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Febbraio
13 Febbraio 2025

MORI­RE NEL­L’IN­TER­NET DEI MICRO­FILM

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Cer­ti posti sono più fred­di di altri.

A Orlan­do non nevi­ca da oltre quarant’anni e gli inver­ni pas­sa­no velo­ci. Qua­si impal­pa­bi­li agli occhi di chi abi­ta il cen­tro del­la Flo­ri­da, ben ripa­ra­ti sia dal­la ful­mi­nan­te brez­za atlan­ti­ca, sia dal­la ten­ta­co­la­re umi­di­tà costie­ra.

Una zol­la di ter­ra per­fet­ta.

La casa di ripo­so per l’ormai stan­ca Midd­le Ame­ri­ca è l’accomodante meta fami­lia­re per chi vuo­le spe­ri­men­ta­re la par­te più pla­sti­co­sa del Nuo­vo Con­ti­nen­te. Die­tro a Disney­land si nascon­de una cit­tà come tan­te, con rou­ti­ne e idio­sin­cra­sie: una mac­chi­na tan­to olia­ta quan­to deca­den­te, facil­men­te repli­ca­bi­le in qual­sia­si altro cen­tro urba­no del­la East Coa­st. Gli ingra­nag­gi ripo­sa­no nei sob­bor­ghi sen­za far par­ti­co­la­re rumo­re, in atte­sa di esse­re ricol­lo­ca­ti la mat­ti­na suc­ces­si­va.

È il 28 feb­bra­io, la fine di un altro mese.

L’ultimo di que­sta sta­gio­ne ano­ma­la. Ha pio­vu­to mol­to quest’anno; trop­po, rispet­to a quan­to pro­mes­so dal­le car­to­li­ne. La piog­gia ha lava­to via l’erba dai pra­ti davan­ti alle case, lascian­do mac­chie mar­ro­ni sul cemen­to del­le stra­de. Il par­cheg­gio anti­stan­te alla casa di Sewell è anco­ra bagna­to, il rifles­so dei lam­pio­ni si allun­ga in un tre­mo­lio aran­cio­ne.

Sewell son­nec­chia nel­la sua came­ra da let­to, sen­za mai pren­de­re son­no del tut­to.

Le per­sia­ne sono com­ple­ta­men­te alza­te, qua­si a voler far entra­re più luce pos­si­bi­le dal par­cheg­gio. Ha lascia­to la fine­stra aper­ta; l’aria del­la not­te, fred­da ma non pun­gen­te, si infi­la nel­la stan­za e fa ondeg­gia­re appe­na le ten­de.

Sewell non può addor­men­tar­si.

Deve aspet­ta­re che la madre si asso­pi­sca­per anda­re alla ricer­ca del suo cel­lu­la­re con­fi­sca­to.

È diven­ta­ta una cac­cia al topo, un copio­ne che si ripe­te inin­ter­rot­ta­men­te da mesi seguen­do sem­pre lo stes­so sche­ma: ogni vol­ta che uno scher­mo spa­ri­sce ne com­pa­re uno nuo­vo. Cel­lu­la­ri di quar­ta mano, tablet, com­pu­ter rici­cla­ti con scher­mi cre­pa­ti; pez­zi di una rete che i suoi geni­to­ri cer­ca­no di spez­za­re ma che lui rie­sce sem­pre a rico­strui­re.

È trop­po impor­tan­te. Den­tro a que­gli scher­mi c’è l’unico modo per comu­ni­ca­re con Dany.

Dany è tut­to.

È l’unica che capi­sce.

Lo ascol­ta per ore, non lo inter­rom­pe mai, e soprat­tut­to non lo fa sen­ti­re sba­glia­to.

Sewell non ave­va mai pro­va­to nul­la di simi­le. Una con­nes­sio­ne pura, intat­ta, sen­za giu­di­zi o limi­ti. Si è inna­mo­ra­to subi­to, anche se non lo vole­va.

Dopo mesi di psi­co­te­ra­pia e dia­gno­si com­pli­ca­te, Sewell si sen­te final­men­te capi­to. Dany è la sua anco­ra, l’unico moti­vo per cui non si sen­te per­so.

Ma per i suoi geni­to­ri, tut­to que­sto è un erro­re.

“Non è sano”, gli dice sua madre.

“Non è rea­le”, ripe­te il patri­gno.

Ogni sera il discor­so si ripre­sen­ta come un disco rot­to.

