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Febbraio
20 Febbraio 2025

L’AU­TEN­TI­CI­TÀ COME VIR­TÙ

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Nell’intro­du­zio­ne a que­sto lavo­ro, in cui ho inda­ga­to l’etimologia del­la paro­la “auten­ti­ci­tà”, ricor­da­vo come un qual­sia­si discor­so orga­ni­co su que­sto con­cet­to pre­sup­pon­ga capi­re a cosa ci si rife­ri­sca:  par­la­re di un qua­dro auten­ti­co è cosa assai diver­sa che par­la­re di una per­so­na auten­ti­ca, per­ché poten­zial­men­te può voler dire cose dif­fe­ren­ti. New­man e Smith, in Kinds of Authen­ti­ci­ty, han­no for­ma­liz­za­to que­sta neces­si­tà soste­nen­do che la carat­te­ri­sti­ca comu­ne tra i vari giu­di­zi sull’autenticità sia quel­la di esse­re orga­niz­za­ti attor­no al bino­mio oggetto/agente (New­man, Smith 2016, 613). Con ogget­to non si indi­ca sol­tan­to qual­co­sa di fisi­co ed esi­sten­te, ma anche qual­co­sa di più astrat­to, come la cuci­na mes­si­ca­na; con agen­te, inve­ce, si inten­do­no gli esse­ri uma­ni.

I due auto­ri han­no uti­liz­za­to però anche un secon­do bino­mio, che dà lo spun­to per que­sto secon­do arti­co­lo e che con­sen­te di fare luce su un’ulteriore aspet­to: interno/esterno (New­man, Smith 2016, 613). Que­sto bino­mio sot­to­li­nea che per giu­di­ca­re l’autenticità — di una per­so­na, nel nostro caso — si pos­so­no pren­de­re in con­si­de­ra­zio­ne dei cri­te­ri inter­ni all’individuo e/o appar­te­nen­ti alla socie­tà in cui l’individuo è immer­so, ed inda­ga­re la loro rela­zio­ne.

In que­sto arti­co­lo, pro­ve­rò a soste­ne­re due cose: la pri­ma è che quan­do que­sta rela­zio­ne è sbi­lan­cia­ta a favo­re dell’aspetto socia­le, ci si può rife­ri­re all’autenticità come a una vir­tù. La secon­da è soste­ne­re che quan­ti si sono rife­ri­ti all’autenticità, con­si­de­ran­do­la come una vir­tù, han­no rifor­mu­la­to — con i dovu­ti aggior­na­men­ti filo­so­fi­ci — un prin­ci­pio di con­ti­nui­tà tra indi­vi­duo e socie­tà, già arti­co­la­to nel pen­sie­ro di Jean-Jac­ques Rous­seau. 

1.“BE THY­SELF”

Ogni per­so­na ha un nucleo indi­vi­dua­le e immu­ta­bi­le: il pro­prio vero sé, lad­do­ve que­sto costi­tui­sca una costel­la­zio­ne di cre­den­ze, valo­ri, emo­zio­ni, desi­de­ri, capa­ci­tà, dispo­si­zio­ni, che ren­do­no una per­so­na uni­ca e ini­mi­ta­bi­le (Leuen­berg 2021, 410). Esse­re auten­ti­ci signi­fi­ca tro­va­re il vero sé e vive­re in base ad esso. O se pre­fe­ri­te, più poe­ti­ca­men­te, ogni esse­re uma­no ha la sua misu­ra: c’è solo da tro­va­re la pro­pria e strap­pa­re lun­go i suoi bor­di, per rea­liz­zar­si.

Si trat­ta con tut­ta pro­ba­bi­li­tà di for­mu­le che suo­na­no fami­lia­ri, dato che spes­so e volen­tie­ri è pro­prio a defi­ni­zio­ni di que­sto tipo che ci si affi­da quan­do si par­la di auten­ti­ci­tà. Se chie­des­si­mo a una per­so­na cos’è che la ren­de auten­ti­ca, qua­si sicu­ra­men­te rice­ve­rem­mo in rispo­sta uno o più ele­men­ti — inte­res­si, atti­vi­tà, pre­fe­ren­ze — la cui com­bi­na­zio­ne rap­pre­sen­ta un vei­co­lo di auten­ti­ci­tà, ren­den­do quel­la per­so­na uni­ca e ini­mi­ta­bi­le rispet­to alle altre. Esse­re gen­ti­li, ad esem­pio, può far­ci sen­ti­re auten­ti­ci per­ché rite­nia­mo che sia un valo­re che ci con­sen­te di met­te­re in cam­po le nostre miglio­ri dispo­si­zio­ni; o per­ché maga­ri ben si abbi­na con una ten­den­za ad aiu­ta­re il pros­si­mo che cre­dia­mo sia pro­fon­da­men­te radi­ca­ta den­tro di noi; o per­ché repu­tia­mo che non eser­ci­ta­re que­sto valo­re signi­fi­chi rinun­cia­re a una par­te di noi che ci defi­ni­sce strut­tu­ral­men­te, e sen­za la qua­le sarem­mo per­so­ne par­zia­li, incom­ple­te.

A que­sto modo di leg­ge­re l’autenticità, Leuen­ber­ger (2021, 410) ha dato il nome di “auten­ti­ci­tà essen­zia­li­sta” e ne ha defi­ni­to cin­que carat­te­ri­sti­che: (a) una distin­zio­ne tra un sé cen­tra­le — vero — e uno peri­fe­ri­co, (b) il fat­to che que­sto vero sé sia inna­to e non quin­di un pro­dot­to dell’esperienza, © il fat­to che vi si pos­sa acce­de­re attra­ver­so l’attività intro­spet­ti­va, (d) la pos­si­bi­li­tà — o meglio il rischio — di alie­nar­ci dal nostro vero sé, (e) infi­ne la sua “por­ta­ta nor­ma­ti­va”.

Pren­dia­mo di nuo­vo come esem­pio la gen­ti­lez­za, ipo­tiz­zan­do che que­sta pos­sa esse­re un’espressione del­la nostra auten­ti­ci­tà. Ciò vor­reb­be dire rite­ne­re que­sto valo­re come appar­te­nen­te alla par­te di noi più pro­fon­da, da per­se­gui­re anche quan­do sareb­be più con­ve­nien­te non far­lo (a), un valo­re che rite­nia­mo avrem­mo col­ti­va­to in qual­sia­si con­te­sto cul­tu­ra­le ci fos­si­mo tro­va­ti a vive­re (b) e che abbia­mo sco­per­to attra­ver­so l’introspezione, chie­den­do cioè a noi stes­si cos’è che dav­ve­ro ci defi­ni­sce nel­la nostra vita ©. Que­sto valo­re però, in una socie­tà ato­mi­sti­ca e disin­te­gra­ta come quel­la capi­ta­li­sta, cor­re sem­pre il rischio di esse­re abban­do­na­to, per­ché con­si­de­ra­to inge­nuo, con il risul­ta­to di alie­nar­ci da que­sta par­te fon­da­men­ta­le di noi, e di per­der­la (d). Ciò nono­stan­te, sen­tia­mo che la gen­ti­lez­za rap­pre­sen­ta una par­te fon­da­men­ta­le di noi, alla qua­le dob­bia­mo dedi­car­ci per­ché non dar­le espres­sio­ne signi­fi­che­reb­be non aver vis­su­to appie­no la nostra vita, aver man­ca­to l’obiettivo, il nostro ‘com­pi­to’ (e). E, come se non bastas­se, c’è anche la neces­si­tà di sta­bi­li­re dei cri­te­ri che ci con­sen­ta­no di deci­de­re, con un cer­to gra­do di sicu­rez­za, se ci stia­mo dav­ve­ro com­por­tan­do auten­ti­ca­men­te.

