Le strade della solidarietà si sono incontrate a Napoli dal 1 al 4 settembre 2022 per lo svolgimento di A Bordo Fest!, il primo festival della ONG italiana Mediterranea Saving Humans, che dal 2018 si occupa di soccorrere le persone in movimento lungo le frontiere, sia di terra che di mare.
Durante il festival si sono susseguiti workshop, dibattiti e concerti nei quali esponenti di varie associazioni, attivisti e artisti hanno dato il loro contributo per creare dei momenti di divulgazione e discussione su temi profondamente attuali quali: la questione frontaliera, la situazione di migranti e rifugiati che affrontano il viaggio per raggiungere l’Europa.
Secondo i dati raccolti da UNHCR, i migranti che tentano la traversata del Mediterraneo sono in calo rispetto ai picchi raggiunti tra il 2011 e il 2015 ma i numeri dei morti continuano ad aumentare. Sempre considerando i report di UNHCR, nel 2021 sono stati registrati circa 3.231 morti o dispersi in mare nel Mediterraneo e nell’Atlantico nord-occidentale. Nel 2020 il numero registrato corrispondeva a 1.881, 1.510 nel 2019 e oltre 2.277 nel 2018 (Osservatorio Diritti). A questi numeri vanno aggiunte le persone che hanno perso la vita nella prima parte del loro viaggio, che nella maggior parte dei casi ha avuto inizio ben prima di raggiungere il Mediterraneo, e che è più difficile da tracciare. Per coloro che partono dall’Africa Sub-Sahariana un ostacolo altrettanto pericoloso e mortale è rappresentato dalla tratta di terra, o meglio di sabbia, del deserto del Sahara. Per attraversarlo, le persone si mettono nelle mani di trafficanti che li caricano su furgoni sovraffollati. Cadere da un veicolo in corsa nel deserto è mortale quanto cadere in acqua da un’imbarcazione, senza contare la disidratazione, la malnutrizione e le violenze che possono essere subite durante il viaggio.
Una volta arrivati nel Mediterraneo, la pericolosità del viaggio si amplifica a causa della militarizzazione sempre maggiore delle frontiere, messa in atto dall’Europa e dai suoi partner extraeuropei come Marocco e Turchia, che operano per impedire ai migranti e richiedenti asilo di entrare nei propri confini. Per fare questo l’Europa ha creato un vero e proprio esercito di frontiera, operante dal 2000 e rinnovato più volte. Si tratta di Frontex, che è stata ampliata e rafforzata due anni fa trasformandosi in Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera, un partner fondamentale dell’Unione Europea nella lotta contro le persone in movimento, che, con un budget da 5.6 miliardi di euro, ha in gran parte sostituito il ruolo delle guardie costiere e frontaliere statali. Il ruolo di Frontex è quello di intercettare e respingere i migranti che cercano di raggiungere le coste europee e di attraversare le frontiere di terra, infrangendo vari diritti fondamentali, tra cui quello di non-respingimento. Secondo il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra del 1951 per i rifugiati, le richieste di asilo non possono essere rifiutate prima di essere prese in considerazione, e una persona non può essere riportata in un paese in cui rischia tortura, persecuzione o morte, o se il paese non si trova sulla lista dei paesi sicuri. Frontex è stata più volte criticata da ONG e attivisti, fino a creare un vero e proprio movimento chiamato Abolish Frontex, che opera proprio per abolire tale agenzia europea e per mettere fine al sistema che rappresenta. Il manifesto di Abolish Frontex reclama la regolarizzazione dei migranti e il diritto alla libertà di movimento per tutti, mettendo fine alla militarizzazione delle frontiere, alla vigilanza sulle persone che le attraversano, ai respingimenti, alle deportazioni e alle detenzioni.
Un altro elemento che ha reso ancora più pericolosa la tratta marittima del Mediterraneo centrale e che è stata tra i principali argomenti trattati durante i vari incontri e dibattiti di Mediterranea, è quello dei recenti accordi Italia-Libia, conosciuti in termini ufficiali come Memorandum d’intesa tra Italia e Libia.
