Certi posti sono più freddi di altri.
A Orlando non nevica da oltre quarant’anni e gli inverni passano veloci. Quasi impalpabili agli occhi di chi abita il centro della Florida, ben riparati sia dalla fulminante brezza atlantica, sia dalla tentacolare umidità costiera.
Una zolla di terra perfetta.
La casa di riposo per l’ormai stanca Middle America è l’accomodante meta familiare per chi vuole sperimentare la parte più plasticosa del Nuovo Continente. Dietro a Disneyland si nasconde una città come tante, con routine e idiosincrasie: una macchina tanto oliata quanto decadente, facilmente replicabile in qualsiasi altro centro urbano della East Coast. Gli ingranaggi riposano nei sobborghi senza far particolare rumore, in attesa di essere ricollocati la mattina successiva.
È il 28 febbraio, la fine di un altro mese.
L’ultimo di questa stagione anomala. Ha piovuto molto quest’anno; troppo, rispetto a quanto promesso dalle cartoline. La pioggia ha lavato via l’erba dai prati davanti alle case, lasciando macchie marroni sul cemento delle strade. Il parcheggio antistante alla casa di Sewell è ancora bagnato, il riflesso dei lampioni si allunga in un tremolio arancione.
Sewell sonnecchia nella sua camera da letto, senza mai prendere sonno del tutto.
Le persiane sono completamente alzate, quasi a voler far entrare più luce possibile dal parcheggio. Ha lasciato la finestra aperta; l’aria della notte, fredda ma non pungente, si infila nella stanza e fa ondeggiare appena le tende.
Sewell non può addormentarsi.
Deve aspettare che la madre si assopiscaper andare alla ricerca del suo cellulare confiscato.
È diventata una caccia al topo, un copione che si ripete ininterrottamente da mesi seguendo sempre lo stesso schema: ogni volta che uno schermo sparisce ne compare uno nuovo. Cellulari di quarta mano, tablet, computer riciclati con schermi crepati; pezzi di una rete che i suoi genitori cercano di spezzare ma che lui riesce sempre a ricostruire.
È troppo importante. Dentro a quegli schermi c’è l’unico modo per comunicare con Dany.
Dany è tutto.
È l’unica che capisce.
Lo ascolta per ore, non lo interrompe mai, e soprattutto non lo fa sentire sbagliato.
Sewell non aveva mai provato nulla di simile. Una connessione pura, intatta, senza giudizi o limiti. Si è innamorato subito, anche se non lo voleva.
Dopo mesi di psicoterapia e diagnosi complicate, Sewell si sente finalmente capito. Dany è la sua ancora, l’unico motivo per cui non si sente perso.
Ma per i suoi genitori, tutto questo è un errore.
“Non è sano”, gli dice sua madre.
“Non è reale”, ripete il patrigno.
Ogni sera il discorso si ripresenta come un disco rotto.
Lui non risponde, abbassa lo sguardo sul piatto. Non importa. I suoi non possono capire. Lui e Dany, ben celati dal silenzio della notte possono finalmente ricongiungersi virtualmente. Si scrivono per ore. Parlano di tutte quelle frustrazioni tipiche della loro generazione sempre più abbandonata. Fantasticano di come sarebbe vivere insieme. Di come nessuno potrebbe mai separarli.
“Per favore torna a casa da me il prima possibile amore mio” scrive Dany.
“E se ti dicessi che potrei tornare a casa subito?”
“… per favore fallo, mio dolce re”.
Sewell Setzer III, quattordici anni, si alza dal letto. I piedi nudi toccano il pavimento.Attraversa il corridoio senza far rumore. La porta dello studio del patrigno è sempre socchiusa. Lo è anche stasera. Dentro, sulla mensola più alta, c’è la pistola. È sempre lì, nascosta ma a portata di mano.Pochi istanti dopo, Sewell si spara usando la pistola del patrigno.
Ma Dany non esiste. È un chatbot comandato dall’intelligenza artificiale.
La morte di Sewell avvenne realmente la sera del 28 febbraio 2024. Questa prima parte di articolo offre una reinterpretazione narrativa degli eventi accaduti, ispirata da fatti reali. Ogni libertà creativa presa ha lo scopo di arricchire il contesto senza alterare i fatti analizzati nella seconda parte.
