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Febbraio
17 Febbraio 2023

IL CASO SENIGA E LA PARABOLA DISCENDENTE DI PIETRO SECCHIA

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Una pagina oscura della storia del PCI e la caduta di un rivoluzionario in assenza di rivoluzione

27 luglio 1954. Una data che per molti non varrà tanto, ma che per la storia del Partito Comunista Italiano fu una sorta di spartiacque, tanto da influenzarne il percorso e i passi successivi.

La guerra fredda è iniziata. Unione Sovietica e blocco occidentale sono realtà oramai consolidate, così come le due visioni, quella capitalista e quella socialista, che divideranno il mondo per i prossimi quarant’ anni.

Il PCI è guidato da Togliatti coadiuvato da due vicesegretari: Luigi Longo e Pietro Secchia.

I due hanno un percorso molto simile: negli anni ‘20 a capo della Federazione della Gioventù Comunista (FGCI), poi fuggitivi e prigionieri del fascismo, ed infine, dopo l’armistizio del ‘43, due degli maggiori artefici della lotta partigiana. Ricoprendo ruoli di spicco nella Brigata Garibaldi e nel Comitato di liberazione nazionale a seguito della svolta di Salerno dell’aprile 1944.

Entrambi godevano di un fortissimo consenso popolare che, assieme ai numerosi risultati conseguiti negli anni di carriera all’interno del partito, li portarono a ricoprire i ruoli più importanti nel PCI.

Secchia, in particolar modo, è uno dei dirigenti più in vista del momento: nato a Occhieppo Superiore, in provincia di Biella, il 19 dicembre 1903, da una famiglia operaia. Aveva aderito al Partito Comunista d’Italia fin dalla sua nascita nel 1921. Divenne membro del comitato centrale dal 1928. Nel dopoguerra aveva assunto la duplice carica di vicesegretario e responsabile dell’organizzazione, ruolo quest’ultimo che bene si accompagnava al carattere e al senso di praticità di Secchia, un rivoluzionario in assenza di rivoluzione, che mai abbandonò del tutto la speranza di attuare una rivoluzione socialista nel nostro paese e che, anche per questo, si scontrò per vie traverse con la linea intrapresa dal partito sotto la guida di Togliatti.

Sia chiaro, la ferrea disciplina “centralista-democratica” e la totale abnegazione al partito di Secchia non lo fecero mai discostare dalla linea togliattiana, quantomeno non ufficialmente, ma se scaviamo tra le righe della Storia, possiamo scovare elementi che ci aiutano a districarci tra le diverse anime del PCI del primo dopoguerra.

In particolar modo è molto interessante ripercorrere il viaggio di Secchia a Mosca nel 1947: ufficialmente il dirigente comunista è in Unione Sovietica per cercare fondi utili all’imminente campagna elettorale; qui incontra uno dei massimi esponenti del partito comunista russo, Andrej Aleksandrovic Zdanov.  In questo colloquio, però non si parlò soltanto di soldi: Secchia espose la situazione politica italiana mettendo in evidenza “da un lato quanto le masse siano combattive e pronte a lottare, dall’altro come il partito tenda a sottovalutare l’importanza di una più incisiva azione di agitazione”.

La linea di Secchia differisce in parte da quella di Togliatti. O meglio, possiamo dire che non si tratta di una differente linea politica, ma di un’altra visione nella conduzione della lotta politica all’interno della stessa linea: mentre Togliatti non credette per nulla all’ipotesi insurrezionale propendendosi per la via parlamentare, Secchia non era del tutto sicuro che questa fosse l’ipotesi più corretta. Certo, Secchia non è stato uno strenuo sostenitore della rivolta a tutti i costi, ma come scriverà nei suoi scritti “dal non fare nulla a non fare l’insurrezione ce ne passa”.

Secchia utilizzò il viaggio a Mosca per tastare il terreno e per capire la posizione dei sovietici sull’ipotesi di intensificare la lotta per evitare di rimanere impantanati nella palude parlamentare. Dovrà suo malgrado ricredersi quando lo stesso Stalin gli dirà che al momento l’ipotesi non poteva essere presa in considerazione.

Il viaggio di Secchia risulta estremamente importante perché ci aiuta nella ricostruzione dei futuri rapporti difficili tra questi e Togliatti e ci fa capire in particolar modo quanto sia labile, in taluni frangenti, il confine fra una diversa linea politica e il differente modo di intendere una stessa.

Ma torniamo al 27 luglio del 1954, ovvero alla data che segnerà per sempre la vita e il percorso politico di Pietro Secchia.

