Nell’introduzione a questo lavoro, in cui ho indagato l’etimologia della parola “autenticità”, ricordavo come un qualsiasi discorso organico su questo concetto presupponga capire a cosa ci si riferisca: parlare di un quadro autentico è cosa assai diversa che parlare di una persona autentica, perché potenzialmente può voler dire cose differenti. Newman e Smith, in Kinds of Authenticity, hanno formalizzato questa necessità sostenendo che la caratteristica comune tra i vari giudizi sull’autenticità sia quella di essere organizzati attorno al binomio oggetto/agente (Newman, Smith 2016, 613). Con oggetto non si indica soltanto qualcosa di fisico ed esistente, ma anche qualcosa di più astratto, come la cucina messicana; con agente, invece, si intendono gli esseri umani.
I due autori hanno utilizzato però anche un secondo binomio, che dà lo spunto per questo secondo articolo e che consente di fare luce su un’ulteriore aspetto: interno/esterno (Newman, Smith 2016, 613). Questo binomio sottolinea che per giudicare l’autenticità — di una persona, nel nostro caso — si possono prendere in considerazione dei criteri interni all’individuo e/o appartenenti alla società in cui l’individuo è immerso, ed indagare la loro relazione.
In questo articolo, proverò a sostenere due cose: la prima è che quando questa relazione è sbilanciata a favore dell’aspetto sociale, ci si può riferire all’autenticità come a una virtù. La seconda è sostenere che quanti si sono riferiti all’autenticità, considerandola come una virtù, hanno riformulato — con i dovuti aggiornamenti filosofici — un principio di continuità tra individuo e società, già articolato nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau.
1.“BE THYSELF”
Ogni persona ha un nucleo individuale e immutabile: il proprio vero sé, laddove questo costituisca una costellazione di credenze, valori, emozioni, desideri, capacità, disposizioni, che rendono una persona unica e inimitabile (Leuenberg 2021, 410). Essere autentici significa trovare il vero sé e vivere in base ad esso. O se preferite, più poeticamente, ogni essere umano ha la sua misura: c’è solo da trovare la propria e strappare lungo i suoi bordi, per realizzarsi.
Si tratta con tutta probabilità di formule che suonano familiari, dato che spesso e volentieri è proprio a definizioni di questo tipo che ci si affida quando si parla di autenticità. Se chiedessimo a una persona cos’è che la rende autentica, quasi sicuramente riceveremmo in risposta uno o più elementi — interessi, attività, preferenze — la cui combinazione rappresenta un veicolo di autenticità, rendendo quella persona unica e inimitabile rispetto alle altre. Essere gentili, ad esempio, può farci sentire autentici perché riteniamo che sia un valore che ci consente di mettere in campo le nostre migliori disposizioni; o perché magari ben si abbina con una tendenza ad aiutare il prossimo che crediamo sia profondamente radicata dentro di noi; o perché reputiamo che non esercitare questo valore significhi rinunciare a una parte di noi che ci definisce strutturalmente, e senza la quale saremmo persone parziali, incomplete.
A questo modo di leggere l’autenticità, Leuenberger (2021, 410) ha dato il nome di “autenticità essenzialista” e ne ha definito cinque caratteristiche: (a) una distinzione tra un sé centrale — vero — e uno periferico, (b) il fatto che questo vero sé sia innato e non quindi un prodotto dell’esperienza, © il fatto che vi si possa accedere attraverso l’attività introspettiva, (d) la possibilità — o meglio il rischio — di alienarci dal nostro vero sé, (e) infine la sua “portata normativa”.
Prendiamo di nuovo come esempio la gentilezza, ipotizzando che questa possa essere un’espressione della nostra autenticità. Ciò vorrebbe dire ritenere questo valore come appartenente alla parte di noi più profonda, da perseguire anche quando sarebbe più conveniente non farlo (a), un valore che riteniamo avremmo coltivato in qualsiasi contesto culturale ci fossimo trovati a vivere (b) e che abbiamo scoperto attraverso l’introspezione, chiedendo cioè a noi stessi cos’è che davvero ci definisce nella nostra vita ©. Questo valore però, in una società atomistica e disintegrata come quella capitalista, corre sempre il rischio di essere abbandonato, perché considerato ingenuo, con il risultato di alienarci da questa parte fondamentale di noi, e di perderla (d). Ciò nonostante, sentiamo che la gentilezza rappresenta una parte fondamentale di noi, alla quale dobbiamo dedicarci perché non darle espressione significherebbe non aver vissuto appieno la nostra vita, aver mancato l’obiettivo, il nostro ‘compito’ (e). E, come se non bastasse, c’è anche la necessità di stabilire dei criteri che ci consentano di decidere, con un certo grado di sicurezza, se ci stiamo davvero comportando autenticamente.