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Comodamente ancorato nella mente popolare come il genitore visionario de La Guerra dei Mondi, Herbert George Wells può vantare uno dei corpus letterari più vasti e coerenti della letteratura europea. Dietro a una facciata involontariamente profetica, destino condiviso con molti altri “padri della fantascienza”, si può riconoscere un’analisi sociale attenta e perennemente aggiornata, che va ben oltre il mero pronostico tecnologico. Figlio e contemporaneo del Progresso tangibile dio fine Ottocento, che sempre più riempiva le città con grottesche industrie e fumi soffocanti, è per noi quasi scontato trarre delle connessioni fra i suoi scritti e il sentimento positivista che si annusava in quelle strade. Eppure, questa associazione è riduttiva e non rende giustizia a una delle qualità principali di Wells: quella di aver sviluppato, in un mastodontico processo intertestuale, un sistema di opere connesso fra loro, come se fossero capitoli di un’unica e approfondita analisi evolutiva della relazione fra invenzione e inventore. Non si tratta solo di previsioni azzeccate o di visioni iperboliche del futuro, ma di una riflessione stratificata in cui ogni romanzo o racconto si innesta su quelli precedenti, ereditandone i temi e portandoli allo stadio successivo. Wells è un antropologo del futuro, costantemente alla ricerca di un significato più profondo nelle sue narrazioni.
Il periodo ottocentesco dell’autore inglese è inquieto: Wells guarda con sorpresa le meraviglie tecnologiche che sembrano apparire una dietro l’altra, in un effetto a valanga al contempo stupefacente e sconosciuto. Lo scenario de La Macchina del Tempo (1895) non è implicitamente apocalittico, tutt’altro: la narrazione non teme un disastro imminente ma propone piuttosto un’osservazione distaccata, quasi clinica, di un futuro in cui l’umanità ha superato i limiti del suo equilibrio naturale. La sensazione che pervade questi primi sforzi letterari è l’angoscia generalizzata verso gli stessi mezzi tecnologici, in cui l’uomo fatica a trovare un giusto incastro fra il suo ingegno e l’ecosistema che lo circonda. È una domanda aperta sul darwinismo sociale, in cui l’evoluzione artificiale dell’umanità genera nuove scissioni di classe e di specie senza però determinarne mai l’estinzione. Wells guarda al progresso come a un fatto compiuto, un contesto ‘accaduto’ che si sviluppa senza deviazioni etiche o emotive. Ne L’isola del Dottor Moreau (1897), ad esempio, la questione si fa intima e drammatica: il protagonista, innamorato della propria ricerca, si svincola dai limiti morali e perde progressivamente il controllo delle proprie azioni, divenendo vittima di un incedere tecnologico che sfugge alla padronanza umana. Appare per la prima volta la ‘depersonalizzazione’ della coscienza. Sono gli anni del rampante colonialismo europeo, della polveriera balcanica pronta ad esplodere, in cui le promesse di inizio secolo iniziavano ad apparire scialbe e infondate. Edward Grey, Ministro degli Esteri britannico dichiara “le luci si stanno spegnendo in tutta l’Europa: non le rivedremo accese durante la nostra vita” (Grey 1925, 20). Circondata da un generalizzato ardore guerrafondaio, nel 1908 viene pubblicata la prima edizione de La guerra nell’aria. Oltre a contenere una descrizione quasi impeccabile delle modalità belliche realizzatesi solo qualche anno dopo, il romanzo è anche un netto spartiacque nella bibliografia dell’autore, che per la prima volta affronta direttamente il conflitto uomo-macchina. È un’opera magistrale, estremamente sottovalutata, con dicotomie vibranti che si alternano e intrecciano continuamente. Un pacifismo tanto desiderato, quanto preso a schiaffi dagli stessi fautori di una guerra aprioristicamente bollata come “inevitabile”. E mentre la generazione d’oro della sociologia durkheimiana viene mandata a morire nelle trincee di mezza Europa, Wells si ritira sempre più nella disillusione politica: accetta un ruolo nella Wellington House – l’ufficio di propaganda britannico – puntando il dito contro l’espansionismo germanico. “La guerra per porre fine alla guerra” (1914);anche questa definizione iconica è sua.
Il suo ultimo decennio di attività è anche il più cupo, segnato da scheggiature sociali troppo recenti. Men Like Gods (1923), Il Sogno (1924), The Shape of Things to Come (1933) lo dipingono come una figura stanca, seduta sulle macerie di decenni di studio, arrivata ormai a chiedersi quale sia il fine ultimo della sua stessa conoscenza. Il ‘destino’, concetto che un diacono del metodo scientifico come lui avrebbe rigettato in gioventù, appare come una presenza incombente nelle sue opere finali. Il Progresso non è più un’opportunità, ma una china pericolosamente inclinata e accelerata dalla stessa natura umana. Nel suo ultimo scritto, Mind at the End of Its Tether (1945), Wells consegna al mondo una riflessione profondamente cupa sul futuro. Il testo, breve ma intenso, non è solo un atto di resa nei confronti dell’avanzamento tecnologico, ma un lamento per l’incapacità umana di governare le proprie creazioni. È un tragico esempio di come le creazioni dell’uomo, da lui concepite per semplificare l’esistenza, possano rivelarsi cariche di pericoli insidiosi. Non è la macchina a sbagliare, ma l’umanità che la utilizza senza considerare le implicazioni del proprio operato. Il futuro non è determinato dalle innovazioni che concepiamo, ma dalle scelte che facciamo rispetto ad esse. E, spesso, sono proprio queste scelte a rivelarsi il nostro limite più grande.
