26

Gennaio
26 Gennaio 2023

BOTTEGHE OSCURE

0 CommentI
49 visualizzazioni
11 min

Una volta in edicola si poteva trovare Cuore – Settimanale di resistenza umana inventato nel 1989 da Michele Serra come inserto de l’Unità, e dal 1991 ai primi di gennaio del 1997 in vendita come pubblicazione autonoma. Una rubrica fissa di Cuore era “Botteghe Oscure”. La redazione chiedeva ai lettori di inviare foto delle insegne commerciali più idiote che poi pubblicava con un breve commento. Per esempio, nel 1991 vennero scelte «i Mariani arredottori» e «Polentomania» (fonte). “Botteghe Oscure” ha definito un genere ancora oggi vitale. Oggigiorno che abbiamo tutti una macchina fotografica in tasca, ci sono alcune pagine digitali che raccolgono le insegne che Cuore avrebbe pubblicato, come «Scarpe diem» e «Bellessere: Piedificio e Manificio» (fonte). È un gioco facile; io stesso ho trovato questo bar a Trieste.

 

Perché parliamo di queste insegne nella serie “Compagna dell’impero” inaugurata da Marco Cavallo? Perché il tema è sempre il rapporto fra linguaggio e potere, con la differenza che in questo episodio il potere è quello economico e commerciale e non quello che proviene dai cittadini. Anche chi detiene ed esercita il potere economico deve usare le parole e gli altri segni responsabilmente. Anzi, deve stare più attento di un sindaco o di un segretario di partito perché i messaggi commerciali spesso raggiungono un numero maggiore di persone, hanno un impatto più forte e rischiano di fare più danni.

Le imprese mettono in circolazione una gran varietà di messaggi. «Scarpe diem» e «Cool & Camisa» sono sintomi della stessa patologia, che Serra ha descritto come una «impressionante perdita di misura dell’uomo consumatore» indice della «decadenza dell’Impero d’Occidente» (fonte). Serra ha ragione, ma non si tratta solo di perdita del senso della misura. Le imprese possono inquinare il mondo  nel quale viviamo in molti altri modi. Per esempio, vent’anni fa Stefano Bartezzaghi pubblicò nella sua rubrica de La Repubblica il cartello esposto da un vetraio «Qui si riparano vetri infrangibili» e un altro di una pelletteria che diceva «Si fanno borse anche con la pelle dei clienti» (fonte). Si vede già che questi esempi sono il prodotto di un meccanismo diverso, comico e involontario, perché è chiaro che al vetraio fosse sfuggito il paradosso nascosto nel suo avviso.

Un meccanismo deliberato, complesso e molto costoso produce invece le inserzioni pubblicitarie che vediamo in TV. In quelle delle case automobilistiche, per esempio, le macchine girano nel deserto oppure in città vuote, dove hanno vietato chissà come l’accesso a tutte le altre auto. Analogamente, nelle pubblicità radiofoniche spesso squilla un cellulare – anche se vendono assicurazioni o saponette – nel momento in cui stai preparando la cena pensi sia il tuo mentre il pubblicitario ha vinto la battaglia dell’attenzione. Questi meccanismi di persuasione, per quanto un po’ subdoli, sono tutto sommato accettabili. Più problematici sono invece i messaggi che fanno leva sull’ansia e sulla paura. Ne riporto uno del 1953 che oggi sarebbe controproducente e offensivo.

«Per ogni uomo c’è un’altra donna che aspetta». Ed è una donna furba, perché grazie al nostro dentifricio non si farà certo trovare con l’alito cattivo. Anzi, furba e inquietante, perché acchiapperà tuo marito come il ragno acchiappa la mosca. Gli esperti di marketing, a cui piace usare calchi e prestiti dalla lingua inglese, chiamano questo meccanismo “fear appeal”. Spesso viene utilizzato per campagne di sanità pubblica o di altra utilità sociale, come le immagini stampate sui pacchetti di sigarette. La musica cambia quando il “fear appeal” serve a massimizzare il profitto, come i messaggi che fanno leva sulle paure di una popolazione invecchiata per vendere adesivi per dentiere, pannoloni per anziani e impianti d’allarme. Ma anche in questo caso una logica esiste. Un allarme è oggettivamente una risposta tangibile alla paura, fondata o meno, di avere i ladri in casa. Nel prossimo girone, il più buio, troveremo invece imprese che, abbandonato ogni legame con prodotti tangibili, hanno ideato un meccanismo che fa leva sulla nostra paura più spaventosa, diffusa e profonda.