Detto semplicemente: prendiamo di nuovo una persona gentile. Quali sono i criteri per decidere se questo atteggiamento è espressione autentica di noi stessi? Da un lato possiamo utilizzare dei criteri interni, ad esempio cercare di capire se siamo motivati nella nostra scelta di essere gentili, se davvero riteniamo che la gentilezza rappresenti una parte fondamentale di noi stessi. Se lo siamo non per scelta opportunistica ma perché profondamente consapevoli e convinti del valore intrinseco delle nostre azioni, allora stiamo vivendo autenticamente. Dall’ altro lato, possiamo tenere in considerazione dei criteri esterni: solo se viviamo all’interno di una società in cui la gentilezza ha la possibilità di prosperare, possiamo ritenerci autentici. Non si può essere gentili e autentici in un mondo di barbari.
2. AUTENTICITÀ COME VIRTÙ
La contrapposizione è stridente e nell’arco della nostra vita tutti ci siamo fermati a riflettere su questa dicotomia tra società e individuo. Possiamo essere autenticamente gentili in una società che non considera la gentilezza un valore che merita di essere perseguito, senza che arrivi il minimo riconoscimento da parte dei nostri simili? Molti risponderebbero di sì: in direzione ostinata e contraria, purché se ne sia convinti. Eppure, una risposta in senso totalmente affermativo è facile ma affrettata, perché siamo ben coscienti che la gentilezza — almeno formalmente — è riconosciuta come un valore nella nostra società, se non quella in cui siamo fisicamente, almeno quella a cui idealmente sentiamo di appartenere. Ma poniamo che arrivi una persona che affermi di sentirsi realizzata solo durante atti di cannibalismo, o di tortura degli animali, o solo nella soddisfazione indiscriminata delle proprie pulsioni sessuali ed emotive: basterebbe forse accertarsi della sua intrinseca motivazione per definirla una persona autentica? O ci sono, invece, dei valori sociali, religiosi, comunque esterni alla pura motivazione personale, a cui bisogna fare riferimento quando si discute di autenticità?
Un bel nodo gordiano. Per provare a scioglierlo, possiamo iniziare notando come questa contrapposizione nasconda un presupposto fondamentale, che va portato alla luce: quando si chiamano in causa dei valori — interni o esterni che siano — si conferisce inevitabilmente una tensione normativa al discorso, dato che questi sono ciò che guida le persone nell’agire quotidiano, degli ideali verso i quali le azioni tendono in quanto preferibili ad altri. Ciò vale anche per l’autenticità: quando questa chiama in causa dei valori, significa che si avverte una tensione nei confronti di quei valori stessi e che spinge a comportarsi in un certo modo. Questa contrapposizione è un ottimo esempio del binomio interno/esterno: per parlare di autenticità si possono chiamare in causa dei criteri interni all’individuo e/o appartenenti alla società in cui quell’individuo è immerso. Quando questa contrapposizione pende a favore del valore sociale rispetto a quello individuale, stiamo implicitamente sostenendo che l’autenticità sia una virtù.
Ma che cos’è una virtù? Charles Guignon (2008, 277) scriveva che “autenticità” è una parola che si sente piuttosto a casa nell’area dell’etica delle virtù e prosegue definendo quest’ultima come una “buona qualità del carattere, intesa come disposizione a rispondere agli elementi che rientrano nel suo campo di applicazione in modo buono o almeno corretto” (Guignon 2008, 286). Essere virtuosi significa insomma sapere come comportarsi nelle situazioni più disparate, o perlomeno avere degli strumenti che permettano di analizzare in maniera organica ciò che succede, per poi agire di conseguenza. La virtù è una sorta di ChatGpt incorporato dentro di noi, in cui inseriamo degli input esterni che vengono elaborati e tradotti in determinati comportamenti: più è elaborato il software, migliore è la risposta. Cosa ha a che fare tutto ciò con l’autenticità?
Se oggi ci trovassimo a parlare con un intellettuale vissuto tra la fine del Settecento e l’Ottocento, tutto ciò che abbiamo detto finora gli suonerebbe straordinariamente familiare, nonostante i due secoli che ci separano, perché la formulazione essenzialista e morale dell’autenticità è in buona sostanza quella sposata dagli intellettuali Romantici, i primi cavalieri del concetto di autenticità (Taylor 1991, 25). Trattandosi però di un fenomeno di profonda rottura della modernità con il proprio passato, c’è bisogno di fare un excursus, per capire quali idee la modernità ha conservato dalla sua tradizione, e con quali ha invece esercitato tale rottura. Il punto di partenza sembra quasi obbligato: Socrate.
