Quando si adatta un romanzo per farci un film gli ostacoli da superare si raddoppiano, rispetto al lavoro da fare su di una sceneggiatura originale. Immaginatevi quanto il tutto diventi più complicato se il romanzo ha vinto il Premio Strega ed è un best-seller. È il caso di Le otto montagne di Paolo Cognetti, un romanzo dal successo prevedibile, eppure strameritato, ed un film che sostanzialmente non ha tradito le attese, ma che ripropone in maniera macroscopica il contrastato, difficile rapporto tra cinema e letteratura, tra l’esperienza di un lettore e quella di uno spettatore.
Cominciamo col dire che l’elemento del film che colpisce all’istante non sono solo i paesaggi, ripresi con una tecnica che ricorda i vecchi documentari di montagna, quando, per non appesantirsi, ci si arrampicava con una macchina da presa in 16 mm, ma la bravura dei due attori protagonisti, Alessandro Borghi e Luca Marinelli. Ce li ricordavamo insieme dai tempi di Non essere cattivo, il film del 2015 diretto dal compianto Claudio Caligari che li ha fatti conoscere ed apprezzare; e probabilmente molti si saranno chiesti, a ragione: perché si è aspettato tanto per metterli insieme un’altra volta? In Le otto montagne i due sembrano completarsi a vicenda, come del resto viene richiesto dalla storia del romanzo e dalla conseguente sceneggiatura del film. Luca Marinelli, in un video che accompagna la versione Criterion del film, ci dice che sia lui che Borghi aspettavano l’occasione per tornare insieme e che questa occasione gliel’ha fornita il film di van Groeningen e Charlotte Vandermeersch.
Il romanzo di Cognetti esce nel 2016, ed è un successo immediato: 250.000 copie in Italia, 34 traduzioni, quasi un milione di copie in tutto il mondo e i riconoscimenti della critica, fino al Premio Strega del 2017. Le otto montagne è una storia dalla struttura molto tradizionale, un esempio perfetto di “romanzo di formazione”: i temi dell’impronta autobiografica, dell’amicizia virile, del passaggio dall’adolescenza alla maturità, dell’amore e della morte ci sono tutti. Sono i segreti (neanche poi tanto segreti) del suo successo. Eppure (o forse proprio per il suo essere così immediatamente identificabile) è una storia che prende il lettore per la gola e lo trascina attraverso tutte le sue pagine, dall’inizio alla fine. Il personaggio che convince più di tutti è infatti la “montagna”, quasi un’entità astratta e allegorica che sovrasta e pervade l’intero libro, ed è allo stesso tempo presente fisicamente, narrata attraverso la prospettiva dei personaggi: Pietro, Bruno, il padre e la madre di Pietro, Lara, la ragazza nepalese, personaggi che si confrontano in maniera diversa e complementare con essa. Il romanzo ha anche un’altra importante caratteristica: è pieno di piccoli dettagli, parole, osservazioni, frasette, elementi narrativi che arricchiscono la visione che ci viene presentata, quella che Cognetti vuole condividere con i lettori, dettagli impossibili da rendere in un film. In questo senso, il film perde, e si potrebbe pensare che invece guadagni posizioni con la rappresentazione visiva delle montagne intorno a Grana, il teatro della vita di Bruno e (in parte) di Pietro. Ma non sono troppo convinto dell’ovvietà di quest’affermazione. Perché qui entra in ballo una delle discussioni più complesse intorno alla relazione tra parola scritta e immagine audiovisiva: vale di più, è più evocativo, quello che il lettore crea con la sua immaginazione quando legge, oppure quello che ci viene mostrato su di uno schermo, lasciando poco (o nessuno) spazio a quell’immaginazione? Non ci resta che rispondere con le parole che hanno usato un po’ tutti in questa complicata ed eterna discussione critica: sono due testi diversi, espressi con il tramite di due mezzi diversi, legati tra di loro, ma allo stesso tempo autonomi l’uno dall’altro… Insomma è una domanda mal posta.
