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9 Novembre 2023

LA SEDUZIONE DEL TRIBALISMO

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Chi segue la politica americana saprà che il 4 ottobre 2023, per la prima volta da sempre, lo speaker del Congresso (grosso modo equivalente a quello che in Italia è il Presidente della Camera) è stato sfiduciato da un voto in aula. Uno dei personaggi che hanno maggiormente contribuito a questo evento storico è un deputato della Florida di nome Matt Gaetz, che si è recentemente autodefinito un “tribalista bannoniano“.

Quel che mi ha colpito di più della dichiarazione non è stato il riferimento a Steve Bannon, da molti considerato l’ideologo principe di vari movimenti politici sparpagliati per l’Occidente, dai sostenitori della Brexit e Trump a Salvini e Orbán. Quello non mi sorprende. È stata la parola  “tribalista” che ho trovato singolarmente onesta e rivelatrice. Qui sotto, cercherò di spiegare perché, secondo me, l’idea di appartenenza a una tribù sia al centro nel messaggio bannoniano e della sua straordinaria capacità di seduzione.

Saltiamo in Italia: nella serata del 3 ottobre 2023, un popolare programma televisivo ospita due  giornalisti: uno è Marco Travaglio, che immagino sia noto ai lettori. L’altra è meno conosciuta, si chiama Brunella Bolloli e scrive per Libero, che penso sia pacifico descrivere come uno dei media più bannoniani tra tutti quelli in lingua italiana. L’argomento della Bolloli era, grosso modo: è bene che una magistrata dalle idee politiche dichiaratamente di sinistra si occupi di vicende legate a sbarchi e immigrazione?

Naturalmente, messa in questo modo, è una domanda retorica. La risposta sottintesa è “certo che no”. E, tuttavia, questo artificio retorico era troppo elementare e scoperto perché Travaglio non lo contestasse, argomentando che le idee politiche, e se è per questo le caratteristiche personali di una magistrata, sono completamente irrilevanti: nella misura in cui lei applica una norma esistente in modo tecnicamente corretto non ha senso chiedersi se sia di destra o di sinistra, così come non avrebbe senso chiedersi per che squadra tifi, se sia mancina o destrimana, vegana o amante delle  bistecche (Travaglio non l’ha detta proprio così, ma concedetemi il vezzo di infiocchettare un pochino).

In questo frangente, la risposta di Travaglio è stata acuta e precisa, perché si è concentrata sulla vera questione di cui si stava discutendo, anche se in modo del tutto implicito. Mettiamo che Travaglio, o un altro giornalista per lui, avesse cominciato a ribattere in modo diverso: sostenendo, ad esempio, degli argomenti “progressisti” sull’immigrazione, o che non è vero che la magistrata in questione è di sinistra, o che magari lo è ma ha fatto bene a fare quel che ha fatto. In quel caso, sarebbe caduto nella vera trappola dialettica di Bolloli, che magari l’ha tesa senza neanche esserne consapevole.  La finezza retorica in questo caso stava nella tecnica per cui si litiga su Y, quando in realtà la vera affermazione che interessa è X, da cui Y discende, cosicché l’interlocutore, nel contestare Y,  implicitamente avvalora X.

Per esempio: immaginiamo che io e un mio amico si vada a cena fuori, e che io però cominci a dargli del prepotente perché andiamo sempre nella pizzeria che piace a lui. Nel momento stesso in cui lui ribatte che lì si sta meglio, e poi il pizzaiolo è napoletano, e anche i dolci sono più buoni, ha già perso. Perché il mio vero obiettivo non era andare in quella pizzeria, ma mangiare la pizza anziché il cinese. In questo esempio, X è la scelta se mangiare la pizza, Y è in quale pizzeria andare.

Nel caso in esame, se una giornalista contesta la magistrata per il suo orientamento politico, una reazione diversa da quella di Travaglio implicherebbe che la domanda se la magistrata sia o no di sinistra meriti una risposta, perché solleva un interrogativo non infondato. E a quel punto la giornalista avrebbe vinto la sua battaglia verbale.