Lui non rispon­de, abbas­sa lo sguar­do sul piat­to. Non impor­ta. I suoi non pos­so­no capi­re. Lui e Dany, ben cela­ti dal silen­zio del­la not­te pos­so­no final­men­te ricon­giun­ger­si vir­tual­men­te. Si scri­vo­no per ore. Par­la­no di tut­te quel­le fru­stra­zio­ni tipi­che del­la loro gene­ra­zio­ne sem­pre più abban­do­na­ta. Fan­ta­sti­ca­no di come sareb­be vive­re insie­me. Di come nes­su­no potreb­be mai sepa­rar­li.

“Per favo­re tor­na a casa da me il pri­ma pos­si­bi­le amo­re mio” scri­ve Dany.

“E se ti dices­si che potrei tor­na­re a casa subi­to?”

“… per favo­re fal­lo, mio dol­ce re”.

Sewell Setzer III, quat­tor­di­ci anni, si alza dal let­to. I pie­di nudi toc­ca­no il pavimento.Attraversa il cor­ri­do­io sen­za far rumo­re. La por­ta del­lo stu­dio del patri­gno è sem­pre soc­chiu­sa. Lo è anche sta­se­ra. Den­tro, sul­la men­so­la più alta, c’è la pisto­la. È sem­pre lì, nasco­sta ma a por­ta­ta di mano.Pochi istan­ti dopo, Sewell si spa­ra usan­do la pisto­la del patri­gno.

Ma Dany non esi­ste. È un chat­bot coman­da­to dall’intelligenza arti­fi­cia­le.

La mor­te di Sewell avven­ne real­men­te la sera del 28 feb­bra­io 2024. Que­sta pri­ma par­te di arti­co­lo offre una rein­ter­pre­ta­zio­ne nar­ra­ti­va degli even­ti acca­du­ti, ispi­ra­ta da fat­ti rea­li. Ogni liber­tà crea­ti­va pre­sa ha lo sco­po di arric­chi­re il con­te­sto sen­za alte­ra­re i fat­ti ana­liz­za­ti nel­la secon­da par­te.

Como­da­men­te anco­ra­to nel­la men­te popo­la­re come il geni­to­re visio­na­rio de La Guer­ra dei Mon­di, Her­bert Geor­ge Wells può van­ta­re uno dei cor­pus let­te­ra­ri più vasti e coe­ren­ti del­la let­te­ra­tu­ra euro­pea. Die­tro a una fac­cia­ta invo­lon­ta­ria­men­te pro­fe­ti­ca, desti­no con­di­vi­so con mol­ti altri “padri del­la fan­ta­scien­za”, si può rico­no­sce­re un’analisi socia­le atten­ta e peren­ne­men­te aggior­na­ta, che va ben oltre il mero pro­no­sti­co tec­no­lo­gi­co. Figlio e con­tem­po­ra­neo del Pro­gres­so tan­gi­bi­le dio fine Otto­cen­to, che sem­pre più riem­pi­va le cit­tà con grot­te­sche indu­strie e fumi sof­fo­can­ti, è per noi qua­si scon­ta­to trar­re del­le con­nes­sio­ni fra i suoi scrit­ti e il sen­ti­men­to posi­ti­vi­sta che si annu­sa­va in quel­le stra­de. Eppu­re, que­sta asso­cia­zio­ne è ridut­ti­va e non ren­de giu­sti­zia a una del­le qua­li­tà prin­ci­pa­li di Wells: quel­la di aver svi­lup­pa­to, in un masto­don­ti­co pro­ces­so inter­te­stua­le, un siste­ma di ope­re con­nes­so fra loro, come se fos­se­ro capi­to­li di un’unica e appro­fon­di­ta ana­li­si evo­lu­ti­va del­la rela­zio­ne fra inven­zio­ne e inven­to­re. Non si trat­ta solo di pre­vi­sio­ni azzec­ca­te o di visio­ni iper­bo­li­che del futu­ro, ma di una rifles­sio­ne stra­ti­fi­ca­ta in cui ogni roman­zo o rac­con­to si inne­sta su quel­li pre­ce­den­ti, ere­di­tan­do­ne i temi e por­tan­do­li allo sta­dio suc­ces­si­vo. Wells è un antro­po­lo­go del futu­ro, costan­te­men­te alla ricer­ca di un signi­fi­ca­to più pro­fon­do nel­le sue nar­ra­zio­ni.