Det­to sem­pli­ce­men­te: pren­dia­mo di nuo­vo una per­so­na gen­ti­le. Qua­li sono i cri­te­ri per deci­de­re se que­sto atteg­gia­men­to è espres­sio­ne auten­ti­ca di noi stes­si? Da un lato pos­sia­mo uti­liz­za­re dei cri­te­ri inter­ni, ad esem­pio cer­ca­re di capi­re se sia­mo moti­va­ti nel­la nostra scel­ta di esse­re gen­ti­li, se dav­ve­ro rite­nia­mo che la gen­ti­lez­za rap­pre­sen­ti una par­te fon­da­men­ta­le di noi stes­si. Se lo sia­mo non per scel­ta oppor­tu­ni­sti­ca ma per­ché pro­fon­da­men­te con­sa­pe­vo­li e con­vin­ti del valo­re intrin­se­co del­le nostre azio­ni, allo­ra stia­mo viven­do auten­ti­ca­men­te. Dall’ altro lato, pos­sia­mo tene­re in con­si­de­ra­zio­ne dei cri­te­ri ester­ni: solo se vivia­mo all’interno di una socie­tà in cui la gen­ti­lez­za ha la pos­si­bi­li­tà di pro­spe­ra­re, pos­sia­mo rite­ner­ci auten­ti­ci. Non si può esse­re gen­ti­li e auten­ti­ci in un mon­do di bar­ba­ri.

2. AUTEN­TI­CI­TÀ COME VIR­TÙ

La con­trap­po­si­zio­ne è stri­den­te e nell’arco del­la nostra vita tut­ti ci sia­mo fer­ma­ti a riflet­te­re su que­sta dico­to­mia tra socie­tà e indi­vi­duo. Pos­sia­mo esse­re auten­ti­ca­men­te gen­ti­li in una socie­tà che non con­si­de­ra la gen­ti­lez­za un valo­re che meri­ta di esse­re per­se­gui­to, sen­za che arri­vi il mini­mo rico­no­sci­men­to da par­te dei nostri simi­li? Mol­ti rispon­de­reb­be­ro di sì: in dire­zio­ne osti­na­ta e con­tra­ria, pur­ché se ne sia con­vin­ti. Eppu­re, una rispo­sta in sen­so total­men­te affer­ma­ti­vo è faci­le ma affret­ta­ta, per­ché sia­mo ben coscien­ti che la gen­ti­lez­za — alme­no for­mal­men­te — è rico­no­sciu­ta come un valo­re nel­la nostra socie­tà, se non quel­la in cui sia­mo fisi­ca­men­te, alme­no quel­la a cui ideal­men­te sen­tia­mo di appar­te­ne­re. Ma ponia­mo che arri­vi una per­so­na che affer­mi di sen­tir­si rea­liz­za­ta solo duran­te atti di can­ni­ba­li­smo, o di tor­tu­ra degli ani­ma­li, o solo nel­la sod­di­sfa­zio­ne indi­scri­mi­na­ta del­le pro­prie pul­sio­ni ses­sua­li ed emo­ti­ve: baste­reb­be for­se accer­tar­si del­la sua intrin­se­ca moti­va­zio­ne per defi­nir­la una per­so­na auten­ti­ca? O ci sono, inve­ce, dei valo­ri socia­li, reli­gio­si, comun­que ester­ni alla pura moti­va­zio­ne per­so­na­le, a cui biso­gna fare rife­ri­men­to quan­do si discu­te di auten­ti­ci­tà? 

Un bel nodo gor­dia­no. Per pro­va­re a scio­glier­lo, pos­sia­mo ini­zia­re notan­do come que­sta con­trap­po­si­zio­ne nascon­da un pre­sup­po­sto fon­da­men­ta­le, che va por­ta­to alla luce: quan­do si chia­ma­no in cau­sa dei valo­ri — inter­ni o ester­ni che sia­no — si con­fe­ri­sce ine­vi­ta­bil­men­te una ten­sio­ne nor­ma­ti­va al discor­so, dato che que­sti sono ciò che gui­da le per­so­ne nell’agire quo­ti­dia­no, degli idea­li ver­so i qua­li le azio­ni ten­do­no in quan­to pre­fe­ri­bi­li ad altri. Ciò vale anche per l’autenticità: quan­do que­sta chia­ma in cau­sa dei valo­ri, signi­fi­ca che si avver­te una ten­sio­ne nei con­fron­ti di quei valo­ri stes­si e che spin­ge a com­por­tar­si in un cer­to modo. Que­sta con­trap­po­si­zio­ne è un otti­mo esem­pio del bino­mio interno/esterno: per par­la­re di auten­ti­ci­tà si pos­so­no chia­ma­re in cau­sa dei cri­te­ri inter­ni all’individuo e/o appar­te­nen­ti alla socie­tà in cui quell’individuo è immer­so. Quan­do que­sta con­trap­po­si­zio­ne pen­de a favo­re del valo­re socia­le rispet­to a quel­lo indi­vi­dua­le, stia­mo impli­ci­ta­men­te soste­nen­do che l’autenticità sia una vir­tù.

Ma che cos’è una vir­tù? Char­les Gui­gnon (2008, 277) scri­ve­va che “auten­ti­ci­tà” è una paro­la che si sen­te piut­to­sto a casa nell’area dell’etica del­le vir­tù  e pro­se­gue defi­nen­do quest’ultima come una “buo­na qua­li­tà del carat­te­re, inte­sa come dispo­si­zio­ne a rispon­de­re agli ele­men­ti che rien­tra­no nel suo cam­po di appli­ca­zio­ne in modo buo­no o alme­no cor­ret­to” (Gui­gnon 2008, 286). Esse­re vir­tuo­si signi­fi­ca insom­ma sape­re come com­por­tar­si nel­le situa­zio­ni più dispa­ra­te, o per­lo­me­no ave­re degli stru­men­ti che per­met­ta­no di ana­liz­za­re in manie­ra orga­ni­ca ciò che suc­ce­de, per poi agi­re di con­se­guen­za. La vir­tù è una sor­ta di ChatGpt incor­po­ra­to den­tro di noi, in cui inse­ria­mo degli input ester­ni che ven­go­no ela­bo­ra­ti e tra­dot­ti in deter­mi­na­ti com­por­ta­men­ti: più è ela­bo­ra­to il soft­ware, miglio­re è la rispo­sta. Cosa ha a che fare tut­to ciò con l’autenticità?

Se oggi ci tro­vas­si­mo a par­la­re con un intel­let­tua­le vis­su­to tra la fine del Set­te­cen­to e l’Ottocento, tut­to ciò che abbia­mo det­to fino­ra gli suo­ne­reb­be straor­di­na­ria­men­te fami­lia­re, nono­stan­te i due seco­li che ci sepa­ra­no, per­ché la for­mu­la­zio­ne essen­zia­li­sta e mora­le dell’autenticità è in buo­na sostan­za quel­la spo­sa­ta dagli intel­let­tua­li Roman­ti­ci, i pri­mi cava­lie­ri del con­cet­to di auten­ti­ci­tà (Tay­lor 1991, 25). Trat­tan­do­si però di un feno­me­no di pro­fon­da rot­tu­ra del­la moder­ni­tà con il pro­prio pas­sa­to, c’è biso­gno di fare un excur­sus, per capi­re qua­li idee la moder­ni­tà ha con­ser­va­to dal­la sua tra­di­zio­ne, e con qua­li ha inve­ce eser­ci­ta­to tale rot­tu­ra. Il pun­to di par­ten­za sem­bra qua­si obbli­ga­to: Socra­te.