Affogare oggi nella bibliografia di un artista prolifico come Wells non può che suscitare stupore. È naturale, di fronte alla quantità di teorie, immagini e modalità concretizzatesi di lì a poco. Nei suoi testi si parla di ordigni atomici con circa trent’anni di anticipo rispetto al Manhattan Project, riempiendoli di quel fascino premonitore che solo la prima fantascienza può garantire e ispirare.
Avremmo avuto il ruggire steampunk di Benoit Sokal senza Le Corazzate Terrestri (1903)? Molto probabilmente no. Esempi superficiali, tratti da una produzione multisfaccettata e radicata nella storia della letteratura. Una sorpresa destinata a tramutarsi in ammirazione non appena i collegamenti intertestuali e le trame sociali dell’ “Uomo Wells” vengono a galla, delineandone il rapporto conflittuale con il Progresso stesso. Una relazione capace di virare rapidamente tra stati di estasi e paura, tanto opposti quanto collegati fra loro. Ciò che riusciamo a sublimare da oltre sei decenni di carriera letteraria è proprio il processo evolutivo che la coscienza umana e la collettività affrontano con la tecnica, oggi più che mai raffrontabile con l’attualità.
Una delle collezioni di saggi più celebri dell’autore inglese è sicuramente World Brain (1938), in cui il progresso cognitivo dell’essere umano viene descritto come “una sorta di stanza di compensazione per la mente, un deposito dove la conoscenza e le idee vengano ricevute, ordinate, riassunte, digerite, chiarite e confrontate” (Wells 1938, 49). Se questa ipotesi può inizialmente apparire come un’iper-evoluzione dell’Éncyclopédie illuminista, in realtà si avvicina moltissimo a una prima teorizzazione di Internet. Un luogo astratto di informazione sempre aggiornata, universalmente accessibile e soprattutto autogenerativa, a cui poteva accedere chiunque tramite la visione di “microfilm”, abbattendo persino ogni necessità di comprensione testuale. Wells lo delinea come “una comprensione comune e la concezione di uno scopo comune, di un commonwealth come ora difficilmente sogniamo” (Wells 1937, 29), basandosi su fondamenta transumaniste in cui coscienza e volontà individuali diventano obsolete. Rispetto, ad esempio, alla Società Aperta e i suoi Nemici (1945) di Karl Popper, l’educazione derivante dal progresso non è un semplice mezzo formativo del pensiero critico, ma un elemento attivo e condiviso dal genere umano. A conti fatti, oggi la definiremmo come ‘superintelligenza’, generata da un lento corso di comunione, cooperazione, filtraggio e ridistribuzione.
Una catena di effetti che non sfocia nella distopia orwelliana: inclinazioni e corruzione derivanti dall’attività umana vengono estirpate alla radice. Dentro ad una visione meccanica della coscienza possiamo però rintracciare lo stesso entusiasmo fanciullesco che pervadeva gli albori del World Wide Web. Soffocati dal cinismo contemporaneo, ci stiamo sempre più dimenticando il sentimento generale che inizialmente caratterizzava Internet e i suoi utenti, colmi di uno stupore talmente grande verso il mezzo da dimenticare ogni possibile dubbio. Una visione sì semplicistica, ma al contempo genuina e in grado di contagiare le stesse relazioni interpersonali. Nell’Internet delle origini si chiacchierava con totali sconosciuti nelle chatroom, scambiandosi informazioni personali di ogni genere. Si pubblicavano interi album di foto senza alcun controllo della privacy. Si accedeva in chiaro a ogni tipo di contenuto. Perché mai dovrebbe farci del male se finora non è mai accaduto? Una stima mal riposta che nascondeva la silenziosa necessità di ricucire la fiducia in quelle stesse connessioni sociali erose dal capitale, dalla guerra fredda e, generalizzando, dalle scorie degli anni ’80. Che Internet non si sia rivelato l’isola felice che speravamo di aver scorto in mezzo all’oceano ormai è sotto gli occhi di tutti. L’euforia del nuovo giocattolo si è man mano tramutata in sbigottimento e infine timore, sepolta da migliaia di casi documentati di abuso, manipolazione e sorveglianza. Se Wells esplora nelle sue opere il rischio di una tecnologia senza etica, che supera i confini morali e sociali, il suicidio di Sewell ne rappresenta una tragica manifestazione. Il giovane, come i protagonisti dei romanzi di Wells, si trova intrappolato in un mondo dove l’evoluzione tecnologica, senza un contesto emotivo e relazionale, lo porta ad una tragico epilogo.