3.“KNOW THYSELF”
Socrate infatti non ci invitava a conoscere noi stessi, a scavare nelle nostre profondità alla ricerca di una verità che potesse servirci allo stesso modo come norma della realtà e del nostro agire al suo interno? Nonostante tutto ciò sia vero, è sicuramente errato considerare Socrate il filosofo dell’autenticità, per quanto sia possibile rintracciare nella sua filosofia un concetto di primaria importanza anche per l’autenticità: una nuovissima — ai suoi tempi — concezione di virtù.
Da Socrate, l’autenticità moderna conserva l’idea della virtù come bene interiore dell’anima e non esteriore, del corpo. Già duemilacinquecento anni fa la posizione socratica era un vero spartiacque: prima di lui non si trovava nella cultura greca l’idea di un’anima intesa come realtà spirituale, avente una portata conoscitiva e morale, la cui virtù coincide con la conoscenza. Questa caratteristica consegna ad ogni essere umano tanto un compito — la cura di sé attraverso la ricerca della conoscenza e della verità — quanto un metro di misura. Se la virtù è eccellenza, e la cura dell’anima ha come scopo la virtù — cioè il suo miglioramento — è nell’eccellenza dell’anima stessa che si misura il valore di un essere umano. Su questo punto un filosofo moderno dell’autenticità e Socrate sarebbero d’accordo senza ombra di dubbio: la virtù socratica e l’autenticità condividono il domicilio. È dentro l’essere umano che va infatti cercata l’eccellenza. Infatti, per Socrate, l’anima è virtuosa nella misura in cui si prodiga nella ricerca della verità: l’unica vita che merita di essere perseguita. Si tratta di un cambio di prospettiva radicale all’interno del pensiero greco, invece profondamente intriso di un’etica legata ai valori del corpo, alle virtù fisiche. Dunque, è con Socrate che si inizia a privilegiare le attitudini, i valori e i talenti dell’anima (Radice 2020, 95). Così, si inaugura un nuovo modello di felicità, che risiede nell’interiore e che non nega i piaceri del corpo, ma li subordina alla ragione affinché essa possa misurarli e accoglierli, e affinché l’essere umano possa non avere il giudizio offuscato nel compito di trovare il suo posto nel grande ordine universale.
È precisamente su quest’ultimo punto che si consuma la rottura tra antico e moderno: in Socrate, ma più in generale nel pensiero greco e medievale, troviamo una sostanziale continuità tra interno ed esterno, tra individuo e cosmo. In Socrate, ad esempio, c’è continuità tra individuo, razionalità, morale e società: la ricerca della verità da parte dell’individuo si travasa nella morale, poiché è interessata a migliorare l’agire, che a sua volta si trasferisce nella politica perché i cittadini virtuosi sono alla base di una città prospera (Radice 2020, 96). Per il filosofo greco, se conoscere se stessi vale qualcosa, è solo all’interno dell’armonia universale, e non per fini individualistici: la funzione della conoscenza è, in ultima istanza, riconducibile alla necessità dell’armonia sociale, della temperanza, cioè del riconoscere il proprio posto all’interno della società che ci accoglie, e di cui facciamo parte non in quanto individui che hanno stipulato un contratto sociale, bensì in quanto parti funzionali di un tutto. Su questo, noi come individui, non abbiamo potere di intervento ma, qualora non ci fosse non avremmo senso di esistere. Il significato tradizionale di γνῶθι σαυτόν — gnôthi sauton — conosci te stesso, potrebbe essere parafrasato come “conosciti e quindi posizionati nella gerarchia sociale” (Moore 2018, 5). Dunque, la razionalità umana è considerata da un lato un centro autonomo, ma dall’altro un ponte verso la società, il cosmo, Dio. Si tratta di una tensione risolvibile solo all’interno di una sostanziale continuità fra interno ed esterno, fra noi e il mondo. Per riassumere: l’ideale più antico di essere fedeli a se stessi era legato alla preoccupazione di manifestare in tutte le proprie azioni l’impegno definito verso i principi della razionalità, verso l’ordine cosmico o verso qualche altra fonte trascendente, verso Dio.
