Introduzione: verso un nuovo meridionalismo
Un’indagine sulla subalternità meridionale richiede di uscire dal binarismo Nord-Sud interno all’Italia per ampliare lo sguardo al sistema-mondo coloniale e alla particolare posizione in cui il Sud Italia si colloca, alle alleanze con altri Sud e alla storia – incredibilmente transnazionale – del concetto stesso di subalternità. Seguire la traiettoria della subalternità – dalla concettualizzazione di Antonio Gramsci in riferimento alla Sardegna e al Meridione, passando per i cultural studies inglesi e ai subaltern studies in India per poi tornare, soltanto a fine anni Novanta, in Italia – ci aiuta a guardare oltre i confini del dibattito nazionale e a costruire una prospettiva sul Sud italiano che sia decoloniale e all’altezza delle complessità contemporanee.
Per fare ciò, oggi serve un meridionalismo tutto nuovo, capace di superare sia la retorica dello ‘sviluppo del Mezzogiorno’ sia della sua ‘difesa’. Un meridionalismo che parte dagli studi postcoloniali e dagli studi sulla subalternità e che, intrecciandosi con il femminismo e la queerness, reclama l’autodeterminazione del Sud. Si tratta di mettere al centro i pensieri e le pratiche del Meridione, non ciò che questo dovrebbe essere o ci si aspetta che sia rispetto a un modello predeterminato di sviluppo. Ed è questo che Franco Cassano, sociologo barese, propone nel suo Pensiero meridiano (2005), la costruzione di un pensiero autonomo del Meridione che possa pensare se stesso come parte di una continuità mediterranea piuttosto che come antitesi del Nord.
“Al sud e al pensiero meridiano […] chi scrive non è arrivato dal noi, da un’improvvisa passione identitaria, ma dalla categoria dell’altro” (Cassano 2005, 10). Nominando la categoria dell’alterità come elemento chiave per pensare al Sud Italia, Cassano solleva almeno due questioni cruciali: il lungo processo di alterizzazione subito dal Meridione e la contiguità con gli altri “popoli delle periferie” (Cassano 2005, 10). Così facendo, segna la distanza tra il suo meridionalismo, che persegue alleanza e solidarietà tra diversi Sud, e un meridionalismo essenzialista d’impronta sviluppista e nazionalista. In tal senso, la complicità con altre subalternità non è un’operazione retorica o una buona intenzione, ma una scelta metodologica e politica: leggere la condizione meridionale come parte delle logiche del colonialismo globale e non come semplice anomalia interna alla nazione.
Ciò non implica equiparare il Meridione italiano agli altri Sud, quanto riflettere sulla particolare posizione del Sud italiano nel sistema-mondo coloniale. Se è quindi poco accurato – e anche pericoloso – parlare di un’indistinta subalternità dei Sud, può essere utile situarsi nel tragitto della subalternità. La posizione del Meridione è ambigua e per certi versi opaca: è un Sud liminale, in bilico tra privilegi e oppressioni, che non si integra perfettamente nei paradigmi occidentali ma rifugge anche la totale esteriorità.
Il Meridione è parte di un paese del ‘Primo mondo’ colonizzatore che ha attivamente agito violenza coloniale su altri paesi e che continua a mettere in atto politiche razziste e prevaricatrici, ma è al contempo periferia dell’Occidente, definito “colonia interna” (Verdicchio 1997) e accostato a una “razza maledetta” di lombrosiana memoria (Teti 1993). Se non è sempre chiaro se sia “responsabile” – nel senso dell’accountability di Judith Butler – usare questi termini per il Sud Italia, è sì cruciale rintracciare un rapporto di continuità tra il passato coloniale italiano, l’emigrazione, l’immigrazione e la subalternità del Sud, in quanto parte integrante della condizione postcoloniale e in quanto fenomeni chiave per la formazione identitaria della nazione italiana (Lombardi-Diop e Romeo, 2012).
Il viaggio della subalternità
Iniziare a seguire il viaggio della ‘subalternità’ implica tenere presente come, muovendosi nel tempo e nello spazio, questa parola sia cambiata, si sia arricchita, e che, per queste ragioni, parlare di subalternità meridionale oggi non può non tenere presente tutte le intersezioni che questa parola ha attraversato. Questo itinerario di viaggio, più articolato e meno lineare di quanto io possa restituire in queste pagine, è spiegato nei suoi meccanismi dallo studioso palestinese-statunitense Edward W. Said, che parla di Traveling Theory per descrivere ‘i viaggi delle teorie’ (Said 1983, 226). Secondo Said le teorie non viaggiano mai intatte: una volta incontrati nuovi contesti, cambiano forma, si piegano alle realtà locali e, proprio in queste trasformazioni, finiscono per modificare anche la loro identità originaria.