Non è la prima volta che Italia e Libia siglano accordi di amicizia e collaborazione. La storia dei due paesi inizia ad incrociarsi nel 1911, quando l’Italia tenta di colonizzare la Libia.
La riuscita di tale operazione era stata ipotizzata in tempi brevi, poiché il territorio libico veniva considerato una empty land, una terra di nessuno, senza tenere conto delle tribù locali che abitavano quei luoghi, all’epoca sotto il potere Ottomano. La risposta di tali popolazioni non tardò ad arrivare e i coloni italiani si trovarono sin da subito in difficoltà nei confronti di una resistenza così agguerrita. Gli abitanti del luogo non volevano rinunciare in alcun modo alla loro terra e così scoppiò un conflitto interno al paese che causò tantissime vittime e violenze da entrambe le parti, comprese fucilazioni e impiccagioni da parte degli italiani nei confronti dei ribelli libici. Con l’ascesa del fascismo, la situazione divenne ancora più critica, tanto che tra il 1923 e il 1936 si assistette ad un crollo demografico della popolazione libica, causato sia dai morti in combattimento che dai danni inflitti al paese sul piano economico e sanitario dovuti ad una serie di deportazioni senza precedenti. Parte della popolazione venne rinchiusa in dei veri e propri campi di concentramento dove i detenuti, malnutriti e maltrattati, furono costretti a svolgere estenuanti lavori forzati, trascinandosi ogni mattina all’appello a cui diverse persone non si presentavano, poiché morte di stenti e malattie nell’arco della giornata precedente.
La fine della colonizzazione italiana in Libia avvenne conseguentemente alla vittoria degli inglesi nel 1943, a seguito della fine della Seconda guerra mondiale. Da quel momento il paese si è avviato verso una complicata ricostruzione. L’Italia aveva interesse a mantenere buoni rapporti con la nuova governance del paese, poiché sul territorio erano rimasti numerosi cittadini italiani e il governo temeva ripercussioni nei loro confronti. Per regolare i rapporti tra i due paesi venne stipulato il trattato italo-libico di collaborazione del 1956, il quale garantiva agli italiani presenti sul territorio di continuare a vivere liberamente in Libia in cambio di 5 milioni di sterline offerte dall’Italia per la ricostruzione del paese che aveva contribuito a distruggere.
Negli anni si sono susseguiti vari tipi di collaborazione tra i due governi, soprattutto nell’ambito energetico, petrolifero su tutti, e in tempi più recenti anche nel contesto dei flussi migratori. Nel 2004 il leader libico Muhammar Gheddafi, che aveva preso il potere nel 1961 in seguito ad un colpo di stato, divenne partner dell’Unione Europea nella lotta all’immigrazione clandestina, arrivando ad essere invitato a Bruxelles dal presidente della Commissione Europea Romano Prodi. Mentre Gheddafi si impegnava a bloccare le vie di transito dei migranti, l’UE prometteva alla Libia la revoca dell’embargo sulle armi in vigore dal 1986, assicurando una totale libertà di rifornimenti militari al paese. Nel 2007 la Francia ne approfittò subito per firmare un memorandum di cooperazione con la Libia in cui i due stati si impegnavano in negoziati esclusivi per equipaggiamenti militari dal valore di più di 5 miliardi di euro. L’Italia nel 2008 seguì il suo esempio, firmando a Bengasi un trattato di amicizia, partenariato e cooperazione stipulato tra il Primo Ministro Silvio Berlusconi e il Presidente Gheddafi. Tale accordo servì anche per appianare definitivamente i rancori derivanti dal passato coloniale, che ha lasciato segni che l’Italia non ha mai realmente contribuito a risanare.