4. TEMPI MODERNI
Con la modernità, tutto questo impianto si sgretola. Le gerarchie crollano, l’ordine immutabile anche. Il mondo diventa disordinato. In questa condizione l’identità personale non può più provenire dal proprio ruolo sociale all’interno di queste gerarchie, che funzionavano quasi come “distributori automatici di riconoscimento” (Carnevali 2004, 52). Gli individui si scoprono liberi, autorizzati a inventare la propria vita, a provvedere in prima persona alla costruzione della propria identità, cercandone la fonte nella loro interiorità (Guignon 2008, 279). L’Io esercita il diritto a trovare unicamente in se stesso “il punto archimedeo intorno a cui far ruotare un’esistenza non più vincolata da autorità trascendenti, codici gerarchici o strutture collettive” (Pulcini 2002, 22); ora, la fonte a cui diventa necessario connettersi si trova già dentro l’individuo. Guignon ripercorre a grandi linee le tappe che hanno portato a questa interiorizzazione: la Riforma protestante con il suo individualismo religioso, in cui la questione principale diventa il rapporto personale con Dio, rifiutando l’intermediazione delle gerarchie ecclesiastiche (Guignon 2004, 15); la nascita della scienza moderna con la sua concezione di un universo meccanicistico, privo di qualsivoglia piano provvidenziale (Guignon 2004, 16). Un soggetto, quindi, non più coinvolto nella grande catena dell’essere ma distaccato, imparziale, metodico e oggettivo, res cogitans cartesiana, puro pensiero e volontà (Guignon 2004, 17). La voce Authenticity, della Stanford University, descrive icasticamente questo passaggio in cui lo spazio dell’interiorità diventa un’autorità capace di indirizzarci: “the space of interiority becomes a guiding authority”.
Infine, la modernità porta con sé l’idea che la società sia soltanto il prodotto casuale di un accordo tra individui in cambio di certi benefici (Guignon 2004, 18), disgregando l’idea di un potere politico che ha un’origine divina (Ferrone 2019, 113). In tal modo, si permette di ripensarlo alla luce, sì di un passato mitico — quello greco-romano -, ma con l’acquisita consapevolezza di essere di fronte ad un individuo mutato, portatore di nuove potenzialità e di nuovi diritti, che la politica non doveva in alcun modo soffocare (Ferrone 2019, 121). Potremmo dire che con la modernità fa il suo ingresso un’idea molto importante, ovvero che esista una netta distinzione tra interno ed esterno, tra individuo e società, che permette di pensare all’individuo stesso come separato dal proprio ambiente sociale, non rappresentandone più semplicemente un prodotto o un’estensione — idea invece basilare nel pensiero greco, ma anche medievale (Guignon 2004, 8).
Una delle conseguenze di questa rottura è quella che Elena Pulcini chiama un’antropologia del vuoto (Pulcini 2002, 11): l’Io moderno, conscio di nuove e inedite possibilità che gli si aprono davanti, si scopre contestualmente vulnerabile, imperfetto. L’Io moderno è autonomo ma carente, dilaniato tra desiderio di autoaffermazione e senso di sradicamento, e cerca di compensare il secondo con il primo.
Attraverso il possesso della ricchezza e la distinzione dai propri simili, ottenendo il loro riconoscimento, l’Io moderno vuole essere l’artefice del proprio trionfo.
Tuttavia, come se non bastasse questa condizione ambivalente, scopre anche di essere uguale a tutti gli altri, e quindi di avere a disposizione gli stessi mezzi per perseguire i suoi interessi. Il risultato è inevitabilmente il conflitto: la nuova simmetria dei rapporti interpersonali e il desiderio di recuperare una distinzione, prima garantita dall’ordine sociale, impongono un’urgenza di gerarchizzare, che diventa possibile solo attraverso il conflitto (Carnevali 2004, 51). L’Io moderno si rifiuta di riconoscere l’uguaglianza imposta dalla natura.
5. JEAN-JACQUES ROUSSEAU
Jean-Jacques Rousseau è uno dei primi a porsi criticamente nei confronti di questo individualismo acquisitivo, mostrando come dalla coazione all’appropriazione, alimentata dal bisogno di distinzione e di riconoscimento, nasca una falsa identità, distorta e inautentica (Pulcini 2002, 13). Ed è precisamente a quest’ultima che Rousseau oppone l’immagine di un Io autentico, che è capace di dar vita a un legame sociale fondato su uguaglianza e giustizia. Rousseau — filosofo pre-romantico per eccellenza e vero e proprio outsider dell’Illuminismo francese — è tra i primi ad essersi assunto il compito di ripensare la socialità alla luce delle nuove forme di attenzione all’individuo e alle sue potenzialità, capacità, esigenze e diritti. È proprio il particolare angolo da cui Rousseau affronta questa problematica che gli ha conferito il titolo di precursore del discorso sull’autenticità.