La subalternità di Gramsci tra Sardegna, Meridione e postcoloniale
È sicuramente Gramsci il primo a riflettere sulla subordinazione del Meridione e della Sardegna in termini di “colonialismo”: già nel 1920 auspica l’unione tra le masse contadine del Sud e il proletariato del Nord affinché entrambi si emancipino dall’ “industrialismo parassitario del Settentrione”, e riflette sul fatto che “la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento” (Gramsci 1991, 4). A quest’affermazione, emblematica della sua visione della relazione tra le due parti del paese, si aggiunge la consapevolezza che il proletariato settentrionale avesse ormai assorbito la retorica antimeridionalista che per tanti anni — attraverso la cultura popolare, la scienza e la stessa politica — aveva decretato l’assoluta inferiorità delle persone meridionali. Per questa ragione, esorta i compagni proletari del Nord a rifuggire i pregiudizi antimeridionalisti della borghesia settentrionale, usando la famosa metafora che ironicamente associa il Meridione a una “palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia” (Gramsci 1991, 9).
I suoi Quaderni del carcere (1975) introducono al dibattito pubblico concetti allora innovativi, come “subalternità”, “egemonia”, “rivoluzione passiva”, “società civile e politica”, i quali hanno trovato terreno fertile soprattutto in Inghilterra, in molti paesi dell’America Latina e in India, dove sono stati via via declinati in modi diversi a seconda dei contesti.
In Italia, invece, gli studi gramsciani sono stati (ri)applicati al Meridione e alla Sardegna soltanto alla fine dello scorso secolo, dopo il contributo cruciale che essi hanno dato all’estero per dare il via a movimenti culturali e campi di studio.
Cristiano Sabino (2021, 51), sottolineando l’importanza ricoperta dalla subalternità sarda nella riflessione gramsciana, sottolinea come nella sua ricezione all’estero ogni particolarità sarda sia stata sistematicamente espunta per non mettere in dubbio il carattere ‘universale’ del suo pensiero. Tuttavia, la questione sarda e meridionale è centrale nelle riflessioni del filosofo sardo: sebbene i gruppi subalterni di cui parla nei Quaderni non coincidano totalmente con specifiche classi né costituiscano un gruppo omogeneo e ben identificabile, rimandano sicuramente alle masse contadine meridionali e alla loro incapacità di costituire un’opposizione sistematica all’egemonia (Caruso 2015, 15–17).
Gramsci elabora le categorie di egemonia e subalternità per spiegare l’esercizio del potere nella società capitalista: nello specifico, l’egemonia culturale, esercitata da un gruppo di pressione guidato dalla classe intellettuale, manovra il popolo verso una determinata ideologia attraverso l’introiezione del ‘senso comune’. Stuart Hall, partendo proprio dal pensiero di Gramsci, specifica che è nel senso comune che si forma la coscienza delle masse popolari ed è proprio la sua qualità di spontaneità, trasparenza e naturalità il perno su cui le ideologie devono puntare per raggiungere la supremazia e modificare la visione che le masse hanno del mondo.
Uno dei primi viaggi all’estero della subalternità gramsciana è legato proprio a Stuart Hall: grazie alla prima traduzione inglese dei Quaderni nel 1971 e la mediazione del Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) all’Università di Birmingham — di cui uno dei membri più influenti fu proprio il sociologo giamaicano-britannico – la ricezione di Gramsci conduce alla nascita dei cultural studies. Questo ambito, in cui grande centralità hanno le categorie di razza e di genere in quanto costruzioni culturali, ispirerà molte studiose e studiosi postcoloniali – tra cui Edward Said – e darà un’importante impronta agli studi di genere.
Negli stessi anni, l’eredità gramsciana è raccolta dal collettivo Subaltern Studies Collective, fondato in India da Ranajit Guha negli anni Ottanta. Tale collettivo, composto da storiche e storici indiani, nasce con l’obiettivo di recuperare la memoria dei gruppi subalterni indiani che erano stati ignorati dalla storiografia ufficiale di matrice nazionalista e coloniale (Caruso 2015, 26). Al gruppo si unirà qualche anno dopo Gayatri Chakravorty Spivak – considerata, insieme a Said e Homi Bhabha, una delle principali esponenti degli studi postcoloniali – la quale declinerà per la prima volta la subalternità al femminile e al singolare.
