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15 Maggio 2023

IL CASO DI ALFREDO COSPITO E LA STORIA DEL 41 BIS

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Alfredo Cospito è ritenuto uno degli elementi di spicco del mondo anarchico torinese in quanto militante attivo da metà degli anni Novanta ed è tra i creatori della FAI, la Federazione Anarchica Informale. Nel 2014 viene condannato per aver gambizzato due anni prima a Genova il dirigente dell’Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi.

Nel 2017, mentre scontava la pena di 10 anni per il precedente reato, viene accusato di aver messo due bombe artigianali a basso potenziale in un cassonetto davanti alla Scuola Allievi dei Carabinieri di Fossano, esplosi nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006, senza causare né morti né feriti. Secondo i giudici però, il fatto che non ci siano state vittime è stato solo casuale e perciò l’hanno condannato a vent’anni di reclusione, con l’accusa di strage. In seguito a questa condanna viene inserito in un circuito penitenziario ad alta sicurezza per reati associativi, con una sorveglianza molto stretta ma con la possibilità di mantenere alcune libertà fondamentali, come la possibilità di comunicare con l’esterno, scrivere articoli per riviste anarchiche, ricevere corrispondenza, usufruire di colloqui in presenza e telefonici, così come partecipare a momenti di socialità ed avere accesso alla biblioteca dell’istituto penitenziario.

Dopo questa prima sentenza, il Procuratore Generale della Repubblica si è appellato alla Corte di Cassazione sostenendo che quella perpetrata da Cospito non è una strage comune, bensì politica come recita l’art. 285 del Codice Penale.

Per contestualizzare, l’articolo 285 non è stato applicato né per le stragi di Capaci e via d’Amelio, dove persero la vita i giudici Falcone e Borsellino per mano della mafia, né per quella della stazione di Bologna, dove morirono 80 persone e che viene considerata storicamente uno degli atti terroristici più gravi del secondo dopoguerra, perpetrato dal gruppo neofascista NAR. In tutti questi casi venne applicato l’articolo 422, di “strage comune”.

Questa nuova decisione ha portato ad un inasprimento della condanna, da 20 anni all’ergastolo ostativo, che non permette di godere di alcun beneficio per il detenuto: niente liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio né semilibertà. La pena non può essere in nessun caso mutata o abbreviata.

A questo si aggiunge la reclusione in regime 41 bis, detto anche “carcere duro”, cominciata nell’aprile 2022 nel carcere di Bancali a Sassari. L’applicazione di tale misura è stata decretata dal Ministero della Giustizia, che ha stabilito che il detenuto è “in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”, giustificando così l’ulteriore condanna. Il 20 ottobre 2022 Alfredo Cospito ha iniziato a protestare contro il regime speciale a cui è sottoposto attraverso uno sciopero della fame continuato fino ad aprile 2023, di cui ancora non sappiamo quali saranno i prossimi sviluppi.

Come dichiarato da un comunicato stampa del Comitato Nazionale per la Bioetica riunitosi il 6 marzo 2023 , «lo sciopero della fame è espressione di autodeterminazione della persona: forma di testimonianza e protesta non violenta a difesa di ideali, diritti, valori e libertà. Lo sciopero della fame rappresenta dunque un modo, sia pure estremo, di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su situazioni ritenute ingiuste o su diritti che si desidera rivendicare. Un tale comportamento esprime quindi una libertà morale del soggetto, che rappresenta quel «residuo tanto più prezioso, in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale (sentenza della Corte Costituzionale n. 349 del 1993)» [fonte].

Con la reclusione al 41 bis, Cospito ha perso la possibilità di avere legami con l’esterno, non ha accesso alla biblioteca dell’istituto e può vedere solo gli altri detenuti del regime speciale, a gruppi di massimo quattro persone e per due ore al giorno. Il resto del tempo è fatto di sbarre, muri e pensieri che non trovano lo spazio di esprimersi.

La sua reclusione e l’inizio di questo sciopero hanno contribuito a far innescare la miccia del suo caso. In un primo momento sono comparse scritte sui muri, si sono organizzate manifestazioni, poi alcuni individui e appartenenti a gruppi anarchici sono passati ad attentati dimostrativi. A questo proposito, l’8 dicembre 2022 il gruppo anarchico “Carlo Giuliani Revenge Nuclei” rivendica un attacco incendiario alle auto della funzionaria dell’Ambasciata d’Italia ad Atene Susanna Schlein, sorella di Elly Schlein che sarebbe stata eletta Segretaria del PD alla fine di febbraio del 2023. Nel mese successivo attacchi analoghi sono stati indirizzati al Consolato Generale d’Italia a Barcellona e Berlino.

