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2 Maggio 2024

LOBBY GAY: STORIA DEL COMPLOTTO DA ENGELS A PILLON (PRIMA PARTE)

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Un’oscura associazione sovversiva, un gruppo che agisce al servizio dei poteri forti, un complotto di portata mondiale. Avrete sicuramente sentito parlare della lobby gay, nella retorica delle destre è un argomento decisamente ricorrente: Meloni ne ha parlato nel suo intervento del 2022 in Andalusia a sostegno del partito Vox, dichiarando che “nessuna mediazione è possibile, o si dice sì, o si dice no. Sì alla famiglia tradizionale, no alla lobby LGBT” (trad.mia) ; e come dimenticare il patriarca Kirill, che a qualche settimana dall’invasione russa dell’Ucraina ha giustificato la guerra asserendo che fosse contro la lobby gay? Insomma, per fortuna che ci sono loro a ergersi a difesa del popolo – a patto, però, che sia eterosessuale e cisgender.

Ma da cosa lo stanno difendendo? Insomma, se questa lobby esiste davvero, quali sono i suoi obiettivi? Conquistare il mondo? Convertire tutti gli eterosessuali? Costringere tutti gli uomini cis a indossare tacchi e minigonna? Nessuno lo sa, in realtà non si è ben capito, eppure è addirittura dall’Ottocento che se ne discute, un lungo periodo in cui la lobby gay è stata denominata in vari modi, a seconda dei suoi supposti obiettivi e alleanze. Ed eccoci allo scopo di questo articolo in due puntate: fare un po’ di chiarezza su questa fantomatica lobby, cercando di capire se sia mai esistita effettivamente, e, se sì, quali siano gli intenti reconditi che l’hanno mossa.

Fine Ottocento: i pederasti di Engels

La prima testimonianza di un sospetto legato all’esistenza della lobby gay è una lettera datata 22 giugno 1869, indirizzata a Karl Marx e firmata da Friedrich Engels:

I pederasti stanno cominciando a rendersi conto di quanti sono e a scoprire che costituiscono una forza nello Stato. Gli manca solo un’organizzazione, ma secondo questo [un opuscolo di Karl Heinrich Ulrichs, primo gay dichiarato a parlare pubblicamente dei diritti degli omosessuali] essa esiste già in segreto. E, poiché in tutti i partiti vecchi, e finanche nei nuovi, da Rösing a Schweitzer, vi sono uomini importanti di tale tipo, la vittoria per loro non può che arrivare. […] Che siamo personalmente troppo vecchi per dover temere che, alla vittoria di questo partito, dovremo pagare ai vincitori un tributo con il nostro corpo, è solo una fortuna. Ma la [povera] generazione dei giovani! (Gregory 2017)

A preoccupare Engels, oltre all’integrità fisica delle generazioni che, secondo lui, avrebbero assistito alla vittoria del “partito”, è la presenza capillare di questo gruppo. Infatti, a quanto dice, i “pederasti” sono presenti “in tutti i partiti vecchi, e finanche nei nuovi”, ma in realtà sono dappertutto: sono una comunità – ed è questo a spaventare – intersezionale, che trascende convenzioni formali, sociali e politiche, e valica le culture nazionali, quelle razziali e le sottoculture di classe.

È bene tenere a mente che la società di cui Engels fa parte mentre scrive questa lettera è quella ottocentesca, un periodo in cui la sessualità assunse una centralità inedita all’interno delle politiche pubbliche. Infatti, per assicurarsi una buona crescita demografica, i neonati Stati-nazione introdussero programmi statali di salute e igiene pubblica, mettendo allo stesso tempo al bando e patologizzando tutte quelle sessualità, espressioni e identità di genere che non si conformavano al nucleo familiare eterosessuale, su cui invece le nuove società stavano ridisegnando i propri profili di cittadinanza.

È questo il periodo in cui le differenze di genere si ancorano definitivamente alla dimensione biologica dei corpi e si fanno ricondurre a un rigido binarismo, in cui il sesso penetrativo eterosessuale divenne l’unica attività sessuale ammissibile, e lo studio di chiunque se ne discostasse venne demandato a medicina e psichiatria. La trattatistica medica del periodo è, poi, illuminante anche sulla questione dei corpi femminili: le cause del lesbismo venivano ricercate quasi esclusivamente nelle caratteristiche fisiche – a differenza dell’omosessualità maschile – e questa scelta di indagine lombrosiana finì per delineare un profilo normativo di femminilità, indicandone caratteristiche comportamentali e fisiche, sostanzialmente in linea con gli ideali bianchi e borghesi. Infatti, secondo la retorica colonizzatrice con cui gli europei esportarono il loro modello in tutto il mondo, le persone razzializzate erano “naturalmente” inclini alla “perversione”, comprese le maschilità mediterranee, tra cui gli italiani, un caso definito particolare, perché bisessuali per “eredità storica” (De Leo 2021).