L’urgenza, non solo di Rousseau ma di tutto il movimento illuminista — in seguito allo sviluppo di forme sempre più radicali di individualismo, a partire dalla filosofia cartesiana — è infatti quella di scoprire una nuova relazione tra individuo e comunità dopo che l’idea di un ordine sociale, sacro e immutabile, è andata in frantumi. Nel 1648 venne garantita agli individui la libertà religiosa con la firma della Pace di Vestfalia (Mori, Veca 2019, 86) che fu il primo passo verso il riconoscimento del fatto che gli esseri umani, in merito a come realizzare la propria vita, non siano proprio d’accordo, ma a ognuno di loro spetta comunque l’ultima parola. La virtù, nel contesto illuminista, viene quindi riformulata in termini nuovi, in armonia con una visione naturalistica degli esseri umani (Mori, Veca 2019, 93), e come un trait d’union aggiornato tra l’individuo e la società. È qui che entra in gioco l’autenticità nei suoi tratti moderni, di cui Rousseau è stato indicato da numerosi studiosi come capostipite, pur non avendo — ironia della sorte — mai utilizzato questa parola.
Qualcuno potrebbe storcere il naso, e avrebbe i suoi buoni motivi. Rousseau, il filosofo del “buon selvaggio”, fustigatore in pubblica piazza delle ipocrisie della società borghese, passeggiatore solitario, si può davvero considerare il filosofo dell’autenticità come virtù, di un rinnovato tentativo di fruttuosa e virtuosa convivenza umana? Eppure, a un’attenta analisi, lo sforzo di Rousseau sembra tenacemente rivolto alla ricerca di una nuova armonia tra l’individuo e la società. Un’armonia perduta per via di una presenza sempre più ingombrante dell’individuo, della sua razionalità e delle sue passioni, ma anche di un ordinamento sociale percepito come corrotto. La ricerca dell’autenticità nasce come reazione e risposta ai guasti dell’individualismo utilitaristico, ponendosi come base di una nuova philia, cioè di una nuova fratellanza umana (Pulcini 2002, 13). È per questo che, nonostante le critiche sferzanti che riserva all’ordine costituito, Rousseau continua a parlare di virtù in una prospettiva sociale (Rousseau 2014, 96), perché la società civile — idealmente — continua a costituire la più piena espressione della libera espansione della natura umana (Rousseau 2003, 23), del suo dispiegarsi libero e progressivo. Esattamente come pensava Socrate, ma Rousseau è diverso da lui nell’attenzione che riserva all’individuo e alla sua necessità di autorealizzarsi, a costo di sostenere che l’ordine sociale non solo non sia immutabile, ma sia anche corrotto e corruttore della natura umana e dei suoi due principi attivi, l’amore di sé e la pietà (Rousseau 2003, 177). Basta seguire le loro disposizioni per raggiungere una condizione virtuosa che si traduce nell’estensione dell’amore per sé alle altre persone (Rousseau 2003, 188–189).
È ascoltando la voce della propria coscienza che si apprendono le leggi della virtù (Rousseau 1972, 17).
Questo è un punto fondamentale, per capire il rapporto tra autenticità e virtù. Il tentativo di unire, senza salti, l’individuo alla società condivide alcuni tratti con l’impostazione socratica, soprattutto nella sua ricerca di concordia universale. Lo fa però in un senso nuovo, davvero contemporaneo. In primo luogo, l’essere umano — potenzialmente — non sacrifica nulla della sua individualità nel rapporto con altri esseri umani. In secondo luogo, anche se la virtù rimane espressione di un’eccellenza di comportamento in una data cultura, con Rousseau il riferimento a quest’ultima diventa oppositivo: la natura umana disegna in prospettiva una società nella quale si può esprimere liberamente, rovesciando la cultura di riferimento — malata e degradata — come in uno specchio. Niente più società immutabile, niente più cosmo ordinato. L’autenticità è una virtù ancora tutta da conquistare perché c’è una società ancora tutta da costruire, che a quell’essenza umana può dare libero dispiegamento. Socrate gridava ai popoli “siate virtuosi, sarete liberi”; Rousseau (2008, 707) ha detto loro “siate liberi, sarete virtuosi”, per parafrasare un famoso adagio di François-René de Chateubriand, contenuto nel Genio del Cristianesimo.
Perciò, se la virtù è eccellenza, e l’autenticità è il pieno dispiegamento delle proprie disposizioni individuali, unendo questi due poli si ottiene l’autenticità come virtù, in cui l’individuo raggiunge la massima armonia possibile tra la realizzazione della sua individualità e della società in cui è inserito. Una definizione che trova eco proprio in Rousseau che approfondisce la virtù della giustizia nell’Emilio (1762), sostenendo che ampliando l’amore di sé sugli altri esseri lo si trasformerà in virtù: “più si generalizza quest’interesse, più esso diventa equo, e l’amore del genere umano non è altra cosa in noi che l’amore della giustizia” (Rousseau 2003, 189). La virtù che cioè più concorre al bene degli esseri umani.