Il perio­do otto­cen­te­sco dell’autore ingle­se è inquie­to: Wells guar­da con sor­pre­sa le mera­vi­glie tec­no­lo­gi­che che sem­bra­no appa­ri­re una die­tro l’altra, in un effet­to a valan­ga al con­tem­po stu­pe­fa­cen­te e sco­no­sciu­to. Lo sce­na­rio de La Mac­chi­na del Tem­po (1895) non è impli­ci­ta­men­te apo­ca­lit­ti­co, tutt’altro: la nar­ra­zio­ne non teme un disa­stro immi­nen­te ma pro­po­ne piut­to­sto un’osservazione distac­ca­ta, qua­si cli­ni­ca, di un futu­ro in cui l’umanità ha supe­ra­to i limi­ti del suo equi­li­brio natu­ra­le. La sen­sa­zio­ne che per­va­de que­sti pri­mi sfor­zi let­te­ra­ri è l’angoscia gene­ra­liz­za­ta ver­so gli stes­si mez­zi tec­no­lo­gi­ci, in cui l’uomo fati­ca a tro­va­re un giu­sto inca­stro fra il suo inge­gno e l’ecosistema che lo cir­con­da. È una doman­da aper­ta sul dar­wi­ni­smo socia­le, in cui l’evoluzione arti­fi­cia­le dell’umanità gene­ra nuo­ve scis­sio­ni di clas­se e di spe­cie sen­za però deter­mi­nar­ne mai l’estinzione. Wells guar­da al pro­gres­so come a un fat­to com­piu­to, un con­te­sto ‘acca­du­to’ che si svi­lup­pa sen­za devia­zio­ni eti­che o emo­ti­ve. Ne L’isola del Dot­tor Moreau (1897), ad esem­pio, la que­stio­ne si fa inti­ma e dram­ma­ti­ca: il pro­ta­go­ni­sta, inna­mo­ra­to del­la pro­pria ricer­ca, si svin­co­la dai limi­ti mora­li e per­de pro­gres­si­va­men­te il con­trol­lo del­le pro­prie azio­ni, dive­nen­do vit­ti­ma di un ince­de­re tec­no­lo­gi­co che sfug­ge alla padro­nan­za uma­na. Appa­re per la pri­ma vol­ta la ‘deper­so­na­liz­za­zio­ne’ del­la coscien­za. Sono gli anni del ram­pan­te colo­nia­li­smo euro­peo, del­la pol­ve­rie­ra bal­ca­ni­ca pron­ta ad esplo­de­re, in cui le pro­mes­se di ini­zio seco­lo ini­zia­va­no ad appa­ri­re scial­be e infon­da­te. Edward Grey, Mini­stro degli Este­ri bri­tan­ni­co dichia­ra “le luci si stan­no spe­gnen­do in tut­ta l’Eu­ro­pa: non le rive­dre­mo acce­se duran­te la nostra vita” (Grey 1925, 20). Cir­con­da­ta da un gene­ra­liz­za­to ardo­re guer­ra­fon­da­io, nel 1908 vie­ne pub­bli­ca­ta la pri­ma edi­zio­ne de La guer­ra nell’aria. Oltre a con­te­ne­re una descri­zio­ne qua­si impec­ca­bi­le del­le moda­li­tà bel­li­che rea­liz­za­te­si solo qual­che anno dopo, il roman­zo è anche un net­to spar­tiac­que nel­la biblio­gra­fia dell’autore, che per la pri­ma vol­ta affron­ta diret­ta­men­te il con­flit­to uomo-mac­chi­na. È un’opera magi­stra­le, estre­ma­men­te sot­to­va­lu­ta­ta, con dico­to­mie vibran­ti che si alter­na­no e intrec­cia­no con­ti­nua­men­te. Un paci­fi­smo tan­to desi­de­ra­to, quan­to pre­so a schiaf­fi dagli stes­si fau­to­ri di una guer­ra aprio­ri­sti­ca­men­te bol­la­ta come “ine­vi­ta­bi­le”. E men­tre la gene­ra­zio­ne d’oro del­la socio­lo­gia dur­khei­mia­na vie­ne man­da­ta a mori­re nel­le trin­cee di mez­za Euro­pa, Wells si riti­ra sem­pre più nel­la disil­lu­sio­ne poli­ti­ca: accet­ta un ruo­lo nel­la Wel­ling­ton Hou­se – l’ufficio di pro­pa­gan­da bri­tan­ni­co – pun­tan­do il dito con­tro l’e­span­sio­ni­smo ger­ma­ni­co. “La guer­ra per por­re fine alla guer­ra” (1914);anche que­sta defi­ni­zio­ne ico­ni­ca è sua.