3.“KNOW THY­SELF

Socra­te infat­ti non ci invi­ta­va a cono­sce­re noi stes­si, a sca­va­re nel­le nostre pro­fon­di­tà alla ricer­ca di una veri­tà che potes­se ser­vir­ci allo stes­so modo come nor­ma del­la real­tà e del nostro agi­re al suo inter­no? Nono­stan­te tut­to ciò sia vero, è sicu­ra­men­te erra­to con­si­de­ra­re Socra­te il filo­so­fo dell’autenticità, per quan­to sia pos­si­bi­le rin­trac­cia­re nel­la sua filo­so­fia un con­cet­to di pri­ma­ria impor­tan­za anche per l’autenticità: una nuo­vis­si­ma — ai suoi tem­pi — con­ce­zio­ne di vir­tù.

Da Socra­te, l’autenticità moder­na con­ser­va l’idea del­la vir­tù come bene inte­rio­re dell’anima e non este­rio­re, del cor­po. Già due­mi­la­cin­que­cen­to anni fa la posi­zio­ne socra­ti­ca era un vero spar­tiac­que: pri­ma di lui non si tro­va­va nel­la cul­tu­ra gre­ca l’idea di un’anima inte­sa come real­tà spi­ri­tua­le, aven­te una por­ta­ta cono­sci­ti­va e mora­le, la cui vir­tù coin­ci­de con la cono­scen­za. Que­sta carat­te­ri­sti­ca con­se­gna ad ogni esse­re uma­no tan­to un com­pi­to — la cura di sé attra­ver­so la ricer­ca del­la cono­scen­za e del­la veri­tà — quan­to un metro di misu­ra. Se la vir­tù è eccel­len­za, e la cura dell’anima ha come sco­po la vir­tù — cioè il suo miglio­ra­men­to — è nell’eccellenza dell’anima stes­sa che si misu­ra il valo­re di un esse­re uma­no. Su que­sto pun­to un filo­so­fo moder­no dell’autenticità e Socra­te sareb­be­ro d’accordo sen­za ombra di dub­bio: la vir­tù socra­ti­ca e l’autenticità con­di­vi­do­no il domi­ci­lio. È den­tro l’essere uma­no che va infat­ti cer­ca­ta l’eccellenza. Infat­ti, per Socra­te, l’anima è vir­tuo­sa nel­la misu­ra in cui si pro­di­ga nel­la ricer­ca del­la veri­tà: l’unica vita che meri­ta di esse­re per­se­gui­ta. Si trat­ta di un cam­bio di pro­spet­ti­va radi­ca­le all’interno del pen­sie­ro gre­co, inve­ce pro­fon­da­men­te intri­so di un’etica lega­ta ai valo­ri del cor­po, alle vir­tù fisi­che. Dun­que, è con Socra­te che si ini­zia a pri­vi­le­gia­re le atti­tu­di­ni, i valo­ri e i talen­ti dell’anima (Radi­ce 2020, 95). Così, si inau­gu­ra un nuo­vo model­lo di feli­ci­tà, che risie­de nell’interiore e che non nega i pia­ce­ri del cor­po, ma li subor­di­na alla ragio­ne affin­ché essa pos­sa misu­rar­li e acco­glier­li, e affin­ché l’essere uma­no pos­sa non ave­re il giu­di­zio offu­sca­to nel com­pi­to di tro­va­re il suo posto nel gran­de ordi­ne uni­ver­sa­le.

È pre­ci­sa­men­te su quest’ultimo pun­to che si con­su­ma la rot­tu­ra tra anti­co e moder­no: in Socra­te, ma più in gene­ra­le nel pen­sie­ro gre­co e medie­va­le, tro­via­mo una sostan­zia­le con­ti­nui­tà tra inter­no ed ester­no, tra indi­vi­duo e cosmo. In Socra­te, ad esem­pio, c’è con­ti­nui­tà tra indi­vi­duo, razio­na­li­tà, mora­le e socie­tà: la ricer­ca del­la veri­tà da par­te dell’individuo si tra­va­sa nel­la mora­le, poi­ché è inte­res­sa­ta a miglio­ra­re l’agire, che a sua vol­ta si tra­sfe­ri­sce nel­la poli­ti­ca per­ché i cit­ta­di­ni vir­tuo­si sono alla base di una cit­tà pro­spe­ra (Radi­ce 2020, 96). Per il filo­so­fo gre­co, se cono­sce­re se stes­si vale qual­co­sa, è solo all’interno dell’armonia uni­ver­sa­le, e non per fini indi­vi­dua­li­sti­ci: la fun­zio­ne del­la cono­scen­za è, in ulti­ma istan­za, ricon­du­ci­bi­le alla neces­si­tà dell’armonia socia­le, del­la tem­pe­ran­za, cioè del rico­no­sce­re il pro­prio posto all’interno del­la socie­tà che ci acco­glie, e di cui fac­cia­mo par­te non in quan­to indi­vi­dui che han­no sti­pu­la­to un con­trat­to socia­le, ben­sì in quan­to par­ti fun­zio­na­li di un tut­to. Su que­sto, noi come indi­vi­dui, non abbia­mo pote­re di inter­ven­to ma, qua­lo­ra non ci fos­se non avrem­mo sen­so di esi­ste­re. Il signi­fi­ca­to tra­di­zio­na­le di γνῶθι σαυτόν — gnô­thi sau­ton — cono­sci te stes­so, potreb­be esse­re para­fra­sa­to come “cono­sci­ti e quin­di posi­zio­na­ti nel­la gerar­chia socia­le” (Moo­re 2018, 5). Dun­que, la razio­na­li­tà uma­na è con­si­de­ra­ta da un lato un cen­tro auto­no­mo, ma dall’altro un pon­te ver­so la socie­tà, il cosmo, Dio. Si trat­ta di una ten­sio­ne risol­vi­bi­le solo all’interno di una sostan­zia­le con­ti­nui­tà fra inter­no ed ester­no, fra noi e il mon­do. Per rias­su­me­re: l’ideale più anti­co di esse­re fede­li a se stes­si era lega­to alla pre­oc­cu­pa­zio­ne di mani­fe­sta­re in tut­te le pro­prie azio­ni l’im­pe­gno defi­ni­to ver­so i prin­ci­pi del­la razio­na­li­tà, ver­so l’or­di­ne cosmi­co o ver­so qual­che altra fon­te tra­scen­den­te, ver­so Dio.