I pederasti erano, quindi, marginalizzati, perseguitati, patologizzati e studiati come cavie. Una situazione che avrebbe davvero reso impossibile organizzarsi in un sodalizio teso alla sovversione mondiale.

La Guerra Fredda: l’Homintern di J. Edgar Hoover

Nel Novecento la comunità LGBTQ+ viene accusata di un po’ di tutto: nel ’29 sarebbero stati i suoi “eccessi” ad aver causato la Grande depressione, negli anni Trenta venne addirittura proposta un’associazione tra omosessualità e nazismo nonostante Hitler inizi a perseguitarli fin dal ’33 e nel ’36 istituisca un Ufficio apposito per individuarli, schedarli e poi relegarli in prigione, nelle istituzioni manicomiali o nei campi di concentramento. Infine, dopo un breve periodo di distensione tra il 1945 e il 1946 – descritti da un testimone francese come “gli anni d’oro dell’omosessualità” – con la Guerra Fredda la caccia alle streghe si acuì.

L’idealizzazione di un passato anteguerra di “normalità” riportò la famiglia eterosessuale, in maniera ancora più forte che in precedenza, al suo ruolo centrale all’interno della società, e le sessualità e le identità queer, soprattutto, ma non esclusivamente, negli USA, vennero identificate come vere e proprie minacce per la sicurezza nazionale, stavolta in senso anticomunista (De Leo 2021). Minaccia comunista e omosessuale divennero sovrapponibili e intercambiabili: molti servizi di sicurezza nazionali, con l’FBI di J. Edgar Hoover in testa, non solo accusarono le persone omosessuali di spionaggio, ma presero ancora una volta molto seriamente l’idea che la loro presenza fosse sintomo di una più generale cospirazione sovversiva. Un complotto di tale portata, preso con tanta serietà, non poteva che meritarsi un nome alla sua altezza: quello che nell’Ottocento era un gruppo di “pederasti”, ora era l’Homintern, un gioco di parole di dubbia coniazione modellato sul Comintern, l’Internazionale Comunista (Woods 2017).

Oltre allo spauracchio comunista, a mettere ulteriormente l’omosessualità al centro del dibattito pubblico fu, nel 1948, un saggio noto come Rapporto Kinsey, che indagava le abitudini sessuali di alcune migliaia di uomini americani. Le risposte degli intervistati misero in luce come l’omosessualità, per quanto invisibilizzata, fosse piuttosto comune: per esempio, dichiarò di aver avuto esperienze omosessuali il 50% dei celibi entro i 35 anni (De Leo 2021). Questi risultati andarono ad alimentare il clima di sospetto e di allarme sociale: la paura era che gli omosessuali fossero davvero ovunque, anche in ruoli dirigenziali. Tant’è che nel 1950 lo US Senate Subcommitteee on Investigations pubblicò un report intitolato Employment of Homosexuals and Other Perverts in Government in cui veniva dichiarato che, data la tendenza degli omosessuali a frequentare solo membri della loro comunità nei contesti sociali, era naturale che avrebbero adottato la stessa strategia anche in ambito lavorativo, e che, quindi, la loro presenza in ruoli apicali del governo fosse assolutamente pericolosa, perché avrebbe permesso ad altri omosessuali d’infiltrarsi in posizioni di potere (Woods 2017).

Una lobby gay, però, non sembrava ancora essere presente, o, se lo era, stava facendo davvero un pessimo lavoro. In Europa all’alba degli anni Sessanta solo pochissimi Stati avevano decriminalizzato l’omosessualità: la Svizzera nel 1942, la Grecia nel 1951 e l’Italia, che se ne era occupata già nel 1889, l’aveva fatto con l’aspettativa che le persone omosessuali continuassero comunque a vivere nell’ombra, una tendenza rafforzatasi in epoca fascista, quando si decise di non procedere alla criminalizzazione per paura di attirare l’attenzione pubblica sul tema, preferendo fare finta che in Italia l’omosessualità semplicemente non esistesse (De Leo 2017).

Ci fu, comunque, una buona notizia per la comunità transgender: nel 1952 a Copenaghen ci fu il primo caso di successo di conferma chirurgica di genere ad avere un’eco mediatica, tanto ampia che la storia di Christine Jorgensen diede a persone di tutto il mondo le parole per definire la propria identità. Inoltre, nel 1953 la definizione di “transessualismo” entrò definitivamente in uso in seguito al lavoro di Harry Benjamin: il medico endocrinologo tedesco, riprendendo il lavoro fatto da Hirschfeld, riconobbe ad alcune persone transgender il diritto a ricevere tutti i trattamenti ormonali e chirurgici necessari alla conferma di genere. Per poter essere ammesse alle terapie, queste erano però tenute a aderire a rigide norme di genere: una persona trans, ad esempio, non poteva assolutamente essere omosessuale, e mentre dalle donne trans ci si aspettava fossero iper-femminili, gli uomini trans non venivano affatto presi sul serio, perché i loro erano visti come casi di lesbismo “estremo” (De Leo 2017). Una vittoria, certo, ma ottenuta nell’ambito medico e non da quello politico come ci si aspetterebbe dall’operato di una lobby.