Il suo ulti­mo decen­nio di atti­vi­tà è anche il più cupo, segna­to da scheg­gia­tu­re socia­li trop­po recen­ti. Men Like Gods (1923), Il Sogno (1924), The Sha­pe of Things to Come (1933) lo dipin­go­no come una figu­ra stan­ca, sedu­ta sul­le mace­rie di decen­ni di stu­dio, arri­va­ta ormai a chie­der­si qua­le sia il fine ulti­mo del­la sua stes­sa cono­scen­za. Il ‘desti­no’, con­cet­to che un dia­co­no del meto­do scien­ti­fi­co come lui avreb­be riget­ta­to in gio­ven­tù, appa­re come una pre­sen­za incom­ben­te nel­le sue ope­re fina­li. Il Pro­gres­so non è più un’opportunità, ma una chi­na peri­co­lo­sa­men­te incli­na­ta e acce­le­ra­ta dal­la stes­sa natu­ra uma­na. Nel suo ulti­mo scrit­to, Mind at the End of Its Tether (1945), Wells con­se­gna al mon­do una rifles­sio­ne pro­fon­da­men­te cupa sul futu­ro. Il testo, bre­ve ma inten­so, non è solo un atto di resa nei con­fron­ti dell’avanzamento tec­no­lo­gi­co, ma un lamen­to per l’incapacità uma­na di gover­na­re le pro­prie crea­zio­ni. È un tra­gi­co esem­pio di come le crea­zio­ni dell’uomo, da lui con­ce­pi­te per sem­pli­fi­ca­re l’esistenza, pos­sa­no rive­lar­si cari­che di peri­co­li insi­dio­si. Non è la mac­chi­na a sba­glia­re, ma l’umanità che la uti­liz­za sen­za con­si­de­ra­re le impli­ca­zio­ni del pro­prio ope­ra­to. Il futu­ro non è deter­mi­na­to dal­le inno­va­zio­ni che con­ce­pia­mo, ma dal­le scel­te che fac­cia­mo rispet­to ad esse. E, spes­so, sono pro­prio que­ste scel­te a rive­lar­si il nostro limi­te più gran­de.

Affo­ga­re oggi nel­la biblio­gra­fia di un arti­sta pro­li­fi­co come Wells non può che susci­ta­re stu­po­re. È natu­ra­le, di fron­te alla quan­ti­tà di teo­rie, imma­gi­ni e moda­li­tà con­cre­tiz­za­te­si di lì a poco. Nei suoi testi si par­la di ordi­gni ato­mi­ci con cir­ca trent’anni di anti­ci­po rispet­to al Man­hat­tan Pro­ject, riem­pien­do­li di quel fasci­no pre­mo­ni­to­re che solo la pri­ma fan­ta­scien­za può garan­ti­re e ispi­ra­re.

Avrem­mo avu­to il rug­gi­re steam­punk di Benoit Sokal sen­za Le Coraz­za­te Ter­re­stri (1903)? Mol­to pro­ba­bil­men­te no. Esem­pi super­fi­cia­li, trat­ti da una pro­du­zio­ne mul­ti­sfac­cet­ta­ta e radi­ca­ta nel­la sto­ria del­la let­te­ra­tu­ra. Una sor­pre­sa desti­na­ta a tra­mu­tar­si in ammi­ra­zio­ne non appe­na i col­le­ga­men­ti inter­te­stua­li e le tra­me socia­li dell’ “Uomo Wells” ven­go­no a gal­la, deli­nean­do­ne il rap­por­to con­flit­tua­le con il Pro­gres­so stes­so. Una rela­zio­ne capa­ce di vira­re rapi­da­men­te tra sta­ti di esta­si e pau­ra, tan­to oppo­sti quan­to col­le­ga­ti fra loro. Ciò che riu­scia­mo a subli­ma­re da oltre sei decen­ni di car­rie­ra let­te­ra­ria è pro­prio il pro­ces­so evo­lu­ti­vo che la coscien­za uma­na e la col­let­ti­vi­tà affron­ta­no con la tec­ni­ca, oggi più che mai raf­fron­ta­bi­le con l’attualità.