Il caso di Cospito ha raggiunto un’ampia attenzione mediatica e rappresenta un caso unico di detenuto relegato al 41 bis, in quanto risulta il primo anarchico a dover scontare questa pena. Anna Beniamino, co-imputata nel caso della Scuola Allievi dei Carabinieri di Fossano e condannata a 29 anni di carcere, ritiene che si tratti di un processo alla loro identità di anarchici, piuttosto che rispetto ad una strage che non ha fatto danni né vittime.

Il tema ha carattere generale. Sono in tanti nelle carceri italiane a vivere in silenzio il “carcere duro”. Secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati ad ottobre 2022, i detenuti al regime del 41 bis sono 728. La stragrande maggioranza di questi detenuti sono uomini, ben 716, mentre le donne sottoposte al regime speciale sono 12. In totale, si tratta dell’1,6% delle persone detenute in Italia, che sono circa 56mila. Come dichiarato da Cospito, la sua è una lotta per far sapere a tutti cosa significa essere condannati a questa pena, facendosi portavoce anche di quei detenuti che non hanno sfondato la barriera mediatica.

La misura speciale del 41 bis è stata introdotta nell’ordinamento italiano dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663, con un carattere emergenziale, in seguito alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, nel tentativo di neutralizzare la pericolosità di detenuti che, mantenendo il legame con associazioni criminali di stampo mafioso, continuavano ad esercitare ruoli di comando e controllo anche dal carcere. Fin dalla prima formulazione erano stati individuati da una parte di società civile (giuristi, avvocati, giornalisti) dei caratteri illiberali in questa misura, da cui il nome “carcere duro” attribuitogli dai giornalisti dell’epoca. Nonostante la sua natura provvisoria il 41 bis viene prorogato varie volte negli anni, fino ad essere reso definitivo nel 2002 (Legge 23.12.2002, n. 279) dalla Corte Costituzionale che gli attribuisce la fisionomia che ha oggi. Riducendo, quasi eliminando, i contatti con l’esterno, il regime detentivo speciale mira a neutralizzare l’influenza dei detenuti nelle organizzazioni di appartenenza, rendendo effettiva la funzione della pena detentiva.

Secondo la legge, i detenuti al 41 bis sono reclusi obbligatoriamente in una cella singola e hanno due ore al giorno di socialità in gruppi composti al massimo da quattro persone appartenenti allo stesso programma. Viene consentito un solo colloquio al mese dietro ad un vetro divisorio (tranne per i minori di 12 anni), della durata di un’ora, il detenuto è videosorvegliato e, se ritenuto necessario, ascoltato da un agente della Polizia Penitenziaria. Per rendere un’idea delle differenze, per i detenuti “comuni” sono previsti sei colloqui al mese senza barriere divisorie. In sostituzione del colloquio in persona, i detenuti al 41 bis possono essere autorizzati a fare un colloquio telefonico con i familiari ma solo dopo i primi sei mesi di applicazione del regime.

Queste restrizioni, per quanto considerate necessarie dallo Stato, mettono in discussione i limiti entro i quali i diritti dell’individuo vengono rispettati. Considerando che sia la Costituzione Italiana sia la Corte europea dei Diritti dell’Uomo confermano che è compito dello Stato applicare misure necessarie per la protezione della collettività, è anche vero che è suo dovere proteggere gli individui, anche nel caso in cui si tratti di persone che hanno commesso crimini e siano state giudicate colpevoli di fronte alla legge.

La decisione di chi deve sottostare a questo tipo di regime avviene in seguito ad un decreto motivato del Ministero della Giustizia, su proposta del Pubblico Ministero incaricato delle indagini e previa consultazione con la Direzione Nazionale Antimafia e la Polizia di Stato.

Secondo il diciottesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dell’osservatorio Antigone, per essere condannati al 41 bis ci vogliono due presupposti. Il primo “oggettivo”, ossia «per un delitto commesso con le condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso». Ci sono anche altri delitti elencati nell’articolo, ma nella prassi – ovvero nel 90% dei casi – è una misura applicata principalmente al primo caso riferito.  Il secondo presupposto è “soggettivo”, ossia che ci siano «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva» (cliccare qui per approfondire). Solo l’effettiva pericolosità del detenuto rende legittima l’applicazione di una misura che incide così pesantemente sui diritti dell’individuo.