Il dirigente comunista finisce seppellito da uno degli scandali più oscuri della storia del PCI e sul quale rimangono ancora oggi diverse perplessità e dubbi irrisolti.

Il 25 luglio il suo più stretto collaboratore, Giulio Seniga, decide di andarsene da Roma portando con sé una cospicua somma di denaro sottratta alla cassa di riserva del partito insieme ad alcuni documenti.

Giulio Seniga, di Cremona, è un ex operaio dell’Alfa Romeo che aveva fatto la resistenza con Cino Moscatelli. È proprio quest’ultimo il tramite attraverso cui Seniga approda all’ufficio di Secchia nel 1947. Seniga è sveglio, audace e attraente. La sua aria è così diversa dal grigiore dei funzionari del PCI tanto da farlo assomigliare a un personaggio più da film che da partito politico. In breve, diviene il più stretto collaboratore di Secchia, a cui lo legherà un rapporto di profonda amicizia. Anche per questo l’accettazione della fuga sarà per Secchia ancora più difficile da digerire.

Secchia il 25 luglio 1954 si trovava a Torino per un comizio che commemorava la caduta di Mussolini. Seniga avrebbe dovuto accompagnarlo, ma qualche ora prima della partenza da forfait per un improvviso (e oggi sappiamo inventato) attacco di ulcera. Rimase quindi a Roma assieme a Vladimiro, figlio del dirigente comunista. La domenica sera Seniga propose a Vladimiro di andare al cinema: lo accompagna, gli paga il biglietto e gli promette di tornare a prenderlo alla fine dello spettacolo. Questo non accadrà mai e Seniga scomparirà la sera stessa.

Secchia riceverà di lì a poco una lettera del suo ormai ex collaboratore, lettera scritta a Milano presso la casa del giornalista Gianni Brera, nella quale Seniga attacca duramente Secchia e il partito rei, a suo avviso, di aver condannato il movimento operaio italiano all’ennesimo fallimento.

Lo scritto sembra fatto apposta per mettere in cattiva luce Secchia, non soltanto sul piano dell’azione che il mittente ha compiuto ma anche sul piano politico. Seniga sa che la lettera finirà in mano al partito e lo scritto è pieno di allusioni, insinuazioni e messaggi fra le righe volti a screditare agli occhi del partito l’operato di Secchia.

Seniga portò via con sé gran parte dei fondi di riserva del partito, fondi in contanti perlopiù derivanti dal costante finanziamento che il PCI riceveva dai sovietici attraverso l’ambasciata russa a Roma. Si tratta di fondi illegali per il sistema di finanziamento italiano e questo mette al riparo Seniga da eventuali denunce che soverchierebbero l’importante canale di approvvigionamento del partito.

I giorni successivi alla scomparsa di Seniga furono frenetici, comprensibilmente pieni di ansia. Secchia ha un collasso nervoso e la sua condizione spinge i compagni più vicini, tra cui Moscatelli, a nascondergli la pistola per evitare gesti estremi.

Parte una caccia all’uomo e da quel momento Seniga nei suoi scritti e nei documenti di partito divenne soltanto “S”.

Il partito nominò una commissione per le indagini preliminari composta da Felice Platone e Luigi Amadesi, presieduta da Scoccimarro: la commissione metterà in piedi una serie di interrogatori e documenti che vale la pena ripercorrere per mettere ordine all’interno di una vicenda intricatissima, incominciando dall’ammontare della cifra trafugata dal Seniga.

Da un rapporto di Togliatti si intravede l’entità della somma: circa un milione di dollari dell’epoca, ovvero 620 milioni di lire che con i tassi di rivalutazione corrispondono a circa 9 milioni di euro odierni.

Una somma enorme che fa capire la tensione e i sospetti che si generano all’interno del PCI.

Si pensa che Seniga abbia agito per conto di servizi segreti stranieri ed in particolar modo vennero scandagliati i rapporti di S. con i servizi segreti britannici. Lo stesso Secchia indagava su questa pista, come scrive in un appunto a Togliatti, senza però riuscire a trovare prove evidenti a supporto di questa tesi.

Secchia, come detto, iniziò una ricerca febbrile per provare a rintracciare Seniga e con esso i soldi. Una ricerca che lo portarono in pochissimi giorni a passare da Milano a Ginevra, per poi ritornare a Roma e poi nuovamente in Svizzera, passando anche ad Aosta, dove Togliatti se ne era andato in ferie. Nella ricerca è aiutato dai suoi compagni più fedeli, su tutti Moscatelli e Pesce, ma essa non darà i frutti sperati. La somma, infatti, non verrà mai recuperata.