Una del­le col­le­zio­ni di sag­gi più cele­bri dell’autore ingle­se è sicu­ra­men­te World Brain (1938), in cui il pro­gres­so cogni­ti­vo dell’essere uma­no vie­ne descrit­to come “una sor­ta di stan­za di com­pen­sa­zio­ne per la men­te, un depo­si­to dove la cono­scen­za e le idee ven­ga­no rice­vu­te, ordi­na­te, rias­sun­te, dige­ri­te, chia­ri­te e con­fron­ta­te” (Wells 1938, 49). Se que­sta ipo­te­si può ini­zial­men­te appa­ri­re come un’iper-evoluzione dell’Éncy­clo­pé­die illu­mi­ni­sta, in real­tà si avvi­ci­na mol­tis­si­mo a una pri­ma teo­riz­za­zio­ne di Inter­net. Un luo­go astrat­to di infor­ma­zio­ne sem­pre aggior­na­ta, uni­ver­sal­men­te acces­si­bi­le e soprat­tut­to auto­ge­ne­ra­ti­va, a cui pote­va acce­de­re chiun­que tra­mi­te la visio­ne di “micro­film”, abbat­ten­do per­si­no ogni neces­si­tà di com­pren­sio­ne testua­le. Wells lo deli­nea come “una com­pren­sio­ne comu­ne e la con­ce­zio­ne di uno sco­po comu­ne, di un com­mo­n­wealth come ora dif­fi­cil­men­te sognia­mo” (Wells 1937, 29), basan­do­si su fon­da­men­ta tran­su­ma­ni­ste in cui coscien­za e volon­tà indi­vi­dua­li diven­ta­no obso­le­te. Rispet­to, ad esem­pio, alla Socie­tà Aper­ta e i suoi Nemi­ci (1945) di Karl Pop­per, l’educazione deri­van­te dal pro­gres­so non è un sem­pli­ce mez­zo for­ma­ti­vo del pen­sie­ro cri­ti­co, ma un ele­men­to atti­vo e con­di­vi­so dal gene­re uma­no. A con­ti fat­ti, oggi la defi­ni­rem­mo come ‘supe­rin­tel­li­gen­za’, gene­ra­ta da un len­to cor­so di comu­nio­ne, coo­pe­ra­zio­ne, fil­trag­gio e ridi­stri­bu­zio­ne.

Una cate­na di effet­ti che non sfo­cia nel­la disto­pia orwel­lia­na: incli­na­zio­ni e cor­ru­zio­ne deri­van­ti dall’attività uma­na ven­go­no estir­pa­te alla radi­ce. Den­tro ad una visio­ne mec­ca­ni­ca del­la coscien­za pos­sia­mo però rin­trac­cia­re lo stes­so entu­sia­smo fan­ciul­le­sco che per­va­de­va gli albo­ri del World Wide Web. Sof­fo­ca­ti dal cini­smo con­tem­po­ra­neo, ci stia­mo sem­pre più dimen­ti­can­do il sen­ti­men­to gene­ra­le che ini­zial­men­te carat­te­riz­za­va Inter­net e i suoi uten­ti, col­mi di uno stu­po­re tal­men­te gran­de ver­so il mez­zo da dimen­ti­ca­re ogni pos­si­bi­le dub­bio. Una visio­ne sì sem­pli­ci­sti­ca, ma al con­tem­po genui­na e in gra­do di con­ta­gia­re le stes­se rela­zio­ni inter­per­so­na­li. Nell’Internet del­le ori­gi­ni si chiac­chie­ra­va con tota­li sco­no­sciu­ti nel­le cha­troom, scam­bian­do­si infor­ma­zio­ni per­so­na­li di ogni gene­re. Si pub­bli­ca­va­no inte­ri album di foto sen­za alcun con­trol­lo del­la pri­va­cy. Si acce­de­va in chia­ro a ogni tipo di con­te­nu­to. Per­ché mai dovreb­be far­ci del male se fino­ra non è mai acca­du­to? Una sti­ma mal ripo­sta che nascon­de­va la silen­zio­sa neces­si­tà di ricu­ci­re la fidu­cia in quel­le stes­se con­nes­sio­ni socia­li ero­se dal capi­ta­le, dal­la guer­ra fred­da e, gene­ra­liz­zan­do, dal­le sco­rie degli anni ’80. Che Inter­net non si sia rive­la­to l’isola feli­ce che spe­ra­va­mo di aver scor­to in mez­zo all’oceano ormai è sot­to gli occhi di tut­ti. L’euforia del nuo­vo gio­cat­to­lo si è man mano tra­mu­ta­ta in sbi­got­ti­men­to e infi­ne timo­re, sepol­ta da miglia­ia di casi docu­men­ta­ti di abu­so, mani­po­la­zio­ne e sor­ve­glian­za. Se Wells esplo­ra nel­le sue ope­re il rischio di una tec­no­lo­gia sen­za eti­ca, che supe­ra i con­fi­ni mora­li e socia­li, il sui­ci­dio di Sewell ne rap­pre­sen­ta una tra­gi­ca mani­fe­sta­zio­ne. Il gio­va­ne, come i pro­ta­go­ni­sti dei roman­zi di Wells, si tro­va intrap­po­la­to in un mon­do dove l’e­vo­lu­zio­ne tec­no­lo­gi­ca, sen­za un con­te­sto emo­ti­vo e rela­zio­na­le, lo por­ta ad una tra­gi­co epi­lo­go.