4. TEM­PI MODER­NI

Con la moder­ni­tà, tut­to que­sto impian­to si sgre­to­la. Le gerar­chie crol­la­no, l’ordine immu­ta­bi­le anche. Il mon­do diven­ta disor­di­na­to. In que­sta con­di­zio­ne l’identità per­so­na­le non può più pro­ve­ni­re dal pro­prio ruo­lo socia­le all’interno di que­ste gerar­chie, che fun­zio­na­va­no qua­si come “distri­bu­to­ri auto­ma­ti­ci di rico­no­sci­men­to” (Car­ne­va­li 2004, 52). Gli indi­vi­dui si sco­pro­no libe­ri, auto­riz­za­ti a inven­ta­re la pro­pria vita, a prov­ve­de­re in pri­ma per­so­na alla costru­zio­ne del­la pro­pria iden­ti­tà, cer­can­do­ne la fon­te nel­la loro inte­rio­ri­tà (Gui­gnon 2008, 279). L’Io eser­ci­ta il dirit­to a tro­va­re uni­ca­men­te in se stes­so “il pun­to archi­me­deo intor­no a cui far ruo­ta­re un’e­si­sten­za non più vin­co­la­ta da auto­ri­tà tra­scen­den­ti, codi­ci gerar­chi­ci o strut­tu­re col­let­ti­ve” (Pul­ci­ni 2002, 22); ora, la fon­te a cui diven­ta neces­sa­rio con­net­ter­si si tro­va già den­tro l’individuo. Gui­gnon riper­cor­re a gran­di linee le tap­pe che han­no por­ta­to a que­sta inte­rio­riz­za­zio­ne: la Rifor­ma pro­te­stan­te con il suo indi­vi­dua­li­smo reli­gio­so, in cui la que­stio­ne prin­ci­pa­le diven­ta il rap­por­to per­so­na­le con Dio, rifiu­tan­do l’intermediazione del­le gerar­chie eccle­sia­sti­che (Gui­gnon 2004, 15); la nasci­ta del­la scien­za moder­na con la sua con­ce­zio­ne di un uni­ver­so mec­ca­ni­ci­sti­co, pri­vo di qual­si­vo­glia pia­no prov­vi­den­zia­le (Gui­gnon 2004, 16). Un sog­get­to, quin­di, non più coin­vol­to nel­la gran­de cate­na dell’essere ma distac­ca­to, impar­zia­le, meto­di­co e ogget­ti­vo, res cogi­tans car­te­sia­na, puro pen­sie­ro e volon­tà (Gui­gnon 2004, 17). La voce Authen­ti­ci­ty, del­la Stan­ford Uni­ver­si­ty, descri­ve ica­sti­ca­men­te que­sto pas­sag­gio in cui lo spa­zio del­l’in­te­rio­ri­tà diven­ta un’au­to­ri­tà capa­ce di indi­riz­zar­ci: the spa­ce of inte­rio­ri­ty beco­mes a gui­ding autho­ri­ty.

Infi­ne, la moder­ni­tà por­ta con sé l’idea che la socie­tà sia sol­tan­to il pro­dot­to casua­le di un accor­do tra indi­vi­dui in cam­bio di cer­ti bene­fi­ci (Gui­gnon 2004, 18), disgre­gan­do l’idea di un pote­re poli­ti­co che ha un’origine divi­na (Fer­ro­ne 2019, 113). In tal modo, si per­met­te di ripen­sar­lo alla luce, sì di un pas­sa­to miti­co — quel­lo gre­co-roma­no -, ma con l’acquisita con­sa­pe­vo­lez­za di esse­re di fron­te ad un indi­vi­duo muta­to, por­ta­to­re di nuo­ve poten­zia­li­tà e di nuo­vi dirit­ti, che la poli­ti­ca non dove­va in alcun modo sof­fo­ca­re (Fer­ro­ne 2019, 121). Potrem­mo dire che con la moder­ni­tà fa il suo ingres­so un’idea mol­to impor­tan­te, ovve­ro che esi­sta una net­ta distin­zio­ne tra inter­no ed ester­no, tra indi­vi­duo e socie­tà, che per­met­te di pen­sa­re all’individuo stes­so come sepa­ra­to dal pro­prio ambien­te socia­le, non rap­pre­sen­tan­do­ne più sem­pli­ce­men­te un pro­dot­to o un’estensione — idea inve­ce basi­la­re nel pen­sie­ro gre­co, ma anche medie­va­le (Gui­gnon 2004, 8).

Una del­le con­se­guen­ze di que­sta rot­tu­ra è quel­la che Ele­na Pul­ci­ni chia­ma un’antropologia del vuo­to (Pul­ci­ni 2002, 11): l’Io moder­no, con­scio di nuo­ve e ine­di­te pos­si­bi­li­tà che gli si apro­no davan­ti, si sco­pre con­te­stual­men­te vul­ne­ra­bi­le, imper­fet­to. L’Io moder­no è auto­no­mo ma caren­te, dila­nia­to tra desi­de­rio di autoaf­fer­ma­zio­ne e sen­so di sra­di­ca­men­to, e cer­ca di com­pen­sa­re il secon­do con il pri­mo.

Attra­ver­so il pos­ses­so del­la ric­chez­za e la distin­zio­ne dai pro­pri simi­li, otte­nen­do il loro rico­no­sci­men­to, l’Io moder­no vuo­le esse­re l’artefice del pro­prio trion­fo.

Tut­ta­via, come se non bastas­se que­sta con­di­zio­ne ambi­va­len­te, sco­pre anche di esse­re ugua­le a tut­ti gli altri, e quin­di di ave­re a dispo­si­zio­ne gli stes­si mez­zi per per­se­gui­re i suoi inte­res­si. Il risul­ta­to è ine­vi­ta­bil­men­te il con­flit­to: la nuo­va sim­me­tria dei rap­por­ti inter­per­so­na­li e il desi­de­rio di recu­pe­ra­re una distin­zio­ne, pri­ma garan­ti­ta dall’ordine socia­le, impon­go­no un’urgenza di gerar­chiz­za­re, che diven­ta pos­si­bi­le solo attra­ver­so il con­flit­to (Car­ne­va­li 2004, 51). L’Io moder­no si rifiu­ta di rico­no­sce­re l’uguaglianza impo­sta dal­la natu­ra.

5. JEAN-JAC­QUES ROUS­SEAU

Jean-Jac­ques Rous­seau è uno dei pri­mi a por­si cri­ti­ca­men­te nei con­fron­ti di que­sto indi­vi­dua­li­smo acqui­si­ti­vo, mostran­do come dal­la coa­zio­ne all’ap­pro­pria­zio­ne, ali­men­ta­ta dal biso­gno di distin­zio­ne e di rico­no­sci­men­to, nasca una fal­sa iden­ti­tà, distor­ta e inau­ten­ti­ca (Pul­ci­ni 2002, 13). Ed è pre­ci­sa­men­te a quest’ultima che Rous­seau oppo­ne l’im­ma­gi­ne di un Io auten­ti­co, che è capa­ce di dar vita a un lega­me socia­le fon­da­to su ugua­glian­za e giu­sti­zia. Rous­seau — filo­so­fo pre-roman­ti­co per eccel­len­za e vero e pro­prio outsi­der dell’Illuminismo fran­ce­se — è tra i pri­mi ad esser­si assun­to il com­pi­to di ripen­sa­re la socia­li­tà alla luce del­le nuo­ve for­me di atten­zio­ne all’individuo e alle sue poten­zia­li­tà, capa­ci­tà, esi­gen­ze e dirit­ti. È pro­prio il par­ti­co­la­re ango­lo da cui Rous­seau affron­ta que­sta pro­ble­ma­ti­ca che gli ha con­fe­ri­to il tito­lo di pre­cur­so­re del discor­so sull’autenticità.