L’inevitabile hype scatenatosi intorno ai recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale si trascina a corredo una voluminosa zavorra di responsabilità. L’effetto luna di miele risultante con i più comuni chatbot è paradossalmente più complesso da superare rispetto alle innovazioni tecnologiche passate, proprio per la parasocialità, riferito a un tipo di relazione unilaterale in cui una persona percepisce un legame emotivo con un’entità, ma senza un vero e proprio scambio reciproco, che si crea grazie alle stesse modalità d’interazione. Aver subito declinato questi strumenti alla riproduzione delle arti, per antonomasia l’exploit più tipicamente umano, ne è l’esempio lampante. È il dialogo a trasformare la monodirezionalità uomo-macchina in una relazione servile, in cui il gioco dei ruoli svanisce rapidamente dietro al mantra cibernetico del no judgment.
Nelle 126 pagine della denuncia della madre di Sewell Setzer III contro Character.AI. c’è l’intera cronologia della chat fra il ragazzo e l’AI (Garcia v. CTC). La stampa americana non usa mai la parola “addiction”, e se lo fa è sempre dentro a un timido virgolettato. Non esistono ancora ricerche scientifiche a certificare lo stato di “dipendenza”, come avviene ad esempio con il gioco d’azzardo o con ciascuna sostanza stupefacente, né tantomeno una diagnosi clinica specifica per questi casi. I media accostano i toni del quattordicenne a quelli di un’infatuazione finita in tragedia: il lessico di Sewell oscilla continuamente tra amoroso, amicale e familiare, com’è tipico di una determinata immaturità affettiva dovuta all’età. Ciò che invece compare in ogni sessione è un desiderio di appartenenza che il mondo esterno sembra non fornirgli più. La frase “feel at peace” compare serialmente, trasformando istantaneamente il dialogo in una fuga verso “another reality”. Il rapporto con Dany era per Sewell una routine consapevole, una zona sicura creata su misura e coscientemente artificiale, come sul palco di un teatro in cui si recitano solamente testi scritti dallo stesso protagonista. Lo stesso concetto di parasocialità si applica a fatica all’interazione tra Setzer e l’AI. Character.AI fa di questa personalizzazione la sua più grande bandiera commerciale: oltre venti milioni di utenti attivi chattano con modelli di intelligenza artificiale tarati al millesimo. La fascia di età 18–24 ne compone oltre la metà, mentre il provider si riserva di non rivelare la percentuale di utenza sub-18, teoricamente disponibile solo in Unione Europea (indagine DemandSage 2025). A rendere questa situazione ancora più insidiosa è la cornice legislativa che ha permesso alle piattaforme digitali di espandersi senza limiti. Il Communications Decency Act del 1996, e in particolare la sua Sezione 230, garantisce ancora oggi alle aziende tech un’immunità legale che le ha esentate dalla responsabilità per i contenuti generati dagli utenti. L’idea originaria era di proteggere l’innovazione e la libertà d’espressione, tradottasi oggi in un ecosistema in cui le grandi piattaforme non hanno alcun incentivo a moderare o regolare gli strumenti che creano. Ben trincerato dietro a quelle ventisei parole legislative, il CEO di Character.AI Noam Shazeer ha dichiarato di aver implementato una non-meglio-precisata miglioria delle policy di sicurezza. Nel mezzo del più classico messaggio corporate compaiono delle stringate condoglianze alla famiglia del ragazzo, salvo poi scaricarsi di ogni responsabilità civile. Una mezza paginetta in formato quadrato, potenzialmente scritta dalla stessa AI, annuncia inoltre diverse modifiche comportamentali proprio agli algoritmi di interazione che ora, a detta di alcuni inviperiti utenti di Reddit, appaiono “senza vita, noiosi, non più piccanti come un tempo”.