Il punto X, quello che interessa davvero, è in questo caso che l’appartenenza conti, anzi, che sia tutto quel che importa. Perché, se andiamo a vedere bene, la cifra comune dei bannoniani non è tanto il razzismo o la cattiveria o le altre intemperanze a cui ci hanno abituati. È che il bannonismo sta tentando di far passare un’idea tribalista della società, in cui non conta più neanche se uno ha ragione o ha torto, conta solo se è uno della mia tribù o di quella nemica.

Una delle cifre retoriche più sistematiche e prevedibili dei media che questa idea sostengono è, fateci caso, l’uso della terza persona plurale senza menzionare chi sia il soggetto della frase. Ad  esempio, frasi del tipo “cercano di impedirci di guidare la macchina”, “frignano sui diritti LGBT”, o soavità di questo genere. Quando proprio non si può fare a meno di un soggetto per la frase, esso è  il più vago possibile (“i professoroni”, “la sinistra”, “i radical chic”). Il trucco di frasi di questo tipo, quasi sempre usate come titoli a nove colonne, è che il lettore è libero di decidere, in base al proprio stato d’animo del momento, chi siano ”loro” e quindi, per contrapposizione, chi siamo “noi”. Da un lato questo rinforza nell’immediato il consenso per questo o quello, ma soprattutto rinforza la  mentalità di uno scontro permanente fra tribù.

Al momento in cui scrivo, Donald Trump è sotto processo a New York per delle pastette contabili. La tattica da lui usata (indubbiamente mutuata da una lunga tradizione italiana, di cui Silvio  Berlusconi è stato uno degli interpreti più virtuosistici) è, al momento, di delegittimare i suoi giudici anche, e soprattutto, sul piano personale. Da un lato, questo è certamente un tatticismo processuale, ma è anche una riaffermazione implicita (e che per questo tocca corde più profonde e sensibili) del principio tribalistico: non conta se ho fatto delle porchette in bilancio, conta solo che questi siano dei maledetti liberal, nemici miei e per induzione vostri, che siete brava gente. Sono nemici della nostra tribù.

Si dirà che il tribalismo è sempre esistito. Anzi, tutte le parole che derivano da “tribù” evocano in noi immagini arcaiche e ancestrali, di mondi che sono molto lontani da noi nel tempo o nello spazio. Ed è proprio questo il punto. Una delle cifre più inconfondibili della modernità è il passaggio progressivo da un sistema di regole ad personam a un sistema di regole impersonali. Naturalmente, è un percorso di secoli, ma anche solo per la generazione dei miei genitori era normale chiedere lo sconto al negoziante, cercare di parlare con qualcuno in comune per farsi annullare la multa, avere il macellaio di fiducia che ti teneva da parte i pezzi migliori. Nel mondo antico, la tribù offre protezione e indulgenza; fuori dalla tribù c’è solo indifferenza o, peggio, ostilità. Nell’Atene di Pericle lo straniero non godeva di alcuna tutela giuridica perché, appunto, non ateniese. Si noti che in questa visione del mondo l’idea dell’arbitrio non è di per sé negativa: è un dato di fatto. L’arbitrio può tornare anche a mio vantaggio, se conosco le persone giuste.

Il sistema delle regole impersonali, però, è indispensabile al funzionamento di un’economia, e di una società, in cui abbiamo a che fare con persone che non vedremo mai in carne ed ossa e in cui paghiamo con la plastica. Nella modernità globalizzata non importa chi tu sia, e cercare il trattamento di favore è semplicemente ridicolo: quel che cerchiamo sono, semmai, regole chiare ed eque per meccanismi che funzionino in modo veloce e impeccabile.

Com’è noto, molte norme si reggono sull’idea che esse siano naturali e condivise da tutta la società. Questo vale tanto per i comportamenti positivi (l’automobilista si ferma al semaforo perché sa che gli altri lo fanno, se no non avrebbe motivo di farlo) che per quelli negativi (il commerciante  paga il pizzo al delinquente perché sa che lo fanno tutti e denunciare sarebbe inutile). Se si insinua il dubbio che le regole impersonali siano preferibili a quelle ad personam, è la fine del vantaggio implicito nell’appartenenza.

