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2 Novembre 2023

TRA CONFLITTI E TRASFORMAZIONI: LA CINA NEL PASSAGGIO DAI TRATTATI INEGUALI ALLA RIVOLUZIONE DEL 1949

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L’Asia del XIX secolo era un continente con un sistema sinocentrico, nel quale la Cina aveva un ruolo centrale e altri paesi, come Corea e Giappone, riconoscevano la sua superiorità a livello militare, politico e commerciale. La Cina intratteneva relazioni con i paesi vicini con un sistema basato sui tributi: c’erano una serie di ambascerie che si recavano a Pechino per portare doni all’imperatore nell’ambito di cerimonie che erano occasioni per rafforzare gli scambi. In cambio questi paesi ricevevano benevolenza, protezione militare e soprattutto il permesso di commerciare. Questo sistema tributario era chiuso e tutto ciò che ne stava al di fuori era considerato il mondo dei barbari, tra cui le grandi potenze europee come Regno Unito e Francia. La prima aveva cercato di aprire un dialogo fin dal 1793, inviando un’ambasceria per chiedere l’apertura delle relazioni commerciali e diplomatiche, ma la risposta cinese fu sempre netta: non abbiamo bisogno di relazioni con i paesi occidentali.

Gli inglesi, da buoni colonialisti, reagirono diffondendo una merce che doveva rompere il muro cinese: l’oppio. Questo fu introdotto a inizio ‘800 tramite l’India, corrompendo mercanti cinesi e funzionari locali che riuscirono a far entrare l’oppio da Canton, uno dei maggiori porti commerciali dell’epoca. Così facendo l’Inghilterra provocò nell’impero della dinastia Qing delle gravi conseguenze dal punto di vista sociale.

La Cina cercò di difendersi con una serie di divieti e maggiori controlli ma, al crescere del commercio illegale, decise di sequestrare tutte le merci. L’Inghilterra rispose con la forza militare, scatenando quella che è conosciuta come Prima guerra dell’oppio, scoppiata nel 1839 e conclusasi nel 1842 con la vittoria militare di Londra e la firma del Trattato di Nanchino. Il primo dei cosiddetti trattati ineguali determinò la fine del sistema tributario asiatico sinocentrico. Infatti, il trattato prevedeva la cessione di Hong Kong all’Inghilterra, che rimase inglese fino al 1997, l’apertura di vari porti alle navi commerciali straniere, pagamenti di indennità di guerra e altre clausole molto svantaggiose per la Cina, che, successivamente subì l’estensione di tali diritti sul proprio territorio anche verso altri paesi, come Francia e Stati Uniti.

L’Impero Mancese cercò di non applicare le disposizioni previste dai trattati ineguali, il commercio d’oppio non divenne legale ma la produzione aumentò vista la grande richiesta interna ed iniziò a essere prodotto anche in Cina, in particolare al sud. Inoltre, l’Impero non permise l’effettivo accesso degli stranieri ai porti e alle città. Ciò provocò una reazione molto dura da parte dell’Inghilterra e della Francia: un intervento congiunto, appoggiato dagli americani e che portò alla Seconda guerra dell’oppio. Un corpo di spedizione assalì dapprima Canton e Tianjin e poi, nel 1860, sfondò a Pechino dove venne saccheggiato e dato alle fiamme il Palazzo d’Estate, residenza della dinastia Qing. Furono firmati due trattati, quello di Tianjin e quello di Pechino, che stabilirono ulteriori condizioni sfavorevoli: vennero aperti altri 11 porti, i mercanti e i missionari stranieri poterono circolare liberamente, gli fu garantito libero accesso delle flotte alla rete fluviale cinese e passaggio privilegiato alle regioni interne per il commercio.