In Rousseau — fermo restando che questa parola non l’abbia mai utilizzata — l’uomo autentico è l’uomo giusto: questa è la mia tesi. Se infatti la reciprocità tra individuo e società è potenzialmente senza soluzione di continuità, si può sostenere che queste due virtù, autenticità e giustizia, siano due facce della stessa medaglia, che il godimento interiore sia una parte imprescindibile del rapporto dell’individuo con i suoi simili. Rousseau sembra dirci che, al netto delle nostre inclinazioni particolari, che siano la gentilezza, l’amore per il sapere o la cucina messicana, l’unico modo per coltivarle autenticamente è spendersi nella ricerca e conservazione di una società in cui tutti gli esseri umani possono coltivare le proprie inclinazioni con lo stesso grado di possibilità che vorremmo per noi stessi; una società giusta. Per Rousseau questo passaggio dovrebbe avvenire con naturalezza, senza strappi, nel momento in cui si seguono le inclinazioni particolari di una comune natura umana.
È una visione idealizzata e non priva di problemi. In Rousseau, il tentativo di colmare lo iato tra istinto e ragione, che poi è lo stesso che c’è tra individuo e società, è uno dei più ambiziosi. Per questo, le sue definizioni di virtù sono spesso contraddittorie, puntando a volte sull’educazione individuale nella società corrotta, altre sulla conformità dell’individuo alla volontà generale, soprattutto nel suo testo più famoso, il Contratto sociale (Delaney 2006, 135). Il rapporto che si deve instaurare tra l’educazione individuale e quella civile sarà in Rousseau sempre ambivalente, in continua oscillazione tra le disposizioni naturali dell’individuo e la loro — ancora necessaria — realizzazione collettiva. Senza considerare che nelle sue Le Passeggiate del sognatore solitario (1782) si affaccia con forza anche l’idea di una realizzazione individuale che faccia completamente a meno della società (Reisert 2000). Tuttavia, la ricerca di questa rinnovata armonia tra individuo e società rimane, soprattutto in due testi cardine come il Contratto sociale (1762) e l’Emilio (1762). Per usare le parole di Rousseau, l’autenticità potrebbe essere descritta come la virtù del “selvaggio fatto per abitare la città” (Rousseau 2003, 171). Nel Contratto sociale, invece, Rousseau scrive come il cittadino virtuoso sia quello che ama le leggi che uniscono il particolare al generale (Delaney 2006, 108). Nel Discorso sull’economia politica (1755) scrive che “la virtù è solo la conformità del privato al generale” (Rousseau 1992, 149). Azzardando una conclusione, vista dalla parte del privato, l’autenticità può essere considerata, in Rousseau, la conformità del privato al generale; mentre la giustizia è quella stessa conformità vista dalla parte del generale. Aggiornando una frase utilizzata in precedenza, si può dire che in Rousseau l’autenticità è una virtù ancora tutta da conquistare perché c’è una società giusta ancora tutta da costruire, e che a quell’essenza umana può dare libero dispiegamento.
6. CONTEMPORANEITÀ
Abbiamo citato nelle battute iniziali Charles Guignon, che ha sostenuto come l’autenticità si senta a casa nell’ambito dell’etica delle virtù, ma non è il solo: anche Charles Taylor e Bernard Williams, a cui Guignon spesso e volentieri fa riferimento, condividono questa impostazione.
Charles Taylor, ad esempio, nel suo Ethics of Authenticity, è stato piuttosto esplicito quando ha scritto che la realizzazione di se stessi è un’idea con una forte impronta morale, trattandosi di un ideale e non di un assioma, cioè qualcosa per cui bisogna fare fatica, che non basta semplicemente scegliere (Taylor 1991, 15). Devono infatti verificarsi alcune condizioni affinché le persone possano legittimamente reputarsi autentiche, e la prima e più importante è quella di prendere in considerazione il contesto socio-politico all’interno del quale le persone si muovono e agiscono.