Con le rivolte scoppiate in Libia nel 2011 in seguito all’ondata delle primavere arabe e con la conseguente cattura e morte di Gheddafi, inflitta da parte dei ribelli libici, l’esistenza di tale trattato venne criticata da diverse parti in Italia, tra chi voleva mettervi fine e chi diceva che l’accordo era tra stati e non leader politici e che quindi dovesse essere mantenuto. L’estinzione del trattato italo-libico poteva avvenire solo in caso di “violazione sostanziale”, come stipulato dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Per arrivare ad una sospensione del trattato l’Italia avrebbe dovuto denunciare le violazioni dei diritti dell’uomo da parte del regime libico, azione che non è mai avvenuta. In seguito alle violenze scaturite dalle proteste, la situazione in Libia si è complicata ulteriormente, con la nascita di due governi rivali che hanno portato nuovi scontri e violenze causando la fuga di un numero sempre più elevato di persone dal paese, le quali hanno tentato la traversata verso l’Europa. Nel 2016 il Governo italiano firmò un concordato con il Governo di Accordo Nazionale libico, in seguito all’esigenza di contrastare l’aumento di migranti in partenza dal paese.
Tale concordato viene seguito dal Memorandum di intesa Italia-Libia, firmato a Roma il 2 settembre 2017, che si colloca nel settore della cooperazione e dello sviluppo confermando la volontà di contrastare l’immigrazione illegale, il traffico di esseri umani e il contrabbando, andando a rafforzare la sicurezza delle frontiere tra la Libia e l’Italia. Tali accordi hanno durata di tre anni e sono già stati rinnovati una volta.
Secondo il Memorandum, i mezzi per la lotta all’immigrazione clandestina e per il controllo delle frontiere terrestri e marittime della Libia vengono spesati per il 50% dallo Stato italiano, e per l’altro 50% dall’Unione Europea. Questa cooperazione si concretizza nella costruzione di campi di accoglienza sul territorio libico, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, nei quali dovranno soggiornare i migranti in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine. Dal momento in cui per attuare queste due soluzioni c’è bisogno del consenso degli stati verso cui i migranti verranno reindirizzati, parte della collaborazione prevede anche di stipulare degli accordi con i paesi di origine affinché accettino il rimpatrio dei propri cittadini.
Il testo dell’articolo 1 del Memorandum prevede che l’Italia s’impegni a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati di contrastare l’immigrazione irregolare, insieme con la formazione del personale libico all’interno dei centri di accoglienza e della guardia costiera.
Mentre i suddetti centri di accoglienza restano attivi grazie ai finanziamenti congiunti di Italia ed Europa, al festival di Mediterranea hanno partecipato diversi ragazzi che da quei campi ci sono passati, e che come tanti altri hanno denunciato essere, in realtà, luoghi di tortura e detenzione.
Ibrahima Lo ha partecipato al dibattito di apertura del festival in quanto testimone diretto di un soccorso in mare da parte di Mediterranea. Prima di scappare dalla Libia verso l’Italia è stato tra coloro che hanno vissuto i campi libici, che lui definisce lager e prigioni. Arrivato in Europa, è rimasto sconvolto dalle dichiarazioni di alcuni politici italiani che si dimostrano soddisfatti dei risultati del Memorandum. Per la sua esperienza tali accordi hanno significato morte e sofferenza. Nel suo libro Pane e Acqua, edito da Villaggio Maori, racconta il suo viaggio dal Senegal all’Italia, passando attraverso la Libia. Il suo è un racconto personale, a cui si intrecciano le storie di tanti altri, di cui è portavoce con la sua scrittura.
La migrazione si fa storia collettiva e durante il festival intervengono anche altri ragazzi che hanno vissuto esperienze diverse, ma con elementi comuni.
David Yambio e Lam Magok intervengono insieme sul palco dedicato alla discussione degli accordi Italia-Libia. David e Lam sono arrivati da pochi mesi in Italia: si sono conosciuti in una prigione in Libia in cui hanno condiviso la detenzione con criminali e presunti terroristi, per la sola colpa di aver intrapreso il viaggio verso l’Europa.