Tutto ciò provocò effetti devastanti sull’economia dell’Impero Cinese: ci fu un aumento delle tasse e il malcontento della popolazione si fece pressante per la dinastia. Tra il 1860 e il 1895, con la politica della porta aperta, tutte le potenze occidentali avevano in Cina le medesime condizioni e opportunità. Con il continuo aumento delle imposte interne, ci fu un grosso impoverimento che rese la Cina un impero allo sbando. Davanti a questa situazione di umiliazione si farà sentire sempre di più il malcontento interno che darà il via a una serie di rivolte, tra cui la Rivolta dei Boxer del 1900: con un attacco alle infrastrutture delle potenze occidentali, l’assassinio del rappresentante diplomatico tedesco e l’assedio al quartiere delle rappresentanze diplomatiche. Le potenze occidentali organizzarono un intervento internazionale congiunto, al quale partecipò anche l’Italia: ancora una volta la Cina dovette subire un trattato sfavorevole, il Protocollo dei Boxer. Tra le numerose clausole vi furono il pagamento di nuove indennità di guerra, l’insediamento di truppe straniere a Pechino e l’inserimento dell’imperatrice Cixi nella lista dei criminali di guerra.

Tra il 1906 e il 1907 iniziarono una serie di attività e insurrezioni contro la dinastia mancese, che mirarono, fallendo, a scacciare la famiglia imperiale. Il punto di partenza della rivolta fu la città di Wuchang, sede della Nuova Armata voluta dell’imperatrice e comandata da Yuan Shikai, ma anche di alcune organizzazioni rivoluzionarie che avevano contatti con la Lega Giurata guidata da Sun Yat-Sen e fondata a Tokyo nel 1905, con lo scopo di rovesciare la dinastia mancese e creare un nuovo assetto politico di tipo repubblicano. Fu la nazionalizzazione delle ferrovie nel 1911 a scatenare la ribellione che partì da Wuchang il 10 ottobre e che portò alla caduta della dinastia. Wuchang si dichiarò indipendente dal governo centrale e i giorni seguenti numerose altre città seguirono l’esempio e strinsero rapporti con la Lega. Il 1° gennaio 1912 venne proclamata la Repubblica di Cina, nella quale ancora persisteva la divisione territoriale, dovuta certamente alla lunga serie di aggressioni militari da parte delle potenze occidentali ma anche a una complessa rete di poteri regionali gestiti, spesso dispoticamente, da signori della guerra locali.

Sun Yat-Sen fu inizialmente Presidente della Repubblica, tuttavia, con l’obiettivo di abbattere definitivamente la dinastia mancese, cedette il potere a un uomo vicino alla casa imperiale, Yuan Shikai. Egli rassicurò Yat-Sen sull’abdicazione dell’imperatore Pu Yi e così si aprì la strada per accentrare il potere nelle sue mani. Nel frattempo, i rivoluzionari della Lega Giurata l’avevano trasformata nel Kuomintang, il Partito Nazionalista. Nel dicembre del 1912 ci furono le prime elezioni repubblicane, uno dei rari momenti di democrazia nella storia cinese. Il Partito Nazionalista si assicurò la vittoria con il 45% dei voti, ma mentre il rivoluzionario e membro fondatore della Lega Giurata Song Jiaoren era in viaggio, verso Pechino per formare il nuovo governo, fu assassinato. Così tra il 1913 e il 1914, Shikai proseguì il processo di centralizzazione del potere arrivando a sciogliere le assemblee rappresentative e a dichiarare fuori legge il Kuomintang. Si proclamò “grande imperatore costituzionale” professando la volontà di mettere fine ai disordini interni al paese.

Quando nel 1916 Yuan Shikai morì, il mondo si trovava nel pieno della Grande Guerra e la Cina stessa non fu esente dall’inutile strage. Infatti, approfittando anche del vuoto di potere e della divisione interna in Cina, nonché della propria superiorità militare, l’impero giapponese si concentrò sulla politica di espansionismo verso la neonata Repubblica, che dovette subire l’umiliazione delle famose 21 domande. Si tratta di un articolato elenco di richieste, diviso in cinque gruppi, di cui l’ultimo conteneva quelle più severe e umilianti. Il Giappone pretendeva di allargare i diritti e i privilegi in varie regioni, inserire consiglieri nipponici nei settori politici, militari e finanziari trasformando, de facto ma non de jure, la Cina in un protettorato. Il 7 maggio, detto Giorno dell’Umiliazione Nazionale, la Cina fu costretta ad accettare parte delle richieste (quinto gruppo escluso) vedendo minacciata la propria sovranità. Fra i politici cinesi, nel frattempo, si sviluppò una dura battaglia tra favorevoli e contrari all’intervento nella guerra mondiale, che si concluse con la dichiarazione formale di guerra contro la Germania, nell’aprile del 1917, grazie anche ad un sostanzioso prestito giapponese.

