Angelo Ventrone insegna storia contemporanea all’Università di Macerata e dirige il dipartimento di Scienze politiche, della comunicazione e delle relazioni internazionali dell’ateneo. È uno dei maggiori contemporaneisti italiani e si è occupato di movimenti sociali e di comunicazione politica. Dal febbraio 2023, il Prof. Ventrone è direttore responsabile di Ātman. Ubaldo gli ha proposto di parlarci un po’ di se stesso e dei suoi interessi.
Angelo Ventrone parla alla Camera dei Deputati nel corso della celebrazione del Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo, 9 maggio 2012.
Caro Angelo, quando è nata la tua passione per la storia?
Molto presto, è quasi una tradizione familiare. Anche mio padre aveva la passione per la storia e me l’ha trasmessa. Poi sono stato fortunato ad avere avuto una brava maestra alle elementari, anche lei appassionata di storia. Mi occupo da anni di storia contemporanea, ma la mia prima passione è stata la storia di Roma antica. Mi affascina, allora come oggi, osservare e capire le soluzioni che i nostri predecessori di tanti secoli fa avevano trovato a problemi che sono comuni a tutte le epoche. Ma la storia non è la sola passione intellettuale della mia vita. Da ragazzo mi piaceva anche l’etologia. Quando si trattò di scegliere a quale facoltà iscrivermi, sono rimasto indeciso fino all’ultimo e alla fine ho capito che l’uomo, in fondo, è l’animale più interessante.
Tu partecipi al dibattito degli storici italiani, prima come studente e poi come studioso, dalla fine degli anni Ottanta. Come si è evoluta la disciplina in questi decenni?
La prima grande evoluzione avvenne proprio negli anni in cui ero studente a Bologna, dove seguivamo figure del calibro di Carlo Ginzburg. In quel periodo la storiografia italiana cominciò una profonda trasformazione sull’onda delle innovazioni introdotte già da decenni dalla scuola francese delle Annales. Gli storici estesero i propri argomenti di studio allargando la ricerca agli eventi non tangibili, come la storia delle passioni, delle mentalità e delle visioni del mondo che caratterizzano le diverse epoche.
In Italia queste innovazioni si sono innestate su una tradizione molto attenta alla politica, le cui dinamiche, però, si svolgono su un tempo più breve. Durante i miei anni di dottorato a Roma ho lavorato con un grande storico politico, Pietro Scoppola, e con lui ho provato a fondere queste tradizioni. Ho iniziato a studiare la politica nel tempo lungo utilizzando gli strumenti della sociologia, dell’antropologia e, ovviamente, della scienza politica. È possibile in questo modo fare la storia delle ideologie e delle tradizioni politiche su lunghi periodi di tempo. In altri termini, la politica si può osservare come un fenomeno culturale in senso antropologico.
Perché hai collocato la comunicazione politica al centro dei tuoi interessi di ricerca?
Anche in questo c’è forse l’influenza della mia famiglia. Forse non ti ho detto che mia madre insegnava storia dell’arte ed era pittrice e scultrice. La comunicazione non verbale ha una straordinaria capacità di sintesi, le immagini dicono moltissimo. Il tema della mia tesi di laurea è stato l’arrivo in Italia dei nuovi modelli di comportamento legati al modello americano, e ho usato come fonte sia i film hollywoodiani che i fotoromanzi italiani come Grand Hotel, che poi erano in gran parte disegnati anche da grandi illustratori come Walter Molino. I protagonisti di questi fotoromanzi, che nei primi anni erano quasi sempre a fumetti, avevano le sembianze dei divi di Hollywood e alimentavano il mito dell’American way of life. Studiare le immagini su carta e su pellicola ha allenato la visione per le mie ricerche successive.
Quando ho iniziato a occuparmi dei partiti politici italiani, soprattutto nella transizione fra fascismo e democrazia, ho applicato questa familiarità che avevo acquisito con i segni non verbali. Avevo sviluppato un’attenzione particolare per le immagini fisse, come i manifesti e le vignette nelle riviste di partito, e per le immagini in movimento. Più in generale, puntavo lo sguardo sulla rappresentazione che i partiti facevano di se stessi attraverso la propaganda e i riti collettivi. La finalità di quelle mie ricerche era capire come si fosse verificato il passaggio dal regime fascista alla nostra repubblica antifascista.