Charles Guignon ha ripreso questa posizione di Taylor in maniera più netta ed esplicita, scrivendo che l’autenticità, come stile di vita, dovrebbe portare con sé la consapevolezza che la propria capacità di realizzare un tratto caratteriale ideale è possibile solo all’interno di una società di tipo specifico, ovvero una società libera e democratica (Guignon 2004, 82–83). Non basta quindi scegliere qualcosa, per dargli valore: devono esserci le condizioni affinché il contenuto di questa scelta possa in primo luogo essere significativo, e in seconda battuta potersi dispiegare. La passione, insomma, non basta: così come un tennista prodigio non riuscirà mai a esprimere al meglio le sue potenzialità, senza un allenatore che lo metta nelle condizioni di farlo, allo stesso modo non si possono esprimere i propri tratti — ad esempio la gentilezza — in maniera autentica fin quando la società in cui si vive non avrà le condizioni ideali per farlo. L’autenticità è quindi una virtù sociale, in due sensi: per primo, l’assenza di un determinato tipo di società rende impossibile l’espressione dei nostri tratti autentici (Guignon 2004, 77). C’è però anche una seconda ragione: se l’espressione dei nostri tratti autentici necessita di un dispiegamento nel tempo, ciò presuppone una certa stabilità nei nostri desideri e nelle nostre inclinazioni, e l’unico modo per ottenerla è attraverso le relazioni sociali (Guignon 2004, 78).
Citando Bernard Williams :
Siamo tutti insieme nell’attività sociale di stabilizzare reciprocamente le nostre dichiarazioni, i nostri stati d’animo e i nostri impulsi fino a farli diventare cose come credenze e atteggiamenti relativamente stabili.
(Williams 2002, 193)
Questo non vuol dire che non esistano dei tratti autentici e che il nostro sé sia socialmente costruito: tutto ciò che Guignon vuole dire è che ciò che noi chiamiamo “sé autentico” esiste ma ha bisogno delle interazioni sociali per essere scoperto, per crescere e stabilizzarsi, definirsi. E ha bisogno invece di una società libera e democratica per prosperare e realizzarsi.
Nonostante Guignon contesti a Rousseau numerose idee, e nonostante quest’ultimo non parli mai di autenticità, è evidente che entrambi condividono un’impostazione sociale a proposito della possibilità di autorealizzazione umana. Entrambi puntano verso una società democratica, convinti che senza la relazione con altre persone non si possa sviluppare né la virtù né l’autenticità, e che ci siano delle disposizioni umane essenziali che vanno coltivate. La differenza è che per Rousseau l’essenzialismo si manifesta a livello di natura umana, come un principio attivo che, comune a tutti gli esseri umani, può declinarsi in vari modi — l’amore di sé che ogni essere umano ha per se stesso. In Guignon, invece, esiste a livello individuale: essere autentici significa che esistono sentimenti, desideri e convinzioni proprie che si devono esprimere apertamente nell’arena pubblica (Guignon 2008, 288). Un’altra differenza è che in Guignon questa capacità è indissolubilmente legata alla società, perché è il tratto caratteriale necessario per essere un membro efficace di una società democratica (Guignon 2008, 288). Come a dire, senza democrazia, niente autenticità, e senza autenticità, niente democrazia.
I due poli sono legati a doppio filo in una maniera esclusiva, assente in Rousseau, il quale invece ha rintracciato possibili forme di autenticità anche in dimensioni comunitarie più ristrette. In questo, il pensatore ginevrino si mostra interprete e fine critico di una nuova concezione dell’Io moderno, che nel prendere atto della propria fragilità, conserva l’anelito alla virtù ma lo modella in una forma a lui più consona. Né la polis né la democrazia sono conditio sine qua non di autenticità, quanto invece l’ideale di comunità, con la sua inevitabile tensione — e differenza — verso la sfera politica. Una virtù “barocca”, che si adatta alle infinite pieghe del mondo e all’ambigua complessità degli uomini (Pulcini, 2002, 44).
Nel rapporto biunivoco tra autenticità e democrazia, come quello di Guignon, si nasconde invece un’altra tendenza del pensiero essenzialista, dato che si universalizza un modello specifico, nato in un contesto determinato — occidentale — e che riduce comunque la complessità umana, implicando che tutti gli individui — indipendentemente da cultura, storia, contesto personale — abbiano bisogno di un ordinamento democratico per realizzarsi. In Rousseau, invece, c’è il tentativo di mostrare come un individuo possa diventare virtuoso — autentico — a prescindere dal tipo di società in cui vive, e persino in una società ingiusta e corrotta, come quella in cui lui aveva vissuto e di cui era stato anche vittima.
7. VIRTÙ O INGANNO?
Due conclusioni finali: la prima è che tutto questo discorso, se può sembrare astratto, è soprattutto perché si concentra sui presupposti e sulle strutture dell’autenticità, piuttosto che sui suoi utilizzi. Siamo però circondati da modi di pensare che si appoggiano a questo tipo di autenticità essenzialista, e indagarne i presupposti è indispensabile per riconoscerli. Alcuni studi, ad esempio, hanno mostrato che le persone sono riluttanti a prendere psicofarmaci che alterano aspetti relativi alla propria sfera morale — empatia, umore — considerati centrali nella definizione della propria identità, e si fanno invece meno problemi quando i medicinali intaccano degli aspetti considerati periferici, come la concentrazione (Strohminger, Knobe, Newman 2017, 1–10). Credo sia rintracciabile qui una modalità implicita di ragionare in termini di autenticità essenzialista.