La subalterna può parlare?
“La subalterna” fa la sua entrata in scena nel 1988 con l’articolo di Spivak “Can the subaltern speak?” La sua mossa innovativa – rispetto alle “classi subalterne” o “gruppi subalterni” di Gramsci, sempre nominati al plurale – consiste nell’incarnare la subalternità in un soggetto singolare di genere femminile capace di compiere scelte individuali. Spivak, partendo dalla storia della morte di Bhubaneswari Bhaduri, giovane donna indiana le ragioni del cui suicidio sono silenziate tanto dall’oppressione del patriarcato indiano quanto del colonialismo inglese, riflette sull’impossibilità della subalterna di parlare. Ciò si traduce, da una parte, nel riconoscimento dell’incapacità della subalterna di agire collocandosi al di là di un ordine simbolico precostituito e, dall’altra, nella critica al ruolo degli intellettuali che rappresentano i gruppi subalterni parlando al loro posto e pretendendo di avere uno sguardo neutro e oggettivo. La subalterna di Spivak è, dunque, paralizzata dal racconto altrui, sia quello della cultura patriarcale indiana, sia quello dei benevoli intellettuali occidentali, sia — aggiungerei — quello delle ben intenzionate femministe bianche.
Angela D’Ottavio nota che, se è vero che il capitalismo globale ha prodotto nuove e molteplici forme di subalternità, allo stesso tempo si tende sempre più ad abusare del termine, cercando “la subalterna” come un tempo si cercava “la primitiva”. È, quindi, essenziale ricordare che la subalternità appartiene a uno spazio colonizzato estremamente eterogeneo e che il rischio di compiere violenza epistemica rimane alto, soprattutto quando ci si appropria delle conoscenze e delle esperienze di gruppi sociali marginalizzati (D’Ottavio 2012, 273). In tal senso, un antidoto metodologico consiste nell’individuare l’agentività delle persone subalterne piuttosto che dedicarsi alla ricerca feticistica della subalternità. L’agentività — da agency - non indica un generico ‘agire’, ma la capacità di azione all’interno di precisi vincoli strutturali ed è collegata al concetto di location, vale a dire il posizionamento del soggetto all’interno di una griglia di privilegi e oppressioni e di un determinato spazio storico, geografico e sociale (De Petris 2005, 259). Stefania De Petris, partendo proprio dalla doppia oppressione cui fa riferimento Spivak a proposito della subalterna fino ad arrivare a discorsi a lei contemporanei, propone un cambio di paradigma: da quello della sorellanza a quello della solidarietà (De Petris 2005, 279). Sostiene, infatti, che “l’oppressione sta alla sorellanza come l’agency sta alla solidarietà”, sottolineando la necessità di compiere uno sforzo di riconoscimento dell’agentività delle donne anche nelle condizioni apparentemente di maggiore subordinazione, prestando particolare attenzione ai legami delle donne con le comunità che le circondano (De Petris 2005, 279). D’altro canto, secondo Rachele Borghi bisogna andare ancora oltre la domanda “La subalterna può parlare?” e chiedersi invece: “perché sei tu a concedere lo spazio perché l’altro (che sei tu ad aver creato e di cui legittimi l’esistenza) proprio come altro possa parlare?” (Borghi 2020, 71).
In tal modo si pone l’accento su una questione già sollevata da Spivak, ovvero che la violenza epistemica che colpisce la subalterna coincide con il processo stesso che la rende senza voce e che dunque marca la sua subalternità. La subalterna è dunque una produzione discorsiva del soggetto egemonico ed è creata in quanto funzionale all’esistenza di quest’ultimo, come la donna lo è per l’uomo e il colonizzato per il colonizzatore.