Gli anni Sessanta: la gay mafia di Hollywood

Negli anni Sessanta la fantomatica lobby venne accusata di aver preso anche Hollywood: della gay mafia, questo il nuovo nome del gruppo, facevano parte registi e attori di teatro, cinema e televisione. La prima testimonianza di questo termine fu un documentario, The Homosexuals, che andò in onda per la CBS nel 1967, in cui veniva sottolineata la discrepanza tra le percentuali delle persone omosessuali in generale, che sembrava attestarsi tra il 3% e il 5%, e quella di produttori – 31% – e registi – 38% – che lavoravano nel cinema hollywoodiano (Woods 2017).

Anche negli anni Sessanta, però, ancora nessuna lobby: basta ricordare come la Germania Ovest abbia mantenuto la legge di epoca nazista sulla criminalizzazione omosessuale per tutto il decennio, mentre solo Ungheria, Inghilterra e Galles la decriminalizzarono.

Il 1969 è, invece, una data estremamente importante, uno spartiacque nella storia della comunità, a cui si fa coincidere l’inizio dei movimenti di liberazione omosessuale. Nella notte tra il 27 e il 28 giugno la polizia di New York fece irruzione in un locale frequentato da clientela LGBTQ+, lo Stonewall Inn. Ad aspettare gli agenti, in quella che avrebbe dovuto essere una semplice operazione di routine, una forte resistenza. Capitanata da alcune personalità che divennero poi simbolo della lotta e della liberazione della comunità – le attiviste Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson – la sommossa si animò al grido di “Gay Power” e “Gay is good”, con una chiara citazione degli slogan del Black Panthers Party. Questa citazione non è casuale, infatti, il movimento omofilo nato negli anni Sessanta, per mobilitarsi, prese esempio da altri movimenti, tra cui, oltre a quello per i diritti civili degli afroamericani, quello femminista e quello studentesco. Si aprì, così, una nuova era in cui, nonostante le frizioni presenti sia all’interno della comunità sia nei suoi rapporti con altri movimenti, l’attivismo LGBTQ+ si adoperò principalmente per informare, creare una coscienza comune e invitare a fare coming out, un atto politico e di affermazione della propria identità. Tra le varie associazioni, il Gay Liberation Front organizzò in tante città degli Stati Uniti incontri, eventi e pubblicazioni e diede vita a gruppi di autocoscienza e di studio (De Leo 2021). Ancora niente lobby, quindi, ma solo associazioni molto lontane dall’idea d’indottrinamento dei bambini che andava tanto di moda all’epoca (Woods 2017).

Gli anni Novanta: l’ideologia gender della Chiesa cattolica

Dopo un breve periodo di rivoluzione culturale nei primi anni Settanta, seguita dalla stigmatizzazione della comunità in seguito all’ondata del virus dell’Hiv degli Ottanta, nel 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità depatologizzò finalmente l’omosessualità (De Leo 2021). Ma un nuovo nome per condannare la comunità era dietro l’angolo.

Comparso per la prima volta nel 1997 all’interno di un testo di Michel Schooyans, prete belga, il termine ideologia gender nacque in seguito al riconoscimento dei diritti sessuali e riproduttivi alla Conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995: questa venne percepita come un punto di partenza per un cambiamento delle politiche su sesso, genere e sessualità, sulla questione femminile, della riproduzione e della famiglia. L’affermazione e la difesa dei diritti di donne e minoranze sessuali rappresentarono, quindi, un’emancipazione dei governi dalla morale e dai precetti religiosi della Chiesa cattolica, che rispose, allora, teorizzando la famigerata ideologia gender: quel nodo teorico-politico intorno al quale le democrazie contemporanee avrebbero costruito un assetto ideologico senza religione e a volte contro di essa.

Siamo alla fine del secondo millennio ed è già da più di un secolo che sentiamo parlare di questa fantomatica lobby gay. Eppure, né i pederasti, né l’Homintern, né la gay mafia hanno lasciato prove della propria esistenza. E se nel XXI secolo qualcosa fosse cambiato?

Bibliografia

De Leo, Maya. 2021 Queer: storia culturale della comunità LGBT+, Giulio Einaudi editore, Milano.

Woods, Gregory. 2017. Homintern: How Gay Culture Liberated the Modern World, Yale University Press, New Haven CO.

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