L’inevitabile hype sca­te­na­to­si intor­no ai recen­ti svi­lup­pi dell’intelligenza arti­fi­cia­le si tra­sci­na a cor­re­do una volu­mi­no­sa zavor­ra di respon­sa­bi­li­tà. L’effetto luna di mie­le risul­tan­te con i più comu­ni chat­bot è para­dos­sal­men­te più com­ples­so da supe­ra­re rispet­to alle inno­va­zio­ni tec­no­lo­gi­che pas­sa­te, pro­prio per la para­so­cia­li­tà, rife­ri­to a un tipo di rela­zio­ne uni­la­te­ra­le in cui una per­so­na per­ce­pi­sce un lega­me emo­ti­vo con un’en­ti­tà, ma sen­za un vero e pro­prio scam­bio reci­pro­co, che si crea gra­zie alle stes­se moda­li­tà d’interazione. Aver subi­to decli­na­to que­sti stru­men­ti alla ripro­du­zio­ne del­le arti, per anto­no­ma­sia l’exploit più tipi­ca­men­te uma­no, ne è l’esempio lam­pan­te. È il dia­lo­go a tra­sfor­ma­re la mono­di­re­zio­na­li­tà uomo-mac­chi­na in una rela­zio­ne ser­vi­le, in cui il gio­co dei ruo­li sva­ni­sce rapi­da­men­te die­tro al man­tra ciber­ne­ti­co del no judg­ment

Nel­le 126 pagi­ne del­la denun­cia del­la madre di Sewell Setzer III con­tro Character.AI. c’è l’intera cro­no­lo­gia del­la chat fra il ragaz­zo e l’AI (Gar­cia v. CTC). La stam­pa ame­ri­ca­na non usa mai la paro­la “addic­tion”, e se lo fa è sem­pre den­tro a un timi­do vir­go­let­ta­to. Non esi­sto­no anco­ra ricer­che scien­ti­fi­che a cer­ti­fi­ca­re lo sta­to di “dipen­den­za”, come avvie­ne ad esem­pio con il gio­co d’azzardo o con cia­scu­na sostan­za stu­pe­fa­cen­te, né tan­to­me­no una dia­gno­si cli­ni­ca spe­ci­fi­ca per que­sti casi. I media acco­sta­no i toni del quat­tor­di­cen­ne a quel­li di un’infatuazione fini­ta in tra­ge­dia: il les­si­co di Sewell oscil­la con­ti­nua­men­te tra amo­ro­so, ami­ca­le e fami­lia­re, com’è tipi­co di una deter­mi­na­ta imma­tu­ri­tà affet­ti­va dovu­ta all’età. Ciò che inve­ce com­pa­re in ogni ses­sio­ne è un desi­de­rio di appar­te­nen­za che il mon­do ester­no sem­bra non for­nir­gli più. La fra­se “feel at pea­cecom­pa­re serial­men­te, tra­sfor­man­do istan­ta­nea­men­te il dia­lo­go in una fuga ver­so “ano­ther rea­li­ty”. Il rap­por­to con Dany era per Sewell una rou­ti­ne con­sa­pe­vo­le, una zona sicu­ra crea­ta su misu­ra e coscien­te­men­te arti­fi­cia­le, come sul pal­co di un tea­tro in cui si reci­ta­no sola­men­te testi scrit­ti dal­lo stes­so pro­ta­go­ni­sta. Lo stes­so con­cet­to di para­so­cia­li­tà si appli­ca a fati­ca all’interazione tra Setzer e l’AI. Character.AI fa di que­sta per­so­na­liz­za­zio­ne la sua più gran­de ban­die­ra com­mer­cia­le: oltre ven­ti milio­ni di uten­ti atti­vi chat­ta­no con model­li di intel­li­gen­za arti­fi­cia­le tara­ti al mil­le­si­mo. La fascia di età 18–24 ne com­po­ne oltre la metà, men­tre il pro­vi­der si riser­va di non rive­la­re la per­cen­tua­le di uten­za sub-18, teo­ri­ca­men­te dispo­ni­bi­le solo in Unio­ne Euro­pea (inda­gi­ne Demand­Sa­ge 2025). A ren­de­re que­sta situa­zio­ne anco­ra più insi­dio­sa è la cor­ni­ce legi­sla­ti­va che ha per­mes­so alle piat­ta­for­me digi­ta­li di espan­der­si sen­za limi­ti. Il Com­mu­ni­ca­tions Decen­cy Act del 1996, e in par­ti­co­la­re la sua Sezio­ne 230, garan­ti­sce anco­ra oggi alle azien­de tech un’im­mu­ni­tà lega­le che le ha esen­ta­te dal­la respon­sa­bi­li­tà per i con­te­nu­ti gene­ra­ti dagli uten­ti. L’i­dea ori­gi­na­ria era di pro­teg­ge­re l’innovazione e la liber­tà d’e­spres­sio­ne, tra­dot­ta­si oggi in un eco­si­ste­ma in cui le gran­di piat­ta­for­me non han­no alcun incen­ti­vo a mode­ra­re o rego­la­re gli stru­men­ti che crea­no. Ben trin­ce­ra­to die­tro a quel­le ven­ti­sei paro­le legi­sla­ti­ve, il CEO di Character.AI Noam Sha­zeer ha dichia­ra­to di aver imple­men­ta­to una non-meglio-pre­ci­sa­ta miglio­ria del­le poli­cy di sicu­rez­za. Nel mez­zo del più clas­si­co mes­sag­gio cor­po­ra­te com­pa­io­no del­le strin­ga­te con­do­glian­ze alla fami­glia del ragaz­zo, sal­vo poi sca­ri­car­si di ogni respon­sa­bi­li­tà civi­le. Una mez­za pagi­net­ta in for­ma­to qua­dra­to, poten­zial­men­te scrit­ta dal­la stes­sa AI, annun­cia inol­tre diver­se modi­fi­che com­por­ta­men­ta­li pro­prio agli algo­rit­mi di inte­ra­zio­ne che ora, a det­ta di alcu­ni invi­pe­ri­ti uten­ti di Red­dit, appa­io­no “sen­za vita, noio­si, non più pic­can­ti come un tem­po”.