La Prima guerra mondiale aveva quindi visto il Giappone puntare con arroganza a trasformare la Cina in un protettorato, con la conseguenza di far sorgere un movimento nazionalista, animato da studenti e intellettuali, che emerse con forza nella primavera del 1919. Meglio conosciuto come movimento del Quattro maggio 1919, esso nacque per contestare la pace di Versailles che aveva stabilito, sopra la testa di una Cina divisa, di mantenere l’ex concessione tedesca dello Shandong sotto il controllo giapponese anziché restituirla alla Cina.

In questa situazione si fece sentire l’influenza dell’Unione Sovietica e nel 1921 venne fondato a Shangai il Partito Comunista Cinese (PCC). Molti giovani videro il partito come un punto di riferimento, in quanto il marxismo era visto come la teoria giusta per la lotta del paese. Così si saldarono due componenti: la prima era quella nazionalistica guidata da Sun Yat-Sen il quale, a capo del Kuomintang, formò a Canton un governo che si contrapponeva al governo dei Giapponesi, con sede a Pechino. La seconda era appunto quella del Partito Comunista, del quale fu tra i 12 fondatori lo stesso Mao Zedong, all’epoca non ancora un consapevole marxista.

Queste due realtà cercarono inizialmente di trovare dei punti in comune, per avviare una proficua collaborazione in ottica anti-imperialista. Fu tuttavia breve la durata del cosiddetto primo fronte unito tra questi due partiti, che tra il 1924 e il 1925 lavorarono a stretto contatto. Nel 1925 Sun Yat-Sen morì, ciò fece riaffiorare tutte le divergenze interne al fronte e questa esperienza si rivelò fallimentare. Negli anni successivi i comunisti portarono avanti le grandi agitazioni operaie scoppiate a Shangai, Canton e in altre località, e sostennero movimenti contadini diretti contro i grandi proprietari terrieri. Il nuovo capo del Partito Nazionalista, Chiang Kai-shek, avviò a partire dal 1927 una sanguinosa repressione nei confronti dei comunisti e costituì a Nanchino un governo, appoggiandosi sia sulle potenze straniere sia sui signori della guerra. Dopo la sconfitta del 1927 il Partito Comunista, invece, si ritirò nelle campagne dove i pochi militanti ancora sopravvissuti si dedicarono all’elaborazione di una nuova strategia.

Mao Zedong, dopo aver assunto la leadership del Partito Comunista Cinese, ha introdotto una versione adattata del marxismo conosciuta come “marxismo in forma cinese”. Ha riconosciuto che la forza trainante della rivoluzione cinese risiedeva nelle aree rurali, non nelle città come sostenuto dalle teorie europee e leniniste. Nel 1931, si è tenuto il primo Congresso dei Soviet a Ruijin, nella provincia di Jiangxi, che ha portato alla creazione della Repubblica Sovietica Cinese. Mao è stato eletto presidente di questa repubblica, che è stata caratterizzata come una “dittatura democratica del proletariato e dei contadini”, anche se il proletariato comprendeva principalmente artigiani e lavoratori agricoli. Due aspetti fondamentali di questa repubblica includono la riforma agraria, che prevedeva la requisizione delle terre dei proprietari terrieri senza compensazione e la loro distribuzione ai contadini, e la legge sul matrimonio, volta a emancipare le donne, abolire i matrimoni combinati e semplificare il divorzio. Queste politiche miravano a risolvere problemi sociali ed economici nell’area di Jiangxi, dove la distribuzione delle terre era estremamente disuguale e le donne avevano bisogno di maggiore autonomia nei loro matrimoni.