Un giudizio sul film deve poi fare i conti con altri elementi: il ritmo, per esempio. Di nuovo, ne parlano ampiamente Marinelli e Borghi nel video di presentazione a cui accennavo più sopra. I tempi del libro e del film – affermano – sono estremamente simili: i registi li hanno ricreati con grande accuratezza. Vale anche la pena notare – grazie al video – che Cognetti, oltre a collaborare attivamente alla stesura dei dialoghi, ha frequentato il set del film per tutta la durata della lavorazione, una sorta di “garanzia di fedeltà” per i registi belgi e per gli attori italiani.
Non è ovviamente possibile citare tutti i momenti in cui il film si connette al romanzo, esaltandone il contenuto con le immagini che appartengono esclusivamente al mezzo audiovisivo, armonizzandosi con il testo scritto attraverso l’estrema precisione dei dialoghi, ma vorrei almeno soffermarmi brevemente su alcuni momenti: la salita al ghiacciaio di Pietro, di suo padre e di Bruno. Le riprese del drone che li segue lungo il costone sono uno degli esempi più convincenti di come i registi siano stati capaci di rendere il senso di fatica estrema da parte del narratore, Pietro, così insistente nel romanzo e così evidente nel film. Il finale che riporta (senza mostrarla) la morte di Bruno rimane un momento essenziale dell’intera storia, e si collega alla leggenda delle otto montagne, quella che Luca ha imparato a conoscere in Nepal. I suoi viaggi sull’Himalaya gli hanno anche fatto conoscere la pratica della “morte celeste”. I nepalesi sono una popolazione molto povera, e spesso non hanno i mezzi per il legname necessario alla costruzione di una pira funebre sufficientemente grande da cremare completamente un corpo. I corpi vengono quindi esposti, diventando cibo per gli uccelli. Lo scopo della distruzione del corpo, così importante per la reincarnazione, è ugualmente raggiunto. Pietro ne parla ampiamente, e nel film ambedue i suoi racconti nepalesi, quello delle otto montagne in cerchio, con la nona montagna al centro, e quello della morte celeste, hanno una rilevanza notevole. Anche le circostanze della morte di Bruno, il cui corpo non può essere trovato fino alla primavera, suggeriscono per lui una “morte celeste”, che accomuna la vita dei due uomini al di là dell’ultima soglia.
Le otto montagne-film è una coproduzione tra Italia, Belgio, Francia e Regno Unito. Il produttore principale è tuttavia Mario Gianani, attivo e impegnatissimo, tanto da obbligarci a ricordare altri suoi titoli: da L’amica geniale a Vincere di Bellocchio, da La mafia uccide solo d’estate e E noi come stronzi rimanemmo a guardare di Pif, a Siccità di Paolo Virzì.
Felix van Groeningen è forse poco conosciuto, ma è un regista che si è affermato con forza e con merito negli ultimi 10–15 anni. I suoi film realizzati in Belgio sono stati scelti per rappresentare il suo Paese agli Oscar, hanno preso premi a numerosi festival internazionali, ma hanno anche sbancato il botteghino, registrando incassi da record. Dobbiamo ricordare The Misfortunates del 2009, premiato a Cannes e non distribuito in Italia; The Broken Circle Breakdown del 2012 (Alabama Monroe-Una storia d’amore in Italia), con una nomination all’Academy come film straniero, e premi sparsi in tutto il mondo, da Berlino ai David di Donatello in Italia. Il film che vorrei ricordare come il più intenso e il più carico di momenti emotivi (è in questo senso che vorrei collegarlo a Le otto montagne) è certamente Beautiful Boy, del 2018, girato negli Stati Uniti, con Steve Carell. Anche Beautiful Boy (è anche il titolo di una canzone di John Lennon, presente nel film) è un adattamento, tratto dalle memorie di David e Nic Sheff, la storia di un padre e di un figlio che lottano per far uscire il giovane Nic dalla droga. Van Groeningen usa gli stessi collaboratori da decenni: Ruben Impens per la fotografia, Nico Leunen per il montaggio, presenti anche nei crediti di Le otto montagne, che rappresenta quindi un’importante e visibilissima continuità con le tappe precedenti della sua carriera di cineasta. Charlotte Vandermeersch ha collaborato in maniera decisiva alla scrittura di The Broken Circle Breakdown ed ha condiviso con il marito Felix gli innumerevoli premi e riconoscimenti assegnati a Le otto montagne.