Prima di scendere in questo girone torniamo al 1997, anno in cui usciva l’ultimo numero di Cuore. Nello stesso anno nasceva SixDegrees, la prima rete social. SixDegrees presentava due novità senza precedenti: offriva la possibilità di creare un profilo e quella di costruire un elenco di altri utenti con i quali si aveva qualcosa in comune. Il sito seguiva già dal nome l’ipotesi dei sei gradi di separazione che terrebbero insieme tutti gli esseri umani del pianeta e che, come ragione sociale, mi pare affascinante. Le cose purtroppo non sono andate così e oggi sappiamo che piega abbiano preso i nipotini di SixDegrees.

In questi 25 anni sono nate e hanno conquistato quote smisurate di mercato imprese come Facebook, TikTok e Twitter che hanno una natura puramente semiotica. Questa nota finora ha parlato dei messaggi che ci arrivano da imprese che fanno polenta, borse in pelle, ‘spritz’, dentifrici e pannoloni per anziani. I social media invece si occupano solo di segni. Sono imprese che acquisiscono, trasformano, immagazzinano e distribuiscono parole, immagini, messaggi audio, video e poco altro. Quello che differenzia queste imprese una dall’altra è ciò che abbiamo chiamato ‘meccanismo’ o come dicono gli ingegneri, che dominano il settore, ‘algoritmo’.

Ogni nipote di SixDegrees è quindi un meccanismo semiotico. Il ragionamento che sta alla base di tutti questi meccanismi ci è stato spiegato autorevolmente da Sean Parker, fondatore di Napster ed ex presidente di Facebook. Secondo Parker il problema di partenza dei primi creatori di siti social era: «Come facciamo a consumare la fetta più grande possibile del tempo e dell’attenzione delle persone?» Risposta: «Ti diamo ogni tanto una piccola dose di dopamina perché qualcuno ti dice che gli piace una foto tua o un post o altro. Questo ti spinge a postare qualcos’altro che a sua volta produrrà altri ‘mi piace’ e altri commenti e così ti trovi dentro una ruota di convalida sociale. È la trovata tipica di un hacker come me, perché sfruttiamo una vulnerabilità della psicologia umana. Noi inventori […] lo sapevamo, ne eravamo perfettamente consapevoli, ma l’abbiamo fatto lo stesso» (fonte).

Queste candide affermazioni sono importanti. Sappiamo che gli hacker usano le vulnerabilità per entrare nei sistemi digitali come i topi d’appartamento entrano nelle abitazioni altrui forzando porte e finestre. Immaginate cosa sarebbe successo se dal 1997 fossero state svaligiate, ripetutamente, cinque miliardi di case. Ma la scoperta che nella nostra mente ci sia una porta e che sia quasi impossibile difenderla da scassinatori e ladri pone una questione ancora più profonda: che modello si deve usare per avere una rappresentazione accettabile del nostro mondo interiore?

Sono state proposte innumerevoli metafore dello spirito umano. Fra le più antiche e suggestive ci sono il soffio divino della Genesi, ātman nella filosofia indiana e il pneuma dei greci. Oggi un esperimento che coinvolge quasi cinque miliardi di abitanti del pianeta dimostra forse la necessità di adottare una metafora molto più semplice. Se Parker ha ragione, abbiamo tutti una porta in testa e c’è un sistema per scassinarla che funziona quasi sempre. Questo grimaldello universale è la nostra paura più diffusa, profonda e spaventosa: la paura di non avere una convalida sociale, di non piacere a nessuno, di non essere amati. Purtroppo è probabile che Parker abbia effettivamente ragione perché il meccanismo dei social media funziona e come. Davide Maurizi ha scritto proprio qui su Ātman di essere «ipnotizzato da un flusso di contenuti così veloce che non mi dà tregua» (fonte). Ai creatori dei siti social è bastato imparare a usare il grimaldello per diventare smisuratamente ricchi e potenti.

Questa nota ha percorso sei gradini per arrivare alla fine. È passata per gli arredottori, la riparazione di vetri infrangibili, le città senza automobili, il dentifricio per tenersi il marito, i pannoloni per ridere ancora con le amiche e la scoperta del punto debole nell’animo di quasi tutti gli esseri umani. Ogni passo ha mostrato i danni sempre crescenti che possono fare le parole e gli altri segni di chi esercita il potere economico e commerciale. Come possiamo resistere e difenderci? Non so, forse possiamo cominciare spernacchiando il termine al cuore di Facebook, Twitter e TikTok, che ti offrono di diventare ‘amico’ di qualcuno e di seguirlo. Ciascuno di noi desidera essere circondato da amici, ma l’uso che questi siti fanno del termine è grottesco. Gli amici dei social media sono fonte di ansia, non di gioia. Alla fine del 2022 ho trascorso una giornata intensamente felice con sette amici d’infanzia. Abbiamo pranzato insieme e poi ci siamo guardati la finale dei mondiali. Come farebbe Khaby Lame, che è un personaggio simpaticissimo, ad apparecchiare per i suoi 150 milioni di amici?

Condividi:
TAGS:
I commenti sono chiusi