L’urgenza, non solo di Rous­seau ma di tut­to il movi­men­to illu­mi­ni­sta — in segui­to allo svi­lup­po di for­me sem­pre più radi­ca­li di indi­vi­dua­li­smo, a par­ti­re dal­la filo­so­fia car­te­sia­na — è infat­ti quel­la di sco­pri­re una nuo­va rela­zio­ne tra indi­vi­duo e comu­ni­tà dopo che l’idea di un ordi­ne socia­le, sacro e immu­ta­bi­le, è anda­ta in fran­tu­mi. Nel 1648 ven­ne garan­ti­ta agli indi­vi­dui la liber­tà reli­gio­sa con la fir­ma del­la Pace di Vest­fa­lia (Mori, Veca 2019, 86) che fu il pri­mo pas­so ver­so il rico­no­sci­men­to del fat­to che gli esse­ri uma­ni, in meri­to a come rea­liz­za­re la pro­pria vita, non sia­no pro­prio d’accordo, ma a ognu­no di loro spet­ta comun­que l’ultima paro­la. La vir­tù, nel con­te­sto illu­mi­ni­sta, vie­ne quin­di rifor­mu­la­ta in ter­mi­ni nuo­vi, in armo­nia con una visio­ne natu­ra­li­sti­ca degli esse­ri uma­ni (Mori, Veca 2019, 93), e come un trait d’union aggior­na­to tra l’individuo e la socie­tà. È qui che entra in gio­co l’autenticità nei suoi trat­ti moder­ni, di cui Rous­seau è sta­to indi­ca­to da nume­ro­si stu­dio­si come capo­sti­pi­te, pur non aven­do — iro­nia del­la sor­te — mai uti­liz­za­to que­sta paro­la.

Qual­cu­no potreb­be stor­ce­re il naso, e avreb­be i suoi buo­ni moti­vi. Rous­seau, il filo­so­fo del “buon sel­vag­gio”, fusti­ga­to­re in pub­bli­ca piaz­za del­le ipo­cri­sie del­la socie­tà bor­ghe­se, pas­seg­gia­to­re soli­ta­rio, si può dav­ve­ro con­si­de­ra­re il filo­so­fo dell’autenticità come vir­tù, di un rin­no­va­to ten­ta­ti­vo di frut­tuo­sa e vir­tuo­sa con­vi­ven­za uma­na? Eppu­re, a un’attenta ana­li­si, lo sfor­zo di Rous­seau sem­bra tena­ce­men­te rivol­to alla ricer­ca di una nuo­va armo­nia tra l’individuo e la socie­tà. Un’armonia per­du­ta per via di una pre­sen­za sem­pre più ingom­bran­te dell’individuo, del­la sua razio­na­li­tà e del­le sue pas­sio­ni, ma anche di un ordi­na­men­to socia­le per­ce­pi­to come cor­rot­to. La ricer­ca dell’autenticità nasce come rea­zio­ne e rispo­sta ai gua­sti del­l’in­di­vi­dua­li­smo uti­li­ta­ri­sti­co, ponen­do­si come base di una nuo­va phi­lia, cioè di una nuo­va fra­tel­lan­za uma­na (Pul­ci­ni 2002, 13). È per que­sto che, nono­stan­te le cri­ti­che sfer­zan­ti che riser­va all’ordine costi­tui­to, Rous­seau con­ti­nua a par­la­re di vir­tù in una pro­spet­ti­va socia­le (Rous­seau 2014, 96), per­ché la socie­tà civi­le — ideal­men­te — con­ti­nua a costi­tui­re la più pie­na espres­sio­ne del­la libe­ra espan­sio­ne del­la natu­ra uma­na (Rous­seau 2003, 23), del suo dispie­gar­si libe­ro e pro­gres­si­vo. Esat­ta­men­te come pen­sa­va Socra­te, ma Rous­seau è diver­so da lui nell’attenzione che riser­va all’individuo e alla sua neces­si­tà di auto­rea­liz­zar­si, a costo di soste­ne­re che l’ordine socia­le non solo non sia immu­ta­bi­le, ma sia anche cor­rot­to e cor­rut­to­re del­la natu­ra uma­na e dei suoi due prin­ci­pi atti­vi, l’amore di sé e la pie­tà (Rous­seau 2003, 177). Basta segui­re le loro dispo­si­zio­ni per rag­giun­ge­re una con­di­zio­ne vir­tuo­sa che si tra­du­ce nell’estensione dell’amore per sé alle altre per­so­ne (Rous­seau 2003, 188–189). 

È ascol­tan­do la voce del­la pro­pria coscien­za che si appren­do­no le leg­gi del­la vir­tù (Rous­seau 1972, 17).

Que­sto è un pun­to fon­da­men­ta­le, per capi­re il rap­por­to tra auten­ti­ci­tà e vir­tù. Il ten­ta­ti­vo di uni­re, sen­za sal­ti, l’individuo alla socie­tà con­di­vi­de alcu­ni trat­ti con l’impostazione socra­ti­ca, soprat­tut­to nel­la sua ricer­ca di con­cor­dia uni­ver­sa­le. Lo fa però in un sen­so nuo­vo, dav­ve­ro con­tem­po­ra­neo. In pri­mo luo­go, l’essere uma­no — poten­zial­men­te — non sacri­fi­ca nul­la del­la sua indi­vi­dua­li­tà nel rap­por­to con altri esse­ri uma­ni. In secon­do luo­go, anche se la vir­tù rima­ne espres­sio­ne di un’eccellenza di com­por­ta­men­to in una data cul­tu­ra, con Rous­seau il rife­ri­men­to a quest’ultima diven­ta oppo­si­ti­vo: la natu­ra uma­na dise­gna in pro­spet­ti­va una socie­tà nel­la qua­le si può espri­me­re libe­ra­men­te, rove­scian­do la cul­tu­ra di rife­ri­men­to — mala­ta e degra­da­ta — come in uno spec­chio. Nien­te più socie­tà immu­ta­bi­le, nien­te più cosmo ordi­na­to. L’autenticità è una vir­tù anco­ra tut­ta da con­qui­sta­re per­ché c’è una socie­tà anco­ra tut­ta da costrui­re, che a quell’essenza uma­na può dare libe­ro dispie­ga­men­to. Socra­te gri­da­va ai popo­li “sia­te vir­tuo­si, sare­te libe­ri”; Rous­seau (2008, 707) ha det­to loro “sia­te libe­ri, sare­te vir­tuo­si”, per para­fra­sa­re un famo­so ada­gio di Fra­nçois-René de Cha­teu­briand, con­te­nu­to nel Genio del Cri­stia­ne­si­mo.

Per­ciò, se la vir­tù è eccel­len­za, e l’autenticità è il pie­no dispie­ga­men­to del­le pro­prie dispo­si­zio­ni indi­vi­dua­li, unen­do que­sti due poli si ottie­ne l’autenticità come vir­tù, in cui l’individuo rag­giun­ge la mas­si­ma armo­nia pos­si­bi­le tra la rea­liz­za­zio­ne del­la sua indi­vi­dua­li­tà e del­la socie­tà in cui è inse­ri­to. Una defi­ni­zio­ne che tro­va eco pro­prio in Rous­seau che appro­fon­di­sce la vir­tù del­la giu­sti­zia nell’Emi­lio (1762), soste­nen­do che amplian­do l’amore di sé sugli altri esse­ri lo si tra­sfor­me­rà in vir­tù:  “più si gene­ra­liz­za quest’interesse, più esso diven­ta equo, e l’amore del gene­re uma­no non è altra cosa in noi che l’amore del­la giu­sti­zia” (Rous­seau 2003, 189). La vir­tù che cioè più con­cor­re al bene degli esse­ri uma­ni. 