I documenti che raccontano del caso S. ci consegnano un racconto che sembra tratto da un vero e proprio romanzo poliziesco, fra soffiate, viaggi e pedinamenti, facendo luce sul clima di tensione all’interno di quello che era il più grande partito comunista d’occidente.

Lo stesso rapporto tra Secchia e Seniga viene scandagliato per filo e per segno ed è chiaro l’intento del partito di voler verificare quanto siano fondate le accuse del collaboratore a Secchia sulle sue critiche alla direzione.

La fuga di Seniga avrà un effetto devastante su Secchia: gli distruggerà la carriera politica, la fiducia e la reputazione che gli altri dirigenti nutrivano nei suoi confronti.

L’epilogo è noto: ad ottobre la direzione del partito assegna a Secchia un periodo di riposo di due-tre mesi dopo il quale egli è costretto a fare una profonda autocritica mediante una lettera datata 8 gennaio 1955.

Prima di tutto questo Secchia scrive una lettera a Togliatti, dalla profonda schiettezza e sincerità che ci aiuta a ricostruire il loro rapporto difficile. Nella lettera Secchia si assume tutte le responsabilità nei confronti di Seniga ed affronta alcuni snodi politici cruciali nel rapporto fra i due, uno su tutti il caso del 1950, alludendo alla richiesta di Stalin di far trasferire a Mosca Togliatti a capo del Cominform e al voto favorevole della direzione del partito: « Vi è, è vero, l’episodio del 1950, che senza dubbio portò del turbamento nei nostri rapporti, ma tu sai bene da cosa fu allora motivato il nostro atteggiamento (chiaro il riferimento all’attentato che Togliatti aveva subito nel 1948). Allora sarebbe forse stato meglio dopo il fatto discuterne in direzione; in quel momento la discussione sarebbe stata penosa ma sarebbe servita a dissipare ogni malinteso ed a ristabilire rapporti normali di piena fiducia. È questo metodo di liquidare le questioni con degli espedienti, aggirandole, che alla lunga lascia delle conseguenze»

La conferenza d’organizzazione sancirà il ricambio nell’ufficio più importante del PCI con Amendola, uno degli uomini più lontani da Secchia, che prenderà il posto di quest’ultimo come responsabile dell’organizzazione. Secchia perderà anche la carica di vicesegretario e di lì a poco anche il posto in direzione. Finirà in Lombardia, a fare il segretario regionale, prima di perdere anche questo ruolo e dedicarsi principalmente ad un’opera gigantesca e ancora oggi ineguagliata di studio e analisi del movimento partigiano italiano.

Si chiude così una delle pagine più oscure della storia del partito comunista italiano: una vicenda che al di là delle apparenti motivazioni di Seniga, di critica al partito e alla sua direzione, gira inevitabilmente intorno al furto del denaro. Ci sono troppi soldi di mezzo per poter credere al rivoluzionario senza macchia che abbandona un partito visto come traditore degli interessi della classe operaia. Così come andrebbero approfonditi meglio i rapporti tra Secchia e Togliatti, le loro differenti posizioni politiche, per capire meglio quello che il PCI poteva essere e quello che poi effettivamente è diventato.

A bocce ferme, quando ormai già Amendola siede al quarto piano di Botteghe Oscure, Togliatti dirà al suo ex vice: “Sarai contento, no? È andato tutto bene, tu resti nella direzione e vai a fare un lavoro importantissimo. Non ti sembra che avremmo dovuto prendere questa decisione anche se non fosse accaduto l’affare Seniga?”. “In quel momento”, ribadì poi Secchia: “capii di essere spacciato”.

F.Gori S.Pons, Dagli Archivi di Mosca, L’URSS, il Cominform e il PCI (1943–1951), Carocci, 1980, p. 280.

Pietro Secchia, Quaderno n.4, Archivio Pietro Secchia 1945–1973, Feltrinelli, 1978, p. 627

Nota di Secchia a Togliatti, 27 settembre 1954, in APC, Caso S, mf 021, f. 1, lettere e documenti, p. 40

Lettera di Secchia a Togliatti, Roma, 16 novembre 1954, in Archivio Pietro Secchia 1945–1973, Feltrinelli, p. 671

Testimonianza di Secchia, Palmiro Togliatti, Giorgio Bocca, 2021, Feltrinelli, p. 574

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