David Yambio ha passato quattro anni nell’inferno libico. Quattro volte ha cercato di scappare e per quattro volte è stato catturato e portato indietro dalla guardia costiera libica. Insieme a Lam è tra i fondatori di Refugees in Libya, un’associazione di rifugiati che si trovano in Libia, che lottano per un trattamento equo e per il riconoscimento dei loro diritti, attraverso cui le persone direttamente colpite dalle violenze perpetrate dal governo possano esprimere la loro voce e la loro opinione liberamente e senza filtri. I punti fondamentali del movimento sono ben chiari: essere rifugiati non è un crimine, chiedere asilo è un diritto umano, così come lo è il diritto alla vita. I membri dell’organizzazione hanno anche partecipato attivamente al presidio iniziato nell’ottobre 2021 che si è svolto davanti alla sede dell’UNHCR a Tripoli, per chiedere protezione e un piano di evacuazione dal paese, per una durata di 100 giorni prima che la zona venisse violentemente sgomberata il 10 gennaio.
Tra i manifestanti sono stati registrati almeno 600 arresti, secondo le ONG Norwegian Refugee Council (Nrc) e International Rescue Committee (Irc). In quell’occasione oltre cinque mila migranti sono stati trasferiti in centri di detenzione in cui le condizioni erano già pessime prima del loro arrivo e che ha causato un ulteriore sovraffollamento. Uno di questi campi è quello di Ain Zara, dove hanno avuto luogo varie proteste a causa delle terribili condizioni. Anche in questo caso Refugees For Libya fa appello all’UNHCR e all’Europa per mettere fine a queste ingiustizie e assicurare i diritti fondamentali che spettano alle persone detenute.
In seguito a questi avvenimenti David e Lam, ricercati dalle forze libiche per il loro attivismo, sono riusciti a raggiungere l’Italia via mare senza essere intercettati. Ora che sono qui il loro lavoro non si è fermato. L’obiettivo è quello di far conoscere a tutti le condizioni che loro e i loro fratelli hanno vissuto e continuano a subire sul territorio libico e l’inferno che questa tratta porta con sé. La loro lotta non si fermerà finché le persone non verranno trasferite in dei luoghi sicuri e finché non avranno accesso ai diritti fondamentali.
Secondo un report di Humans Rights Watch del 2022, l’organizzazione internazionale per la migrazione (IOM), ha stimato la presenza di 212.593 sfollati interni libici, insieme a 610.128 migranti provenienti da altri paesi, senza contare coloro che non sono registrati all’ufficio dell’UNHCR e che quindi non risultano in questi numeri. L’alta presenza di sfollati interni è un altro dei fattori che ci permettono di capire che la Libia non è un paese sicuro, nemmeno per i suoi cittadini.
Durante la manifestazione in Piazza del Plebiscito il 3 settembre 2022, sia David che Lam hanno condiviso ancora una volta la loro testimonianza, denunciando gli accordi Italia-Libia e le azioni dei governi europei, che stanno finanziando la morte e le torture per migliaia di persone, al fine di salvaguardare la cosiddetta fortezza Europa. Le loro voci parlano per tutti i rifugiati, per i morti in mare, per le donne stuprate e i loro bambini. Durante la manifestazione si sono rivolti ai governi europei per chiedere di non negoziare e di non fare accordi con un governo criminale. Hanno ribadito che la Libia è un paese dove rischi di essere arrestato in qualsiasi momento senza apparente motivo, dove non c’è libertà. È un paese in cui temi di essere rapito improvvisamente o colpito a morte da un colpo di pistola. La Libia è un paese dove non hai tempo di sognare, perché vieni ucciso prima.
Per questo, dice Lam, dobbiamo tutti chiedere al governo italiano e all’Europa di smettere di finanziare la Libia sottolineando l’importanza di creare e mantenere viva una rete tra attivisti in Libia e in Europa, come quella che è stata presente al festival di Mediterranea, per continuare a salvare persone e lottare per i diritti umani, affinché nessuno venga dimenticato.
Bibliografia
- Ahmida, A.A. (2020) Genocide in Libya: Shar, a Hidden Colonial History. Routledge. Available at: http://gen.lib.rus.ec/book/index.php?md5=81A915CD078B559B3B2EE6E0A587BC3A (Accessed: 3 November 2023).
- Salerno, E. (2005). Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (1911–1931), Milano, Manifestolibri.