Quando nel 1934 le truppe nazionalistiche attaccarono i comunisti nel Jiangxi, questi furono costretti ad abbandonare il territorio. Ebbe così luogo la Lunga Marcia, un tragitto di 10.000 km che portò i comunisti a trasferirsi a Yan’an, dove Mao organizzò nuovamente uno Stato da lui diretto. Dei 90.000 circa che erano partiti per il Nord-Ovest del paese, solo 7.000 arrivarono a destinazione. Quando il Giappone invase la Cina nel 1937, Kuomintang e PCC tornarono al fronte comune per combattere il nemico. I nazionalisti subirono gravissime perdite data la superiorità dell’invasore nipponico, anche perché lo affrontarono frontalmente. D’altro canto i comunisti, consapevoli della loro impreparazione militare in un conflitto convenzionale, condussero una sistematica azione di guerriglia nelle campagne con il sostegno dei contadini.

Dal 1935 al 1944 i comunisti stabilirono quindi a Yan’an la loro base di potere, sperimentando politiche e forme di governo, di propaganda e mobilitazione che sarebbero poi state applicate in tutto il paese, e che fornirono un’esperienza amministrativa cui poter fare riferimento una volta catapultati al vertice del potere di tutta la Cina riunificata. Qui si posero le basi di un’etica, una cultura e una letteratura socialiste, e si sperimentò la “linea di massa”, basata sulla mobilitazione, sulla critica e sull’autocritica, strumenti che Mao imporrà a più riprese negli anni successivi, fino alla Rivoluzione culturale, per chiamare il paese a sforzi produttivi o per combattere i suoi nemici in seno al partito.

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si pose fine all’isolamento della Cina, questa si trovò inserita in una coalizione mondiale di potenze in lotta contro il nazifascismo e il militarismo nipponico. Il 2 settembre 1945, il Giappone dichiarò la resa incondizionata, che pose fine sia alla Seconda Guerra Mondiale che a quella tra Cina e Giappone. Quando la guerra con il Giappone ebbe fine, Mao Zedong e i comunisti si trovavano saldamente insediati in ampie zone della Cina settentrionale e centrale, mentre Chiang Kai-shek e i nazionalisti controllavano le zone costiere meridionali e le grandi città. Alla fine della guerra il Kuomintang costituiva il governo ufficiale della Cina, riconosciuto non solo dalle potenze occidentali ma anche dall’Unione Sovietica, la quale, pur appoggiando Mao, era convinta che Chiang Kai-Shek sarebbe stato in grado di assumere, alla fine, il pieno controllo dell’intero paese, in virtù di quella che appariva una forza militare assai superiore. La situazione, però, andò evolvendo in tutt’altra direzione. In seguito al fallimento di trattative poco convinte tra le due parti, nell’autunno del 1946 ebbe inizio la guerra civile. Essa prese una piega in favore dei comunisti tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, quando, con la sorpresa di americani e sovietici, questi presero il sopravvento sui nazionalisti, sbaragliandone le forze. Chiang Kai-shek e i suoi furono costretti a scappare sull’Isola di Formosa, quella che oggi conosciamo come Taiwan o come Repubblica di Cina. Il 1° ottobre 1949 Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese.

I 110 anni tra il 1839 e il 1949, periodo durante il quale la Cina ha perso la sovranità su una larga fetta del suo territorio in favore delle potenze occidentali, viene considerato il secolo delle umiliazioni. Per capire la Cina di oggi bisogna ben considerare il fatto che il secolo delle umiliazioni è un periodo di forte crisi identitaria del paese e che parte della legittimità del PCC deriva da questo: ha ripristinato la sovranità sul territorio e ha portato la Cina ad un’ascesa politica ed economica. Non sono mancate le proteste e le insurrezioni, come le manifestazioni in Piazza Tienanmen nel 1989 contro la repressione mediatica, la corruzione nel partito e la disoccupazione. Ciò nonostante, la Repubblica popolare rimane salda e nel nuovo secolo si appresta a sfidare gli Stati Uniti per il ruolo di prima potenza mondiale.

 

Bibliografia:

Salvadori M., Rivoluzione cinese, Treccani, 2006

Samarani G., La Cina del novecento, Torino, Giulio Einaudi editore, 2004

Tomba L., Storia della Repubblica popolare cinese, Milano, Mondadori, 2002

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