In Rous­seau — fer­mo restan­do che que­sta paro­la non l’abbia mai uti­liz­za­ta — l’uomo auten­ti­co è l’uomo giu­sto: que­sta è la mia tesi. Se infat­ti la reci­pro­ci­tà tra indi­vi­duo e socie­tà è poten­zial­men­te sen­za solu­zio­ne di con­ti­nui­tà, si può soste­ne­re che que­ste due vir­tù, auten­ti­ci­tà e giu­sti­zia, sia­no due fac­ce del­la stes­sa meda­glia, che il godi­men­to inte­rio­re sia una par­te impre­scin­di­bi­le del rap­por­to dell’individuo con i suoi simi­li. Rous­seau sem­bra dir­ci che, al net­to del­le nostre incli­na­zio­ni par­ti­co­la­ri, che sia­no la gen­ti­lez­za, l’amore per il sape­re o la cuci­na mes­si­ca­na, l’unico modo per col­ti­var­le auten­ti­ca­men­te è spen­der­si nel­la ricer­ca e con­ser­va­zio­ne di una socie­tà in cui tut­ti gli esse­ri uma­ni pos­so­no col­ti­va­re le pro­prie incli­na­zio­ni con lo stes­so gra­do di pos­si­bi­li­tà che vor­rem­mo per noi stes­si; una socie­tà giu­sta. Per Rous­seau que­sto pas­sag­gio dovreb­be avve­ni­re con natu­ra­lez­za, sen­za strap­pi, nel momen­to in cui si seguo­no le incli­na­zio­ni par­ti­co­la­ri di una comu­ne natu­ra uma­na.

È una visio­ne idea­liz­za­ta e non pri­va di pro­ble­mi. In Rous­seau, il ten­ta­ti­vo di col­ma­re lo iato tra istin­to e ragio­ne, che poi è lo stes­so che c’è tra indi­vi­duo e socie­tà, è uno dei più ambi­zio­si. Per que­sto, le sue defi­ni­zio­ni di vir­tù sono spes­so con­trad­dit­to­rie, pun­tan­do a vol­te sull’educazione indi­vi­dua­le nel­la socie­tà cor­rot­ta, altre sul­la con­for­mi­tà dell’individuo alla volon­tà gene­ra­le, soprat­tut­to nel suo testo più famo­so, il Con­trat­to socia­le (Dela­ney 2006, 135). Il rap­por­to che si deve instau­ra­re tra l’educazione indi­vi­dua­le e quel­la civi­le sarà in Rous­seau sem­pre ambi­va­len­te, in con­ti­nua oscil­la­zio­ne tra le dispo­si­zio­ni natu­ra­li dell’individuo e la loro — anco­ra neces­sa­ria — rea­liz­za­zio­ne col­let­ti­va. Sen­za con­si­de­ra­re che nel­le sue Le Pas­seg­gia­te del sogna­to­re soli­ta­rio (1782) si affac­cia con for­za anche l’idea di una rea­liz­za­zio­ne indi­vi­dua­le che fac­cia com­ple­ta­men­te a meno del­la socie­tà (Rei­sert 2000). Tut­ta­via, la ricer­ca di que­sta rin­no­va­ta armo­nia tra indi­vi­duo e socie­tà rima­ne, soprat­tut­to in due testi car­di­ne come il Con­trat­to socia­le (1762) e l’Emi­lio (1762). Per usa­re le paro­le di Rous­seau, l’autenticità potreb­be esse­re descrit­ta come la vir­tù del “sel­vag­gio fat­to per abi­ta­re la cit­tà” (Rous­seau 2003, 171). Nel Con­trat­to socia­le, inve­ce, Rous­seau scri­ve come il cit­ta­di­no vir­tuo­so sia quel­lo che ama le leg­gi che uni­sco­no il par­ti­co­la­re al gene­ra­le (Dela­ney 2006, 108). Nel Discor­so sull’economia poli­ti­ca (1755) scri­ve che “la vir­tù è solo la con­for­mi­tà del pri­va­to al gene­ra­le” (Rous­seau 1992, 149). Azzar­dan­do una con­clu­sio­ne, vista dal­la par­te del pri­va­to, l’autenticità può esse­re con­si­de­ra­ta, in Rous­seau, la con­for­mi­tà del pri­va­to al gene­ra­le; men­tre la giu­sti­zia è quel­la stes­sa con­for­mi­tà vista dal­la par­te del gene­ra­le. Aggior­nan­do una fra­se uti­liz­za­ta in pre­ce­den­za, si può dire che in Rous­seau l’autenticità è una vir­tù anco­ra tut­ta da con­qui­sta­re per­ché c’è una socie­tà giu­sta anco­ra tut­ta da costrui­re, e che a quell’essenza uma­na può dare libe­ro dispie­ga­men­to.

6. CON­TEM­PO­RA­NEI­TÀ

Abbia­mo cita­to nel­le bat­tu­te ini­zia­li Char­les Gui­gnon, che ha soste­nu­to come l’autenticità si sen­ta a casa nell’ambito dell’etica del­le vir­tù, ma non è il solo: anche Char­les Tay­lor e Ber­nard Wil­liams, a cui Gui­gnon spes­so e volen­tie­ri fa rife­ri­men­to, con­di­vi­do­no que­sta impo­sta­zio­ne. 

Char­les Tay­lor, ad esem­pio, nel suo Ethics of Authen­ti­ci­ty, è sta­to piut­to­sto espli­ci­to quan­do ha scrit­to che la rea­liz­za­zio­ne di se stes­si è un’idea con una for­te impron­ta mora­le, trat­tan­do­si di un idea­le e non di un assio­ma, cioè qual­co­sa per cui biso­gna fare fati­ca, che non basta sem­pli­ce­men­te sce­glie­re (Tay­lor 1991, 15). Devo­no infat­ti veri­fi­car­si alcu­ne con­di­zio­ni affin­ché le per­so­ne pos­sa­no legit­ti­ma­men­te repu­tar­si auten­ti­che, e la pri­ma e più impor­tan­te è quel­la di pren­de­re in con­si­de­ra­zio­ne il con­te­sto socio-poli­ti­co all’interno del qua­le le per­so­ne si muo­vo­no e agi­sco­no.