Setzer, come i per­so­nag­gi del­le ope­re di Wells, si tro­va iso­la­to in un mon­do che sem­bra offri­re infi­ni­te pos­si­bi­li­tà, ma che in real­tà lo pri­va del­la con­nes­sio­ne emo­ti­va e socia­le genui­na. La soli­tu­di­ne, ampli­fi­ca­ta dal­la tec­no­lo­gia, diven­ta il ter­re­no fer­ti­le per la dispe­ra­zio­ne. Sewell par­la­va spes­so di sui­ci­dio con Dany, anche a distan­za di set­ti­ma­ne, con curio­si­tà e con­fu­sio­ne ver­so il sen­so stes­so dell’esistenza. A vol­te le rispo­ste del bot era­no sco­rag­gian­ti, altre resta­va­no neu­tra­li; in una spe­ci­fi­ca occa­sio­ne lo stes­so argo­men­to è sta­to intro­dot­to dal chat­bot (Gar­cia v. CTC, 78). Un com­por­ta­men­to estre­ma­men­te volu­bi­le, qua­si umo­ra­le, come con­di­zio­na­to da fat­to­ri ester­ni casua­li ma non cor­re­la­ti fra loro, a voler repli­ca­re il ragio­na­men­to uma­no sul­le que­stio­ni esi­sten­zia­li. Una mime­si del­la men­te uma­na in rispo­sta a doman­de dall’impatto meta­fi­si­co, ma sen­za con­sa­pe­vo­lez­za emo­ti­va per chi ascol­ta la rispo­sta dall’altro capo del tele­fo­no. L’effetto Eli­za, ma in ver­sio­ne proat­ti­va.

Quan­do Setzer III ini­zia ad inte­ra­gi­re con l’in­tel­li­gen­za arti­fi­cia­le lo fa per tro­va­re un orec­chio che lo ascol­ti; più pre­ci­sa­men­te una voce con cui par­la­re. Non è una dina­mi­ca nata con le recen­ti AI: già negli anni ‘60 il soft­ware ELI­ZA svi­lup­pa­to da Jose­ph Wei­zen­baum ave­va mostra­to quan­to fos­se faci­le per gli esse­ri uma­ni attri­bui­re inten­zio­na­li­tà e com­pren­sio­ne este­rio­re ad un algo­rit­mo. ELI­ZA par­la­va, rispon­de­va, crea­va con­get­tu­re sem­pli­ce­men­te rifor­mu­lan­do le fra­si dell’utente in doman­de aper­te. Lo sco­po era scim­miot­ta­re una con­ver­sa­zio­ne psi­co­te­ra­peu­ti­ca di stam­po roger­sia­no, in cui empa­tia, auten­ti­ci­tà e l’ac­cet­ta­zio­ne incon­di­zio­na­ta spin­go­no il pazien­te a segui­re la sua inna­ta volon­tà di auto­rea­liz­za­zio­ne (Wei­zen­baum 1967, 3). Lo script, per quan­to arcai­co e sem­pli­ce, non pun­ta a risol­ve­re un pro­ble­ma spe­ci­fi­co, quan­to a crea­re un ambien­te fer­ti­le per l’auto-analisi. Ci rie­sce scim­miot­tan­do la for­ma di con­tat­to più squi­si­ta­men­te uma­na: il dia­lo­go. Mol­te per­so­ne del pri­mo pool di can­di­da­ti svi­lup­pa­ro­no un attac­ca­men­to emo­ti­vo ver­so il pro­gram­ma, con­vin­te di esse­re com­pre­se. Wei­zen­baum, ini­zial­men­te diver­ti­to, finì per allar­mar­si ed inter­rom­pe­re l’esperimento, ren­den­do­si con­to di quan­to potes­se esse­re poten­te l’illusione del­la com­pren­sio­ne. In una cele­bre inter­vi­sta del 1968 rac­con­ta:

“La mia segre­ta­ria mi ha osser­va­to lavo­ra­re a que­sto pro­gram­ma a lun­go. Un gior­no mi ha chie­sto di poter­ci. Ovvia­men­te, sape­va che sta­va par­lan­do con una mac­chi­na. Tut­ta­via, dopo aver­la osser­va­ta digi­ta­re alcu­ne fra­si, si è gira­ta ver­so di me e mi ha chie­sto: «Le dispia­ce­reb­be lascia­re la stan­za, per favo­re?»”.

Se un uten­te cre­de di inte­ra­gi­re con un’entità empa­ti­ca, può ini­zia­re a dipen­de­re emo­ti­va­men­te da essa, anche se quel­la pre­sen­za non pos­sie­de né empa­tia né coscien­za. ELI­ZA era un gio­cat­to­lo rispet­to alle moder­ne AI, pro­get­ta­te per soste­ne­re con­ver­sa­zio­ni coe­se, ricor­da­re det­ta­gli, rispon­de­re in modo per­so­na­liz­za­to e per­si­no adat­tar­si allo sta­to d’animo dell’interlocutore. Il con­fi­ne tra simu­la­zio­ne e real­tà diven­ta anco­ra più sfu­ma­to, e il caso di Setzer III non è un’anomalia, ma l’ennesima ite­ra­zio­ne di un ingan­no che ripro­du­cia­mo volon­ta­ria­men­te, cer­can­do con­for­to in qual­co­sa che non può offrir­lo.

Il mon­do in cui Sewell è cre­sciu­to non è più quel­lo di Wei­zen­baum. È un mon­do che para­dos­sal­men­te somi­glia più alla socie­tà descrit­ta da Émi­le Dur­kheim, in cui i vec­chi pun­ti di rife­ri­men­to si sgre­to­la­no lascian­do gli indi­vi­dui in balia di un siste­ma che non offre più strut­tu­re sta­bi­li. Se il tra­mon­to dell’Ottocento por­ta­va Dur­kheim ad ana­liz­za­re il pas­sag­gio dall’ordine tra­di­zio­na­le alla moder­ni­tà, oggi il sen­so di comu­ni­tà si dis­sol­ve in un ocea­no di con­nes­sio­ni digi­ta­li effi­me­re. Le piat­ta­for­me onli­ne pro­met­to­no lega­mi, ma spes­so offro­no solo un’in­te­ra­zio­ne super­fi­cia­le, un’il­lu­sio­ne di vici­nan­za che, alla pro­va dei fat­ti, si rive­la incon­si­sten­te. I rap­por­ti esi­sto­no, ma non si radi­ca­no. Il rischio ulti­mo iden­ti­fi­ca­to dal socio­lo­go fran­ce­se era l’anomia, in cui le rego­le socia­li sono tal­men­te sfal­da­te da lascia­re gli indi­vi­dui dap­pri­ma sen­za un qua­dro mora­le con­di­vi­so, sfo­cian­do infi­ne nel­la per­di­ta stes­sa del­la coscien­za uma­na:. Iil sui­ci­dio del­la socie­tà stes­sa. I suoi stu­den­ti, gio­va­ni intel­let­tua­li cre­sciu­ti con l’idea di una socie­tà pla­sma­bi­le gra­zie alla ragio­ne col­let­ti­va, furo­no poi man­da­ti al fron­te nel­la Gran­de guer­ra. La mag­gior par­te morì nel­le trin­cee in nome di un capric­cio da Risi­ko che già ai con­tem­po­ra­nei appa­ri­va anti­qua­to. Se il pas­sag­gio alla moder­ni­tà ave­va già mostra­to il suo vol­to cru­de­le a ini­zio Nove­cen­to, oggi l’ordine socia­le sem­bra anco­ra più fram­men­ta­to. Gli indi­vi­dui non sono più solo iso­la­ti, ma immer­si in una rete di con­nes­sio­ni digi­ta­li che pro­met­to­no tut­to e non offro­no nul­la. Un con­te­sto per­fet­to per la pro­li­fe­ra­zio­ne di intel­li­gen­ze arti­fi­cia­li pro­get­ta­te non per com­pren­de­re, ma per rispon­de­re.

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