E qui veniamo allo straordinario potere di seduzione del tribalismo: accreditare l’idea che il mondo vada letto con categorie di appartenenza, anziché astratte ed impersonali, riscatta e dà speranza a quegli strati sociali che dalla globalizzazione sono stati sconfitti. L’Occidente ha, negli ultimi due secoli, vissuto una fase culturale senza precedenti nella storia del mondo:  un clima in cui l’individuo è al centro della società, e se vogliamo della politica e persino dell’etica. Noi, abitanti dell’Occidente nel XXI secolo, siamo abituati a pensare che il diritto dell’individuo a realizzare le proprie aspirazioni (o per lo meno il diritto a provarci) e il diritto a vivere secondo le proprie inclinazioni siano sacri. È da questa idea che promana il liberismo in economia e tutta la tradizione, cominciata nell’Ottocento, delle lotte per la parità fra i sessi, per i diritti individuali, contro le  categorie della società premoderna e patriarcale. Le società tradizionali (e, per certi versi, alcune  società contemporanee) invece basano la felicità dell’individuo nell’essere la rotella del meccanismo. Compito magari ingrato, ma è il meccanismo che conta, non la rotella. Nel mondo premoderno, l’idea che una donna possa voler prendere il premio Nobel (o più semplicemente vivere da sola senza un marito) è tanto bizzarra e stravagante quanto l’idea che un carburatore abbia ragione di esistere al di fuori di un motore.

Ma se l’individualismo è un’opportunità per chi è attrezzato, è anche una giungla spaventosa e ostile per chi non lo è. Chi per qualche verso è straordinario trova nell’individualismo la via per far fruttare le proprie doti; ma chi straordinario non è trova protezione e conforto nell’essere la rotella del meccanismo. Salvo eccezioni, gli operai mandati in cassa integrazione per la chiusura di uno  stabilimento non sanno che farsene delle sconfinate possibilità che una società individualista offre loro, e così tutti gli sconfitti dalla modernità e dalla globalizzazione: dalle legioni di vecchi soli e malandati, così comuni nei paesi ricchi, agli abitanti dei condomini di periferia, agli immigrati di seconda o terza generazione delle banlieue francesi.

Per tutti questi, il tribalismo è protezione, speranza, identità. Non sorprende, quindi, che ci sia chi prospera su queste debolezze umane, facendo balenare l’identità (geografica, etnica, religiosa) come rifugio dalla paura e dall’insicurezza; la cosa che io trovo triste, crudele e deprecabile è che quasi sempre questo viene fatto in modo disonesto e strumentale. Peggio ancora, utilizzando sui media,  tradizionali e non, tutto lo spaventoso arsenale che le moderne tecniche di manipolazione del consenso, messe a punto in decenni di marketing scientifico, offrono loro.

Naturalmente, questo mio argomento non va preso come un inno all’individualismo (gli estremisti del quale hanno fatto danni spaventosi): una società senza la possibilità di riconoscere se stessi in un sottogruppo, e comportarsi di conseguenza, è inconcepibile. La necessità di avere una tribù attraversa i continenti e le epoche, ed è probabilmente un tratto biologico della mente umana. Quel che dobbiamo fare non è eliminare il tribalismo, ma estirparlo dalle categorie della politica. Ci vuole del tempo e del lavoro, ma si può fare. Anche solo 50 anni fa, negli anni di piombo, l’idea che la violenza fosse accettabile nello scontro politico era molto meno scandalosa di oggi (per non parlare di 100 anni fa, ai tempi degli squadristi). Siamo riusciti a delegittimare lo scontro fisico in politica, possiamo farlo col tribalismo: basta ricordare a noi stessi e a tutti, con ostinata pazienza, che il tribalismo ha come conseguenza inevitabile la legge della giungla, e che le regole servono a tutelare il debole, ché il forte si tutela da sé.

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