Alfredo Cospito rappresenta il primo caso di un detenuto che viene condannato al “carcere duro” per motivi di associazione politica. Come ha esplicitato lo stesso Cospito in una lettera indirizzata al suo avvocato e che è poi stata resa pubblica, «non c’è insulto peggiore per un anarchico che accusarlo di dare e ricevere ordini» e aggiunge «non mi sono mai associato ad alcuno e quindi non posso distaccarmi da alcuno» [fonte].
Gli anarchici ritengono che il fine ultimo del 41 bis, ossia quello di impedire ai detenuti di continuare a coordinare le azioni delle loro associazioni criminali all’esterno, non risulta effettiva nel loro caso per la predisposizione ad agire in modo individuale e a non seguire una gerarchia, che include il caso di poter dare ordini e organizzare azioni all’esterno.

Possono sollevarsi dei dubbi sul fatto che qualsivoglia azione per essere portata a termine con successo debba avere una qualche forma di organizzazione, anche per chi si ispira alla tradizione anarchica. Sicuramente Cospito è una figura di riferimento e un attivista di rilievo nel movimento, ma così come lui stesso ha ammesso di aver commesso i crimini di cui è accusato, con dei complici e una preparazione precedente alle spalle, si è sempre dichiarato libero di agire secondo i propri principi assumendosene la completa responsabilità.

Occorre aggiungere a questo riguardo che ci sono dubbi sul fatto che, a livello operativo, sia possibile portare a termine le azioni oggetto di questi procedimenti senza una qualche forma di organizzazione, anche da parte di soggetti che si ispirano alla tradizione anarchica.

Quella del regime detentivo speciale è stata identificata negli anni come una misura “imbutiforme”, considerando che sono più le persone che ci entrano di quelle che ne escono. Anche se il limite previsto per questa pena sarebbe di quattro anni, c’è la possibilità di prolungare la condanna se ne sussistono ancora i presupposti e infatti alcuni detenuti sono stati relegati al 41 bis per più di vent’anni.

Con queste modalità di detenzione, sorge spontanea la necessità di riflettere sul rispetto dei diritti umani dei detenuti nelle carceri, che vengono messi a rischio nel momento in cui le libertà personali dell’individuo vengono drasticamente ridotte per un lasso di tempo così lungo.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha individuato diverse criticità negli anni rispetto a questa misura e ha già condannato l’Italia per l’applicazione del 41 bis. Uno di questi casi risale al 2018 e riguarda il capomafia Bernardo Provenzano. In quell’occasione i giudici di Strasburgo avevano accusato l’Italia di non aver valutato correttamente le condizioni di salute del detenuto prima di sottoporlo ad un regime così pesante.

A fare ricorso erano stati il figlio e la compagna di Provenzano, affermando che nonostante la decadenza fisica e mentale non sia stato possibile far uscire il detenuto dal 41 bis fino al momento della morte. Con un’altra sentenza nel 2018, sempre riferita a questo caso, la CEDU ha ritenuto l’Italia responsabile di aver violato l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nel quale si afferma che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti disumani o degradanti».  Anche i controlli sulla posta del detenuto vengono ritenuti contrari all’art. 8, che difende il diritto al «rispetto della vita privata e familiare». Nonostante questi richiami, il 41 bis non è mai stato totalmente condannato da parte dalla CEDU, ma alla luce della più recente giurisprudenza in materia, si può ipotizzare un possibile cambiamento. La risposta dell’Italia a tali sentenze non è stata positiva, creando anzi un’ondata di “populismo penale”, accusando i giudici della Corte EDU di non comprendere la pericolosità e l’importanza della lotta alla criminalità organizzata, che giustifica l’esistenza e la necessità del 41 bis [fonte].

La corte appoggia il principio secondo cui un regime detentivo di rigore che implichi una forma di isolamento, anche se soltanto relativo, non può essere imposto a tempo indeterminato, per gli effetti dannosi che ne possono derivare sulla salute fisica e psichica del detenuto – come evidenziato dal caso Öcalan c. Turchia. Allo stesso tempo, se un individuo rimane pericoloso lo Stato deve assicurarsi di agire in maniera adeguata, possibilmente trovando soluzioni alternative all’isolamento prolungato e al “carcere duro”. La Costituzione Italiana sancisce all’art. 27 co. 3 che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato», ma nel caso del regime speciale questa funzione fondamentale è per lo più ignorata. È necessario trovare un equilibrio tra le esigenze di prevenzione della criminalità e la tutela dei diritti fondamentali della persona.