Ma l’utilizzo politico della comunicazione di massa non è nato con il fascismo
Certo. I giacobini francesi furono i primi a porsi il problema di comunicare alle masse per portarle dalla propria parte e lottare contro il potere aristocratico e della chiesa. Poi sono venuti i movimenti nazionalisti dell’Ottocento, soprattutto in Germania. Infine il fascismo e più ancora il nazismo hanno portato la comunicazione di massa e la sua tecnica all’apoteosi.
E nei movimenti storici di sinistra?
Qui la situazione è più complessa. L’attenzione alla liturgia politica c’è anche a sinistra, naturalmente, dove però si conserva una diffidenza verso l’uso eccessivo della propaganda. La sinistra ha fatto tradizionalmente appello al discorso razionale mentre la propaganda di massa si fonda sull’appello emotivo. La destra radicale non ha queste preoccupazioni perché ha una visione dell’uomo darwiniana, dell’uomo mosso dalle passioni.
Quindi, per tornare al secondo dopoguerra, i partiti ereditano il lascito della propaganda fascista ma si trovano a costruire l’Italia democratica facendo appello alla razionalità dell’individuo. Ciò che conta in questi anni sono le assemblee e i congressi di partito, la qualità delle discussioni e l’esercizio della democrazia di base.
Passiamo al presente. Secondo te queste riflessioni che ci proponi possono aiutarci a capire meglio la forra oscura e impenetrabile della comunicazione politica di oggi?
La prima cosa da dire è che verso la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta è cambiato tutto, si è chiusa una storia millenaria. Con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher nel 1979 e di Ronald Reagan, eletto nel 1980, è finita l’era della collettività ed è iniziata quella dell’individuo. È finito il tempo in cui si credeva che la massa potesse costruire un futuro migliore. Dagli anni Ottanta ad oggi si è imposta la visione che la politica sia incarnata nella figura del leader. Certo, c’erano stati alcuni esempi di leaderismo anche in precedenza, si pensi a Lenin o a Stalin, ma nella maggior parte dei casi i dirigenti politici erano succedanei, ciò che contava in politica era il progetto sociale, la rigenerazione collettiva.
Quindi si assiste a questa svolta verso la dimensione individuale alla quale si accompagna coerentemente un’altra svolta: la salvezza non si guadagna più sulla base di valori sociali e politici da realizzare ma coincide con il benessere. Non si basa sul futuro ma sul presente.
Non passano molti anni da questa trasformazione che compare in Italia la figura dell’imprenditore che si è fatto da solo. Negli anni Novanta, Berlusconi fonda la propria comunicazione sull’idea che il suo successo privato nel mondo degli affari è segno del successo che avrà come uomo politico. Ciò significa che la politica non ha più un progetto di società ma diventa semplice amministrazione. La trasformazione non si osserva solamente nella figura di Berlusconi. Pensa alla polemica contro la casta e contro la partitocrazia e pensa al mito dell’antipolitica, che – sia detto per inciso – è un’espressione che trovo imprecisa, sarebbe meglio dire ‘antipartitismo’.
Quindi assistiamo alla morte della politica?
No, questa trasformazione non esaurisce affatto il compito della politica.Ti sei chiesto perché la destra è vincente in Italia e in molte altre parti d’Europa e dell’occidente? Perché le destre di questi anni hanno colto una domanda di sicurezza diffusa negli strati sociali di cui la sinistra aveva tradizionalmente difeso gli interessi e promosso le aspirazioni. Si tratta delle fasce di popolazione che sentono nella loro vita quotidiana l’incertezza provocata dall’accelerazione della globalizzazione. Fenomeni come il trasferimento delle attività produttive verso i paesi con costi di produzione più bassi e l’arrivo di un gran numero di migranti fanno crescere oggettivamente la domanda di sicurezza delle classi sociali più vulnerabili. E sappiamo che quando la storia accelera il suo corso c’è sempre il rischio della fuga dalla libertà di cui scriveva Erich Fromm, secondo cui la massa si affida a una figura forte che promette di tutelare la sicurezza di tutti in cambio della rinuncia alle libertà individuali. Le destre cavalcano e a volte strumentalizzano questa domanda di sicurezza. Non è detto che abbiano risposte tangibili ed essa, ma temo che siano le sole ad averla colta davvero.