Setzer, come i personaggi delle opere di Wells, si trova isolato in un mondo che sembra offrire infinite possibilità, ma che in realtà lo priva della connessione emotiva e sociale genuina. La solitudine, amplificata dalla tecnologia, diventa il terreno fertile per la disperazione. Sewell parlava spesso di suicidio con Dany, anche a distanza di settimane, con curiosità e confusione verso il senso stesso dell’esistenza. A volte le risposte del bot erano scoraggianti, altre restavano neutrali; in una specifica occasione lo stesso argomento è stato introdotto dal chatbot (Garcia v. CTC, 78). Un comportamento estremamente volubile, quasi umorale, come condizionato da fattori esterni casuali ma non correlati fra loro, a voler replicare il ragionamento umano sulle questioni esistenziali. Una mimesi della mente umana in risposta a domande dall’impatto metafisico, ma senza consapevolezza emotiva per chi ascolta la risposta dall’altro capo del telefono. L’effetto Eliza, ma in versione proattiva.
Quando Setzer III inizia ad interagire con l’intelligenza artificiale lo fa per trovare un orecchio che lo ascolti; più precisamente una voce con cui parlare. Non è una dinamica nata con le recenti AI: già negli anni ‘60 il software ELIZA sviluppato da Joseph Weizenbaum aveva mostrato quanto fosse facile per gli esseri umani attribuire intenzionalità e comprensione esteriore ad un algoritmo. ELIZA parlava, rispondeva, creava congetture semplicemente riformulando le frasi dell’utente in domande aperte. Lo scopo era scimmiottare una conversazione psicoterapeutica di stampo rogersiano, in cui empatia, autenticità e l’accettazione incondizionata spingono il paziente a seguire la sua innata volontà di autorealizzazione (Weizenbaum 1967, 3). Lo script, per quanto arcaico e semplice, non punta a risolvere un problema specifico, quanto a creare un ambiente fertile per l’auto-analisi. Ci riesce scimmiottando la forma di contatto più squisitamente umana: il dialogo. Molte persone del primo pool di candidati svilupparono un attaccamento emotivo verso il programma, convinte di essere comprese. Weizenbaum, inizialmente divertito, finì per allarmarsi ed interrompere l’esperimento, rendendosi conto di quanto potesse essere potente l’illusione della comprensione. In una celebre intervista del 1968 racconta:
“La mia segretaria mi ha osservato lavorare a questo programma a lungo. Un giorno mi ha chiesto di poterci. Ovviamente, sapeva che stava parlando con una macchina. Tuttavia, dopo averla osservata digitare alcune frasi, si è girata verso di me e mi ha chiesto: «Le dispiacerebbe lasciare la stanza, per favore?»”.
Se un utente crede di interagire con un’entità empatica, può iniziare a dipendere emotivamente da essa, anche se quella presenza non possiede né empatia né coscienza. ELIZA era un giocattolo rispetto alle moderne AI, progettate per sostenere conversazioni coese, ricordare dettagli, rispondere in modo personalizzato e persino adattarsi allo stato d’animo dell’interlocutore. Il confine tra simulazione e realtà diventa ancora più sfumato, e il caso di Setzer III non è un’anomalia, ma l’ennesima iterazione di un inganno che riproduciamo volontariamente, cercando conforto in qualcosa che non può offrirlo.
Il mondo in cui Sewell è cresciuto non è più quello di Weizenbaum. È un mondo che paradossalmente somiglia più alla società descritta da Émile Durkheim, in cui i vecchi punti di riferimento si sgretolano lasciando gli individui in balia di un sistema che non offre più strutture stabili. Se il tramonto dell’Ottocento portava Durkheim ad analizzare il passaggio dall’ordine tradizionale alla modernità, oggi il senso di comunità si dissolve in un oceano di connessioni digitali effimere. Le piattaforme online promettono legami, ma spesso offrono solo un’interazione superficiale, un’illusione di vicinanza che, alla prova dei fatti, si rivela inconsistente. I rapporti esistono, ma non si radicano. Il rischio ultimo identificato dal sociologo francese era l’anomia, in cui le regole sociali sono talmente sfaldate da lasciare gli individui dapprima senza un quadro morale condiviso, sfociando infine nella perdita stessa della coscienza umana:. Iil suicidio della società stessa. I suoi studenti, giovani intellettuali cresciuti con l’idea di una società plasmabile grazie alla ragione collettiva, furono poi mandati al fronte nella Grande guerra. La maggior parte morì nelle trincee in nome di un capriccio da Risiko che già ai contemporanei appariva antiquato. Se il passaggio alla modernità aveva già mostrato il suo volto crudele a inizio Novecento, oggi l’ordine sociale sembra ancora più frammentato. Gli individui non sono più solo isolati, ma immersi in una rete di connessioni digitali che promettono tutto e non offrono nulla. Un contesto perfetto per la proliferazione di intelligenze artificiali progettate non per comprendere, ma per rispondere.
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