In aggiunta alle critiche mosse da Strasburgo, il primo marzo 2023 è arrivata una richiesta da parte dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani di applicare delle misure temporanee cautelative per Alfredo Cospito, relative alla detenzione al 41 bis.

Come riportato dalla onlus italiana A Buon Diritto, nel testo si spiega che il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha deciso di applicare una misura provvisoria che consiste nel chiedere all’Italia di assicurare il rispetto degli standard internazionali e degli articoli 7 (divieto di tortura e trattamenti o punizioni disumane o degradanti e divieto di sottoposizione, senza libero consenso, a sperimentazioni mediche o scientifiche) e 10 (umanità di trattamento e rispetto della dignità umana di ogni persona privata della libertà personale) del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici in relazione alle condizioni detentive di Alfredo Cospito, in attesa della decisione finale rispetto alla petizione individuale presentata al comitato dall’avvocato Rossi Albertini.

Dopo la fine dei ricorsi interni nel sistema giudiziario italiano, forti delle precedenti dichiarazioni e condanne verso la linea d’azione dello Stato italiano, l’avvocato difensore di Cospito, Flavio Rossi Albertini, ha annunciato durante una conferenza stampa in Senato tenutasi il primo marzo di voler fare ricorso alla CEDU, con la possibilità di chiedere un provvedimento d’urgenza.

Osservatorio Repressione, un’associazione di promozione sociale, ha pubblicato il testo integrale di una delle lettere che Cospito ha scritto dal carcere a fine gennaio, in cui descrive la sua situazione come quella di un uomo «seppellito vivo in una tomba, in un luogo di morte» e aggiunge: «Non posso vivere in un regime disumano come quello del 41 bis, dove non posso leggere quello che voglio, libri, giornali, periodici anarchici, riviste d’arte e scientifiche, di letteratura e di storia. Un regime dove non posso aver alcun contatto umano, dove non posso più vedere o accarezzare un filo d’erba o abbracciare una persona cara. Un regime dove le foto dei tuoi genitori vengono sequestrate».

A marzo 2023 il detenuto è stato condotto per un breve periodo nel reparto di medicina penitenziaria dell’ospedale San Paolo di Milano, così che le sue condizioni di salute potessero essere sempre monitorate, ma la richiesta di poter scontare la pena ai domiciliari presso la casa della sorella, presentata per gravi motivi di salute dagli avvocati difensori, Maria Teresa Pintus e Flavio Rossi Albertini, è stata rigettata.

Le misure cautelative richieste dall’ONU e dai difensori di Cospito sono da attuare prima che succeda qualcosa di irreparabile. Quello di Cospito ormai non è più soltanto un caso giudiziario, ma anche politico. Bisogna chiedersi se lo Stato italiano davvero crede più pericoloso far uscire un detenuto dal regime speciale, considerato da tanti una misura illegittima e non rispettosa dei diritti dell’individuo, piuttosto che vederlo morire al suo interno. Vista l’attenzione mediatica e le richieste sia della CEDU che dell’ONU riguardo a questo caso, si spera che l’Italia prenda dei provvedimenti per allinearsi alla richiesta di questi due organi internazionali. In Italia gli organi di garanzia funzionano, ma se in questo caso si manifestasse  la stessa indifferenza rispetto ai rapporti dell’ONU che è tipica di regimi di altro tipo, andrebbe a crearsi un grave precedente, a cui si aggiungerebbe un’ulteriore condanna se Cospito dovesse morire in carcere in seguito allo sciopero della fame e dell’assenza delle risposte che questo sciopero ha lo scopo di ottenere.

Bisogna ricordare che oltre alle problematiche riguardanti il 41 bis, la situazione delle carceri italiane e dei detenuti al loro interno non è sempre stata delle migliori. L’Osservatorio Antigone ha riportato che secondo gli ultimi dati dell’OMS risalenti al 2019, i casi di suicidio tra i detenuti risultano 13 volte di più rispetto alla popolazione libera. Il report dell’Osservatorio ipotizza che il maggior numero di casi di suicidio possano essere influenzati dalla presenza di gruppi vulnerabili nelle carceri, così come di persone in condizioni di marginalità, di isolamento sociale e di dipendenza. Nonostante questo, numeri così alti non possono rappresentare la normalità all’interno del sistema carcerario italiano e dovrebbero essere predisposte delle nuove misure affinché la sanità fisica e mentale dei detenuti venga sempre più tutelata. Serve un modello di carcere che non sia solo un luogo di detenzione, ma in cui le persone al suo interno possano affrontare un percorso personale verso un cambiamento che abbia come fine il reinserimento nella società da cui sono stati momentaneamente sospesi per i reati che hanno commesso. È fondamentale che un detenuto, per quanto grave sia il motivo che lo tiene in carcere, possa scontare la sua pena nel pieno rispetto di tutti i suoi diritti in quanto individuo, mantenendo sempre la sua dignità e con la possibilità di cambiare condotta rispetto al passato. Se questi presupposti vengono a mancare, il carcere si trasforma solo in un luogo di reclusione e sofferenza, nel quale i detenuti rischiano di essere portati al limite della sopportazione delle loro esistenze.