Soprattutto serve riconoscere quelle che sono le forme degradate di questa autenticità essenzialista. Ragioniamo nei termini di questo tipo di autenticità distorta ogni volta che ci affidiamo all’identità etnica, razziale, per definire ciò che siamo: si può considerare “essenzialista” nella forma, in quanto prende e naturalizza alcuni tratti — etnici, di genere -, che diventano veicoli morali e quindi normativi, puntando a disegnare una società in cui questi tratti si possono liberamente realizzare. Allo stesso tempo, è però distorta nel contenuto, dal momento che questa realizzazione può avvenire solo a scapito di altre persone, sfociando poi nel conflitto e negando quindi la stessa base di socialità di cui l’autenticità ha bisogno per prosperare. Pensare l’autenticità come virtù significa invece puntare a mettere tutti nelle condizioni di realizzarsi, almeno potenzialmente. La grande forza di pensare l’autenticità come virtù sta nel costringere a ripensare qualsiasi tratto essenziale in termini universali: non c’è nulla di sbagliato nel pensare che essere un maschio bianco sia un tratto che ci definisce. Non c’è insomma nulla di sbagliato a pensare la realtà in termini essenzialistici. Il problema è come si declina socialmente questo tratto, cioè come lo si rende autentico, adatto alla socialità umana. Il che vuol dire che sia compatibile con i tratti altrui, che sono tanto essenziali quanto diversi dai nostri, ma che come i nostri fioriscono solo nella socialità. Io posso credere che la mia identità di maschio bianco si realizzi nel calcetto, nella birra e nel motoraduno, oppure che si realizzi nel divieto di esprimere le proprie emozioni. Il punto di partenza è lo stesso, il risultato è diverso. C’è, a mio avviso, un certo potere liberatorio nel consentire un pensiero essenzialista nella misura in cui si rende complementare ad altri modi di pensare più fluidi.
La seconda conclusione è che, come presenta l’articolo introduttivo, sin dalla loro comparsa, authentes e derivati hanno assunto numerosi significati, spesso dipendenti dal contesto e dalle motivazioni per le quali venivano utilizzati. Questa tensione etimologica pare essere defluita in quella concettuale da quando, a partire dalla modernità, l’autenticità è diventata una questione di primaria importanza per l’essere umano. Utilizzare la parola virtù significa assegnare all’autenticità un valore positivo, ma non è l’unico disponibile. Andrew Potter ha ad esempio definito in un suo libro, The Authenticity Hoax: How We Get Lost Finding Ourselves (2010), l’autenticità come un imbroglio, paragonandola a una scorciatoia morale che assomiglia al pensiero religioso e che, lungi dall’essere la soluzione ai nostri problemi, ne rappresenta invece proprio la causa: un raffazzonato rimpiazzo di Dio in un mondo disincantato e individualistico.
Le obiezioni sollevate da Potter sono degne di nota, e indicano come l’autenticità non abbia unicamente un valore positivo. È facile vedere, soprattutto oggi, come la necessità di riferirsi a una società libera e democratica non salvi certo l’autenticità da degradazioni — per come la intendono Guignon e Taylor — narcisistiche ed edonistiche. È un’altra delle strutture di pensiero che si possono riconoscere attraverso l’autenticità essenzialista.
Come nel primo articolo, autenticità torna a essere un’enantiosemia morale, cioè una stessa parola che assume valori opposti o contrari in base al contesto. Ma l’ideale rimane, ed è la società il terreno di lotta per il recupero di un’autenticità piena e virtuosa nel senso descritto, ammesso che esista e che non sia solo uno specchio per le allodole.
Gli atteggiamenti fra chi scorge nell’autenticità un cammino possibile di redenzione e chi, invece, un elaborato inganno sono però inconciliabili.
Ha scritto Rousseau nell’Emilio:
Se dunque venissero a dirmi: niente di ciò che immaginate esiste; i giovani non sono fatti così; essi hanno questa o quella passione; essi agiscono così e così: sarebbe come se si negasse che il pero sia stato mai un grande albero, perché non se ne vedono che di nani nei nostri giardini (Rousseau 2003, 189).
Risponde Fernando Pessoa:
Chi può conoscere, tra tanto errare, di modi di sentirsi, l’esatta forma che ha di se stesso?
(Pessoa 2015, 444).
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