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IMPALCATURE

“Non gli era mai riuscito di concepire un personaggio o una situazione o un sentimento se non in una certa aria e in una certa luce, convinto alla fine che l’atmosfera sia ciò che è, la massa d’aria che circonda una storia. Certe volte gli bastava pensarla con intensità, senza descriverla, e allora anche l’aria e la luce finivano in quei ponteggi che servono da impalcatura a una storia e che vengono staccati e buttati via non appena sta in piedi da sola”.

Daniele Del Giudice, Atlante Occidentale, Einaudi, Milano, 1985

Il primo si è concesso facilmente, non ha opposto resistenza, si è abbandonato al traffichìo di mani estranee con la fiduciosa innocenza con cui il cane segue i movimenti del padrone; a sua discolpa, tutto quell’armeggiare e smuovere della mano straniera l’aveva colto di sorpresa, soprappensiero.

Il secondo non ha fatto in tempo a riscuotersi dal torpore del sonno, era ancora in dormiveglia quando dita guantate hanno preso a maneggiare con volgare sapienza i suoi lembi.

Il terzo, lo sapevamo tutti, era pigro per natura, non avrebbe lottato contro quell’indesiderato palpeggiare nemmeno se al termine della contesa lo avesse atteso un invitante premio. Pezzo a pezzo: toccato, brancicato, agguantato, qua e là accarezzato poi strappato e buttato via. Infine dimenticato, ogni volta dimenticato.

Mentre staccano i primi tre ponteggi osservo con avidità il buio che, come una nebbia mattutina, va a depositarsi sul mobilio in buona compagnia di vari strati di polvere. Ad ogni sostegno di acciaio divelto dai burberi operai lo sguardo si fa vorace, via via più famelico. Gli umani hanno un nome per questo sguardo bramoso, nostalgia chiamano quest’indolenza, questa tentazione di guardarsi indietro.

Ripenso al turbamento sul volto di Totò, le palpebre immobili per non disturbare la concentrazione degli occhi presi dallo scorrere di quei baci sul telo, gli stessi baci che la fede, bigotta e cieca, aveva tenuto nascosti; mi sembra quasi di risentire un effluvio di flauti mescolarsi ai tasti del pianoforte in un ondeggiare inizialmente timido che infine si abbandona e si lascia cullare dai flutti in mare aperto. Ecco dunque sopraggiungere la malinconia, il dolce languore che finisce per fotterti.

Le dita callose avvolte da guanti spessi, intanto, non la smettono di staccare i primi ponteggi, quelli piazzati in cima e che godono della mirabile vista sui tetti della città, quelli che spiano le vite degli altri senza farsi notare.

Staccano pezzi di acciaio e li manipolano senza cura, svitano bulloni e li ammassano in un angolo – travi e bulloni, corpi metallici accatastati gli uni sugli altri -, staccano svitano parlano e urlano, imprecano – imprecano spesso e volentieri -, bestemmiano Dio e i Santi, di tanto in tanto qualcuno canticchia, un altro fischietta, un altro ancora gorgheggia senza grazia alcuna, borbottano e si lamentano, si offendono l’un l’altro – per ammazzare il tempo o per capriccio, tanto per folleggiare -, tacciono solo quando in strada fa la sua comparsa una ragazza, allora si zittiscono, gli sguardi si affilano, osservano con l’attenzione dell’investigatore alla ricerca di dettagli, osservano ancora una volta prima di dire qualcosa di sconveniente, qualcuno urla frasi indecenti, un altro fischia portando le dita alla bocca, qualcun altro ancora ride di gusto.

Ma sono ingiusto, sputo su una manciata di poveri cristi lo stesso luogo comune di cui anche noi impalcature siamo vittime, lo stesso preconcetto che i più si fanno vedendoci così tarchiate e tozze, così solide e squadrate. Rozze, così ci vedete, strutture metalliche utili sì, purché provvisorie, scheletri di acciaio e ferro che celano bellezza dietro la loro greve armatura. Qualcosa da togliere, rimuovere al più presto, ponteggi da staccare e sputare.

Sappiate, miei cari passanti, che gli oggetti non difettano di carattere e quel che voi ignari, ignoranti viandanti, liquidate come zotiche impalcature, villane strutture portanti, quelle che voi giudicate sbrigativamente costruzioni grezze in realtà ascoltano e osservano forse meglio di quanto voi osiate fare.

Ma dici a me?, vorrei dire all’uomo pasciuto che passeggia con le mani unite dietro la schiena, mi fissa con avversione dal basso del suo metro e settanta e borbotta tra sé, Ma dici a me? Ehi, con chi stai parlando? Dici a me? Eh, non ci sono che io qui, paffuto signorotto col cappotto liso e le sopracciglia perennemente aggrottate.

Volgo lo sguardo alle poltrone di velluto accatastate in un angolo, le sedute consumate dal peso di tanti ometti simili a quello giù in strada. Poltrone e assi di legno attendono in un angolo di conoscere il proprio destino, si domandano se troveranno un’altra casa, altri sederi da accogliere e scaldare, altre scarpe sotto cui scricchiolare. Non li sento parlare ma immagino che le loro chiacchiere assomiglino a quelle delle vacche in docile attesa al mattatoio, mi sembra quasi di percepire l’ordito di seta e cotone che ricopre i sedili impolverati urlare Dead man walking, we got a dead man walking here!, immagino quelle parole disperdersi nella sala avvolta nel buio.

Che ne sai tu, fottuto architetto vestito di tutto punto, cosa vuoi saperne di noi altri oggetti trascurati, smontati, dimenticati e fatti a pezzi, cosa puoi saperne tu di chi con fiduciosa apprensione attende che arrivi il suo turno di andare al macero. Ascoltami, tronfio architetto dei miei stivali, ascolta questo passo che conosco a memoria: Ezechiele 25.17: Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre; perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare ed infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te. Poi spari, rumore di pallottole che riempie l’aria, una scarica di bossoli e un’esplosione purpurea sul tuo borioso completo fumo di Londra.

ADDIO AL CINEMA POLITEAMA, AL SUO POSTO NEGOZI E UFFICI

Tutto pronto per l’inaugurazione della nuova area commerciale che prenderà il posto dello storico cinema in centro. Completata l’opera di recupero dell’edificio che ha previsto la demolizione delle sale interne e la totale ricostruzione con differente destinazione d’uso. Al posto delle due sale di proiezione sorgerà un complesso commerciale composto da dieci negozi al piano terra e uffici al piano superiore. Dell’edificio originario resta solo la storica facciata, pronta a tornare visibile su Largo Stanislao Falchi a partire da domani, quando sarà completato lo smantellamento dei ponteggi che servono d’impalcatura.



AUTRICE

Giornalista, classe 1986.

Scrivo quotidianamente di energia e politiche per la sostenibilità, nel tempo libero mi dedico a racconti e romanzi. La mia opera prima si intitola “Terzo piano” (edito da Scatole parlanti) che nella quarta di copertina viene descritto “un delicato inno all’empatia verso gli ultimi”. O almeno spero.

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