La subalternità torna nel Meridione
Soltanto negli anni Novanta il concetto di subalternità verrà declinato in ottica postcoloniale per tornare a parlare di Meridione, grazie a studi come quelli di Pasquale Verdicchio e Iain Chambers. Secondo Verdicchio, la posizione ambigua e liminale del Meridione può essere un terzo spazio che permetta agli studi postcoloniali di superare un loro grande limite, quello di ricadere nelle opposizioni binarie tra “bianco e nero”, “Primo e Terzo Mondo”, dominatori e dominati, aprendo così le porte alla possibilità che vi siano — e vi siano state — situazioni meno chiare ed evidenti. Verdicchio, facendo riferimento a Gramsci, sostiene che la storia del Sud Italia sia stata segnata dalla colonizzazione e che “colonialism was the unspoken agenda when Italy was ‘united’ by Piedmontese forces in the 1860s” (Verdicchio 1997, 191). Chambers suggerisce, invece, di “provincializzare” l’Italia: cioè smettere di guardare al Meridione come a un problema solo nazionale e inserirlo in un contesto globale di diseguaglianze, migrazioni e marginalità (Chambers 2012, 17).
Se, dunque, la subalternità torna a riferirsi al Meridione, non può farlo ignorando il viaggio che essa ha compiuto. Ciò che porta sulle sue spalle è un principio di intersezionalità, la necessità di ampliare lo sguardo a più oppressioni sistemiche e di ricercare l’agentività dei soggetti in gioco, senza fermarsi a un’ontologica impossibilità di presa di parola.
Il soggetto imprevisto: il Meridione parla
Ad oggi, sono numerosi gli studi e le pratiche politiche che, per tematizzare il Meridione, tengono conto di molte altre categorie, tra le quali la razza, la classe, l’orientamento sessuale e la cittadinanza. Ne sono un esempio gli studi di Goffredo Polizzi (2022) sulla funzione biopolitica delle categorie di genere e sessualità nel performare discorsivamente il Meridione, le indagini di Carla Panico (2022) sull’agentività delle donne meridionali in una prospettiva storica, le ricerche sociologiche di Francesca R. Ammaturo (2025) sulle sessualità meridiane o quelle di Alice Parrinello (2024) sugli intrecci tra Meridione, queerness e migrazione nella letteratura italiana contemporanea. Ma si pensi anche alle numerose assemblee femministe terrone e meridionaliste queer, come la Convocatoria Ecologista Taranto che, partendo dal dramma ecologico che ne attraversa i corpi-territori, sta sviluppando una prospettiva critica sull’intersezione tra la Questione meridionale, il ricatto salute-lavoro e le narrazioni del progresso, per immaginare nuove ecologie dal margine; oppure all’“assemblea terrona transfemminista” nata recentemente a Torino, luogo storico di emigrazione meridionale.
Nelle pagine della rivista Menelique, esperienza editoriale che ha contribuito a una riflessione decoloniale, femminista e queer sul Sud, Giovanni Tateo esprime chiaramente la direzione di un nuovo meridionalismo che faccia della subalternità meridionale terreno di dialoghi intersezionali:
“Il concetto di Sud nasconde un potenziale rivoluzionario inespresso. In Italia abbiamo bisogno di una forma contemporanea di meridionalismo che non guardi solo all’origine della nostra subordinazione terrona e che non cerchi la restaurazione di un passato idealizzato, quanto piuttosto stimoli la ricerca di intersezioni con altre lotte politiche contemporanee” (Tateo 2022, 10).
In tal senso, il “potenziale rivoluzionario inespresso” del Sud coincide forse con quell’impossibilità di presa di parola della subalterna che, a ben vedere, non è altro che l’incapacità di ascoltare le voci dei Sud se non attraverso un’idea già prestabilita di che cosa il Sud debba essere. All’interno di un sistema strutturalmente antimeridionalista, in cui è stato costruito un discorso ben preciso sul Meridione – quello dell’arretratezza, dell’ignoranza, dell’immobilità, del Sud come ‘non-ancora-Nord’ – quando esso si fa soggetto e prende parola è ancora un ‘Sud imprevisto’.
Se per Carla Lonzi a essere “imprevista” era l’emersione della soggettività femminista in una tradizione patriarcale in cui il soggetto implicito è sempre maschile (Lonzi 2023, 60), il Sud è un soggetto imprevisto ogni qualvolta disattende le aspettative fondate sulla sua rappresentazione stereotipica e si autodetermina a partire dai propri bisogni e dalle proprie storie.
Se, dunque, qualcuno si domanda ancora se la subalterna possa parlare, possiamo dire con certezza che il Meridione sta già – e ancora – parlando: si schiera in alleanza con il popolo palestinese, si riconosce come questione femminista e si colloca dentro gli orizzonti queer. Stiamo in ascolto.
Fotografia di Greta Valente
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