Cospito ha dichiarato di essere pronto a morire, «non perché non amo la vita, ma perché quella a cui sono condannato non lo è più». L’anarchico si dice «convinto che la mia morte porrà un intoppo a questo regime (il 41 bis, ndr) e che i 750 che lo subiscono da decenni possano vivere una vita degna di essere vissuta, qualunque cosa abbiano fatto» [fonte].

Il 18 aprile 2023 il caso Cospito è approdato alla Corte Costituzionale, con un’udienza pubblica riguardante la possibilità di concedere o meno delle attenuanti rispetto alla condanna per l’attentato davanti alla Scuola allievi carabinieri di Fossano [fonte].

In seguito all’udienza, il divieto alle attenuanti nei casi di Cospito e Beniamini, citata in precedenza in quanto sua complice nell’attentato, è stato dichiarato “illegittimo” dalla Consulta. All’indomani della decisione, secondo cui la pena potrebbe ridursi ad un periodo tra i 20 e i 24 anni annullando l’ergastolo, Cospito ha deciso di interrompere lo sciopero della fame che ha portato avanti per quasi sei mesi. Lui stesso ne ha dato la comunicazione, compilando un modello prestampato a disposizione dei detenuti. Lo sciopero della fame portato avanti da Cospito è stato uno dei più lunghi mai realizzati in Italia, ed ha causato al detenuto una perdita di peso repentina (50 chilogrammi), da cui sono derivati diversi problemi cardiaci e neurologici che ora andranno seguiti con molta attenzione dai medici.

Nello stesso giorno, l’avvocata Antonella Mascia ha reso pubblica la decisione di fare un nuovo ricorso alla Corte di Strasburgo contro il 41bis. Tra i diritti violati viene sottolineato l’art. 3 della CEDU, che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante. L’avvocata Mascia argomenta questa decisione dichiarando che “il regime differenziato applicato a Cospito è disumano per il suo carattere afflittivo, la sua illegittimità e sproporzione” [fonte]. Il ricorso verrà esaminato nell’arco di 2 o tre anni, tempi che non possono convivere con uno sciopero della fame, mentre la decisione di Strasburgo merita di essere attesa.

In 181 giorni, Cospito ha usato il suo corpo come mezzo di lotta e di protesta, e grazie a questa sua forma di resistenza ha portato argomenti scomodi, come il carcere e il 41 bis, nelle case delle persone, e ne ha fatto parlare. Grazie alla sua vicenda, il 41 bis è sempre meno tollerato, da un’opinione pubblica che in questi mesi ha svolto un  ruolo attivo nel supportare la sua lotta e ne ha aumentato il dibattito [fonte].

Come ha dichiarato l’avvocato Alberto Rossi in un’intervista ad AGI, la notizia dell’interruzione dello sciopero della fame è tutt’altro che una sconfitta. Sono stati raggiunti tanti obiettivi, primo tra tutti quello di diffondere tra giornalisti, attivisti e cittadini un discorso informato e critico, facendo conoscere ad un pubblico più ampio l’incompatibilità del 41 bis coi prinicipi di umanità della pena e quindi con la Costituzione antifascista.

Un’altra vittoria arriva con la decisione della Corte che ha dichiarato incostituzionale non prevedere le attenuanti anche per chi è recidivo ed è accusato di reati gravi come la strage politica, così che per Cospito e per chi come lui ci sarà la possibilità di evitare l’ergastolo ostativo.

Nel frattempo, l’avvocato Rossi Albertini insieme all’avvocata Antonella Mascia sosterranno ancora l’abolizione del 41 bis davanti alla CEDU, continuando a difendere il caso di Alfredo Cospito, che non si è lasciato piegare dal carcere duro e dalla reclusione, lasciandosi quasi morire pur di difendere i suoi diritti e di tutti quelli che come lui si trovano a dover scontare pene che non rispettano i diritti degli individui, che dovrebbero invece essere protetti dalle leggi e dalla Costituzione, a qualunque condizione.

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