificare il filtraggio delle opere che possono essere prodotte o scartate. Ai fini del discorso interessa però l’uso che ne viene fatto su Internet, e qui viene in soccorso Urban Dictionary – la Treccani dello slang americano – dove la definizione più accreditata di gatekeeping è la seguente (traduco dall’inglese): “la decisione di chi ha e chi non ha l’accesso ad una community”. Seguono degli esempi: “Mi piacciono le band punk, come i Green Day!”, “Bleah, i Green Day non sono nemmeno punk”, oppure: “Sono un grande fan dei System of a Down!”, “Beh, allora nominami cinque canzoni!”. Insomma, chi fa gatekeeping tenta di proteggere il proprio gruppo ed i propri interessi, elevandoli secondo degli standard di ricercatezza, gusto o intelligenza, escludendo chi o cosa viene stigmatizzato come cringe, normie o mainstream.
Mi perdoni il lettore per questa matassa di parole dello slang di internet, e mi permetta di fare un po’ di ordine partendo da un meme, quello dell’iceberg.”
Questo è uno dei tanti meme realizzati partendo dal format dell’iceberg, una struttura memetica talmente potente che rappresenta limpidamente il discorso sociale del gatekeeping. Questo meme andava molto di moda qualche anno fa, utilizzato per classificare degli interessi musicali, cinematografici, o generalmente culturali, secondo un indice di “popolarità”. Nel caso dell’immagine allegata sono categorizzate le band musicali: in alto quelle più rinomate, mentre scendendo si trovano quelle sempre più sconosciute e particolari. Tutto bene, finché l’iceberg non si trasforma in uno strumento discriminante, una sorta di piramide rovesciata dove chi sta in fondo può dirsi un fine e ricercato fruitore musicale, che si distingue dalla “massa” degli “ascoltatori medi” – i cosiddetti normie – che galleggiano sopra.
Da questa discriminazione nasce il gatekeeping che, sempre nel caso delle canzoni, può tradursi nei discorsi di chi ripete, ad esempio, che “I Måneskin non sono vero rock!”, o che “La musica di oggi non è vera musica!”. E fin qui, a parte l’affermazione – spesso antipatica – di qualche amico che ha bisogno di flexare la propria conoscenza musicale sminuendo i gusti altrui, il gatekeeping non sembra poi un gran problema.
Quando questa discriminazione viene posta alla base dell’identità di gruppo, però, il discorso cambia: quando a solidificare i legami tra gli individui è l’esclusione di chi certi gusti non li condivide, il gatekeeping diventa una dinamica tossica. È la stessa dialettica che Carl Schmitt pone alle fondamenta dello Stato e dell’azione politica: quella tra “amici” e “nemici”, dove una categoria esiste in funzione dell’altra, secondo cui la condizione di esistenza di uno Stato è fondata sull’individuazione degli stranieri. Escludere chi ha gusti banali, chi è normie o mainstream, permette al gatekeeper di alzare l’asticella del gruppo, definendone l’identità.
Tutto ciò diventa offensivo perché il discorso non si limita ai soli gusti musicali, ma viene esteso alla persona, alla sua intelligenza o al suo grado di interesse: ad esempio, chi ascolta i Coldplay non ha solo gusti noiosi, ma è una persona noiosa. Chi guarda i cinepanettoni non ha un interesse per i film stupidi, ma è stupido. Così il gatekeeper slitta l’oggetto verso cui punta il dito, passando dagli interessi ai comportamenti della persona, accusando alcune azioni, gesti o parole di essere cringe.
Ed eccoci tornati al punto di partenza, alla parola iniziale, al nuovo stigma nato nel e dal ventunesimo secolo. Un’etichetta che condiziona fortemente la formazione e l’auto-determinazione dell’individuo, omologandolo a standard di comportamento grigi e privi d’identità. Una nuova valvola a pressione che obbliga un ragazzo ad ascoltare canzoni che non gli piacciono, a guardare film in cui non si riconosce, il tutto perché schiacciato dal peso del giudizio altrui che oscilla sempre tra l’’ ”ok” ed il “cringe”.
Ecco perché sposare l’appello del Bestiario è importante, per riaffermare il proprio diritto ad essere se stessi, a manifestare i propri gusti senza temere di essere normie, ad avere dei guilty pleasure senza farsene una colpa, per sfiatare una società che somiglia sempre più ad una pentola a pressione. Ma rimodulerei l’appello, inneggiando non tanto ad essere cringe, ma a non essere gatekeeper, a non contribuire a questa dinamica di esclusione che omologa l’individuo, o fa male a chi non vuole o non riesce a cambiare. E quindi non solo “ode al Cringe!”, ma “abbasso il gatekeeping!”.