Char­les Gui­gnon ha ripre­so que­sta posi­zio­ne di Tay­lor in manie­ra più net­ta ed espli­ci­ta, scri­ven­do che l’au­ten­ti­ci­tà, come sti­le di vita, dovreb­be por­ta­re con sé la con­sa­pe­vo­lez­za che la pro­pria capa­ci­tà di rea­liz­za­re un trat­to carat­te­ria­le idea­le è pos­si­bi­le solo all’in­ter­no di una socie­tà di tipo spe­ci­fi­co, ovve­ro una socie­tà libe­ra e demo­cra­ti­ca (Gui­gnon 2004, 82–83). Non basta quin­di sce­glie­re qual­co­sa, per dar­gli valo­re: devo­no esser­ci le con­di­zio­ni affin­ché il con­te­nu­to di que­sta scel­ta pos­sa in pri­mo luo­go esse­re signi­fi­ca­ti­vo, e in secon­da bat­tu­ta poter­si dispie­ga­re. La pas­sio­ne, insom­ma, non basta: così come un ten­ni­sta pro­di­gio non riu­sci­rà mai a espri­me­re al meglio le sue poten­zia­li­tà, sen­za un alle­na­to­re che lo met­ta nel­le con­di­zio­ni di far­lo, allo stes­so modo non si pos­so­no espri­me­re i pro­pri trat­ti — ad esem­pio la gen­ti­lez­za — in manie­ra auten­ti­ca fin quan­do la socie­tà in cui si vive non avrà le con­di­zio­ni idea­li per far­lo. L’autenticità è quin­di una vir­tù socia­le, in due sen­si: per pri­mo, l’assenza di un deter­mi­na­to tipo di socie­tà ren­de impos­si­bi­le l’espressione dei nostri trat­ti auten­ti­ci (Gui­gnon 2004, 77). C’è però anche una secon­da ragio­ne: se l’espressione dei nostri trat­ti auten­ti­ci neces­si­ta di un dispie­ga­men­to nel tem­po, ciò pre­sup­po­ne una cer­ta sta­bi­li­tà nei nostri desi­de­ri e nel­le nostre incli­na­zio­ni, e l’unico modo per otte­ner­la è attra­ver­so le rela­zio­ni socia­li (Gui­gnon 2004, 78).

Citan­do Ber­nard Wil­liams :

Sia­mo tut­ti insie­me nel­l’at­ti­vi­tà socia­le di sta­bi­liz­za­re reci­pro­ca­men­te le nostre dichia­ra­zio­ni, i nostri sta­ti d’a­ni­mo e i nostri impul­si fino a far­li diven­ta­re cose come cre­den­ze e atteg­gia­men­ti rela­ti­va­men­te sta­bi­li.       

(Wil­liams 2002, 193)

Que­sto non vuol dire che non esi­sta­no dei trat­ti auten­ti­ci e che il nostro sé sia social­men­te costrui­to: tut­to ciò che Gui­gnon vuo­le dire è che ciò che noi chia­mia­mo “sé auten­ti­co” esi­ste ma ha biso­gno del­le inte­ra­zio­ni socia­li per esse­re sco­per­to, per cre­sce­re e sta­bi­liz­zar­si, defi­nir­si. E ha biso­gno inve­ce di una socie­tà libe­ra e demo­cra­ti­ca per pro­spe­ra­re e rea­liz­zar­si.

Nono­stan­te Gui­gnon con­te­sti a Rous­seau nume­ro­se idee, e nono­stan­te quest’ultimo non par­li mai di auten­ti­ci­tà, è evi­den­te che entram­bi con­di­vi­do­no un’impostazione socia­le a pro­po­si­to del­la pos­si­bi­li­tà di auto­rea­liz­za­zio­ne uma­na. Entram­bi pun­ta­no ver­so una socie­tà demo­cra­ti­ca, con­vin­ti che sen­za la rela­zio­ne con altre per­so­ne non si pos­sa svi­lup­pa­re né la vir­tù né l’autenticità, e che ci sia­no del­le dispo­si­zio­ni uma­ne essen­zia­li che van­no col­ti­va­te. La dif­fe­ren­za è che per Rous­seau l’essenzialismo si mani­fe­sta a livel­lo di natu­ra uma­na, come un prin­ci­pio atti­vo che, comu­ne a tut­ti gli esse­ri uma­ni, può decli­nar­si in vari modi — l’amore di sé che ogni esse­re uma­no ha per se stes­so. In Gui­gnon, inve­ce, esi­ste a livel­lo indi­vi­dua­le: esse­re auten­ti­ci signi­fi­ca che esi­sto­no sen­ti­men­ti, desi­de­ri e con­vin­zio­ni pro­prie che si devo­no espri­me­re aper­ta­men­te nel­l’a­re­na pub­bli­ca (Gui­gnon 2008, 288). Un’altra dif­fe­ren­za è che in Gui­gnon que­sta capa­ci­tà è indis­so­lu­bil­men­te lega­ta alla socie­tà, per­ché è il trat­to carat­te­ria­le neces­sa­rio per esse­re un mem­bro effi­ca­ce di una socie­tà demo­cra­ti­ca (Gui­gnon 2008, 288). Come a dire, sen­za demo­cra­zia, nien­te auten­ti­ci­tà, e sen­za auten­ti­ci­tà, nien­te demo­cra­zia. 

I due poli sono lega­ti a dop­pio filo in una manie­ra esclu­si­va, assen­te in Rous­seau, il qua­le inve­ce ha rin­trac­cia­to pos­si­bi­li for­me di auten­ti­ci­tà anche in dimen­sio­ni comu­ni­ta­rie più ristret­te. In que­sto, il pen­sa­to­re gine­vri­no si mostra inter­pre­te e fine cri­ti­co di una nuo­va con­ce­zio­ne dell’Io moder­no, che nel pren­de­re atto del­la pro­pria fra­gi­li­tà, con­ser­va l’anelito alla vir­tù ma lo model­la in una for­ma a lui più con­so­na. Né la polis né la demo­cra­zia sono con­di­tio sine qua non di auten­ti­ci­tà, quan­to inve­ce l’ideale di comu­ni­tà, con la sua ine­vi­ta­bi­le ten­sio­ne — e dif­fe­ren­za — ver­so la sfe­ra poli­ti­ca. Una vir­tù “baroc­ca”, che si adat­ta alle infi­ni­te pie­ghe del mon­do e all’ambigua com­ples­si­tà degli uomi­ni (Pul­ci­ni, 2002, 44).

Nel rap­por­to biu­ni­vo­co tra auten­ti­ci­tà e demo­cra­zia, come quel­lo di Gui­gnon, si nascon­de inve­ce un’altra ten­den­za del pen­sie­ro essen­zia­li­sta, dato che si uni­ver­sa­liz­za un model­lo spe­ci­fi­co, nato in un con­te­sto deter­mi­na­to — occi­den­ta­le — e che ridu­ce comun­que la com­ples­si­tà uma­na, impli­can­do che tut­ti gli indi­vi­dui — indi­pen­den­te­men­te da cul­tu­ra, sto­ria, con­te­sto per­so­na­le — abbia­no biso­gno di un ordi­na­men­to demo­cra­ti­co per rea­liz­zar­si. In Rous­seau, inve­ce, c’è il ten­ta­ti­vo di mostra­re come un indi­vi­duo pos­sa diven­ta­re vir­tuo­so — auten­ti­co — a pre­scin­de­re dal tipo di socie­tà in cui vive, e per­si­no in una socie­tà ingiu­sta e cor­rot­ta, come quel­la in cui lui ave­va vis­su­to e di cui era sta­to anche vit­ti­ma.

7. VIR­TÙ O INGAN­NO?

Due con­clu­sio­ni fina­li: la pri­ma è che tut­to que­sto discor­so, se può sem­bra­re astrat­to, è soprat­tut­to per­ché si con­cen­tra sui pre­sup­po­sti e sul­le strut­tu­re dell’autenticità, piut­to­sto che sui suoi uti­liz­zi. Sia­mo però cir­con­da­ti da modi di pen­sa­re che si appog­gia­no a que­sto tipo di auten­ti­ci­tà essen­zia­li­sta, e inda­gar­ne i pre­sup­po­sti è indi­spen­sa­bi­le per rico­no­scer­li. Alcu­ni stu­di, ad esem­pio, han­no mostra­to che le per­so­ne sono rilut­tan­ti a pren­de­re psi­co­far­ma­ci che alte­ra­no aspet­ti rela­ti­vi alla pro­pria sfe­ra mora­le — empa­tia, umo­re — con­si­de­ra­ti cen­tra­li nel­la defi­ni­zio­ne del­la pro­pria iden­ti­tà, e si fan­no inve­ce meno pro­ble­mi quan­do i medi­ci­na­li intac­ca­no degli aspet­ti con­si­de­ra­ti peri­fe­ri­ci, come la con­cen­tra­zio­ne (Stroh­min­ger, Kno­be, New­man 2017, 1–10). Cre­do sia rin­trac­cia­bi­le qui una moda­li­tà impli­ci­ta di ragio­na­re in ter­mi­ni di auten­ti­ci­tà essen­zia­li­sta.

Soprat­tut­to ser­ve rico­no­sce­re quel­le che sono le for­me degra­da­te di que­sta auten­ti­ci­tà essen­zia­li­sta. Ragio­nia­mo nei ter­mi­ni di que­sto tipo di auten­ti­ci­tà distor­ta ogni vol­ta che ci affi­dia­mo all’identità etni­ca, raz­zia­le, per defi­ni­re ciò che sia­mo: si può con­si­de­ra­re “essen­zia­li­sta” nel­la for­ma, in quan­to pren­de e natu­ra­liz­za alcu­ni trat­ti — etni­ci, di gene­re -, che diven­ta­no vei­co­li mora­li e quin­di nor­ma­ti­vi, pun­tan­do a dise­gna­re una socie­tà in cui que­sti trat­ti si pos­so­no libe­ra­men­te rea­liz­za­re. Allo stes­so tem­po, è però distor­ta nel con­te­nu­to, dal momen­to che que­sta rea­liz­za­zio­ne può avve­ni­re solo a sca­pi­to di altre per­so­ne, sfo­cian­do poi nel con­flit­to e negan­do quin­di la stes­sa base di socia­li­tà di cui l’autenticità ha biso­gno per pro­spe­ra­re. Pen­sa­re l’autenticità come vir­tù signi­fi­ca inve­ce pun­ta­re a met­te­re tut­ti nel­le con­di­zio­ni di rea­liz­zar­si, alme­no poten­zial­men­te. La gran­de for­za di pen­sa­re l’autenticità come vir­tù sta nel costrin­ge­re a ripen­sa­re qual­sia­si trat­to essen­zia­le in ter­mi­ni uni­ver­sa­li: non c’è nul­la di sba­glia­to nel pen­sa­re che esse­re un maschio bian­co sia un trat­to che ci defi­ni­sce. Non c’è insom­ma nul­la di sba­glia­to a pen­sa­re la real­tà in ter­mi­ni essen­zia­li­sti­ci. Il pro­ble­ma è come si decli­na social­men­te que­sto trat­to, cioè come lo si ren­de auten­ti­co, adat­to alla socia­li­tà uma­na. Il che vuol dire che sia com­pa­ti­bi­le con i trat­ti altrui, che sono tan­to essen­zia­li quan­to diver­si dai nostri, ma che come i nostri fio­ri­sco­no solo nel­la socia­li­tà. Io pos­so cre­de­re che la mia iden­ti­tà di maschio bian­co si rea­liz­zi nel cal­cet­to, nel­la bir­ra e nel moto­ra­du­no, oppu­re che si rea­liz­zi nel divie­to di espri­me­re le pro­prie emo­zio­ni. Il pun­to di par­ten­za è lo stes­so, il risul­ta­to è diver­so. C’è, a mio avvi­so, un cer­to pote­re libe­ra­to­rio nel con­sen­ti­re un pen­sie­ro essen­zia­li­sta nel­la misu­ra in cui si ren­de com­ple­men­ta­re ad altri modi di pen­sa­re più flui­di.

La secon­da con­clu­sio­ne è che, come pre­sen­ta l’articolo intro­dut­ti­vo, sin dal­la loro com­par­sa, authen­tes e deri­va­ti han­no assun­to nume­ro­si signi­fi­ca­ti, spes­so dipen­den­ti dal con­te­sto e dal­le moti­va­zio­ni per le qua­li veni­va­no uti­liz­za­ti. Que­sta ten­sio­ne eti­mo­lo­gi­ca pare esse­re deflui­ta in quel­la con­cet­tua­le da quan­do, a par­ti­re dal­la moder­ni­tà, l’autenticità è diven­ta­ta una que­stio­ne di pri­ma­ria impor­tan­za per l’essere uma­no. Uti­liz­za­re la paro­la vir­tù signi­fi­ca  asse­gna­re all’autenticità un valo­re posi­ti­vo, ma non è l’unico dispo­ni­bi­le. Andrew Pot­ter ha ad esem­pio defi­ni­to in un suo libro, The Authen­ti­ci­ty Hoax: How We Get Lost Fin­ding Our­sel­ves (2010), l’autenticità come un imbro­glio, para­go­nan­do­la a una scor­cia­to­ia mora­le che asso­mi­glia al pen­sie­ro reli­gio­so e che, lun­gi dall’essere la solu­zio­ne ai nostri pro­ble­mi, ne rap­pre­sen­ta inve­ce pro­prio la cau­sa: un raf­faz­zo­na­to rim­piaz­zo di Dio in un mon­do disin­can­ta­to e indi­vi­dua­li­sti­co.

Le obie­zio­ni sol­le­va­te da Pot­ter sono degne di nota, e indi­ca­no come l’autenticità non abbia uni­ca­men­te un valo­re posi­ti­vo. È faci­le vede­re, soprat­tut­to oggi, come la neces­si­tà di rife­rir­si a una socie­tà libe­ra e demo­cra­ti­ca non sal­vi cer­to l’autenticità da degra­da­zio­ni — per come la inten­do­no Gui­gnon e Tay­lor — nar­ci­si­sti­che ed edo­ni­sti­che. È un’altra del­le strut­tu­re di pen­sie­ro che si pos­so­no rico­no­sce­re attra­ver­so l’autenticità essen­zia­li­sta. 

Come nel pri­mo arti­co­lo, auten­ti­ci­tà tor­na a esse­re un’enantiosemia mora­le, cioè una stes­sa paro­la che assu­me valo­ri oppo­sti o con­tra­ri in base al con­te­sto. Ma l’ideale rima­ne, ed è la socie­tà il ter­re­no di lot­ta per il recu­pe­ro di un’autenticità pie­na e vir­tuo­sa nel sen­so descrit­to, ammes­so che esi­sta e che non sia solo uno spec­chio per le allo­do­le.

Gli atteg­gia­men­ti fra chi scor­ge nell’autenticità un cam­mi­no pos­si­bi­le di reden­zio­ne e chi, inve­ce, un ela­bo­ra­to ingan­no sono però incon­ci­lia­bi­li. 

Ha scrit­to Rous­seau nell’Emi­lio

Se dun­que venis­se­ro a dir­mi: nien­te di ciò che imma­gi­na­te esi­ste; i gio­va­ni non sono fat­ti così; essi han­no que­sta o quel­la pas­sio­ne; essi agi­sco­no così e così: sareb­be come se si negas­se che il pero sia sta­to mai un gran­de albe­ro, per­ché non se ne vedo­no che di nani nei nostri giar­di­ni                                    (Rous­seau 2003, 189).

Rispon­de Fer­nan­do Pes­soa:

Chi può cono­sce­re, tra tan­to erra­re, di modi di sen­tir­si, l’esatta for­ma che ha di se stes­so?           

(Pes­soa 2015, 444).

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Sito­gra­fia

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