Il campo profughi nasce come soluzione temporanea in risposta ad una situazione di crisi, un luogo dove le persone che fuggono da guerre e violenze possono trovare un rifugio sicuro in attesa di poter tornare alle proprie vite. Purtroppo, in alcuni casi, la vita nel campo diventa un limbo dal quale è difficile uscire, trasformandosi in una situazione a lungo termine che non contempla soluzioni che siano di ritorno alle proprie case, o di normalizzazione all’interno del paese ospitante in quanto persone con diritti assicurati da una cittadinanza.
Il Libano è il Paese che ospita il maggior numero di rifugiati pro capite al mondo, contando 10 campi ufficiali e numerosi campi informali, situati tra le aree rurali del paese e le città principali. Tuttavia, dal momento che non risulta tra i paesi firmatari della Convenzione di Ginevra del 1951, alle persone che si trovano sui suoi territori non viene riconosciuto lo status di rifugiato. Per questo motivo, le persone che vivono nei campi in Libano si trovano ad affrontare situazioni di profonda marginalizzazione e di negazione dei loro diritti primari.
Ad abitare storicamente i campi profughi libanesi sono i palestinesi, costretti a lasciare la loro terra in seguito alla creazione dello Stato di Israele, la cui nascita li ha condannati ad una vita in esilio negandogli ogni possibilità di ritorno.
L’esodo di massa del popolo palestinese è iniziato nel 1948 con la Nakba, che letteralmente si traduce “la catastrofe”. Nakba fa riferimento all’escalation di eventi causati dal processo di creazione dello Stato di Israele in seguito alla Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale (A.G.) delle Nazioni Unite (U.N.) del 1947, con la quale la Palestina storica fu divisa in due Stati, uno arabo e uno ebraico, con Gerusalemme posta sotto un regime speciale internazionale.
Come conseguenza, nel 1948, scoppiò una guerra tra le due fazioni e lo stesso anno l’Assemblea UN, con la Risoluzione 194, istituì la Commissione di Conciliazione per la Palestina (UNCCP), per aiutare le parti a raggiungere una soluzione definitiva, riaffermando il diritto al ritorno degli sfollati palestinesi (risoluzione 194,III, Assemblea Generale delle Nazioni Unite). L’anno successivo fu istituita l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), che divenne operativa nel 1950, con l’obiettivo di rispondere alle esigenze del popolo palestinese per un periodo limitato, nell’attesa che i rifugiati potessero tornare ad abitare nella loro terra una volta risolto il conflitto.
Purtroppo, la Storia ha preso una direzione ben diversa: dopo 75 anni dalla Nakba il popolo palestinese si trova ad affrontare condizioni di vita sempre peggiori in Palestina, a causa del regime di occupazione e dell’oppressione del governo israeliano. Allo stesso tempo, il governo israeliano non ha mai rispettato la risoluzione 194 che sancisce il diritto al ritorno per i profughi. Per questo motivo, per i palestinesi in diaspora il ritorno nella propria terra rimane un sogno lontano ma mai dimenticato, tenuto in vita e trasmesso generazione dopo generazione.
UNRWA rappresenta un esempio unico per il suo impegno di lunga data nei confronti di uno specifico gruppo di rifugiati. Quando ha iniziato ad operare nel 1950, le persone registrate presso l’agenzia erano circa 750,000. Ad oggi, quattro generazioni dopo la Nakba, almeno 5,9 milioni di Palestinesi fanno affidamento ad UNRWA per avere accesso a servizi quali educazione, assistenza medica e sociale.
Tra i numeri ufficiali dei rifugiati in Libano, più di 479,000 Palestinesi sono registrati con UNRWA e circa il 45% vive nei campi presenti sul territorio libanese. In seguito alla Nakba, circa 110,000 Palestinesi hanno trovato rifugio in Libano. Si trattava, per la maggior parte, di palestinesi provenienti dal Nord della Palestina: dai villaggi della Galilea, insieme alle città costiere di Jaffa, Haifa e Acre.
Storicamente, molti rifugiati hanno preferito abitare nei centri urbani libanesi. Una scelta dettata da un maggior numero di opportunità lavorative e abitative, insieme alla speranza di riuscire ad assimilarsi meglio al tessuto urbano, sfruttando l’anonimato della grande città per uscire dallo stigma del rifugiato.
Chatila è uno dei quattro campi profughi palestinesi che si trova nel perimetro urbano della capitale libanese, Beirut. Situato nella periferia sud della città, il campo occupa uno spazio di appena un chilometro quadrato. Costruito in seguito alla Nakba nel 1949 dalla Croce Rossa Internazionale, l’anno successivo viene preso in gestione da UNRWA, da cui viene tuttora amministrato. Chatila, insieme all’adiacente quartiere chiamato Sabra, rappresenta una delle zone di Beirut in cui la vita costa meno. In anni più recenti, a causa della crisi dilagante che ha investito il Libano, il campo si è trasformato sempre di più in quello che può sembrare un quartiere periferico della città, diventato casa di tanti rifugiati siriani, insieme a lavoratori migranti di diverse nazionalità e agli stessi cittadini libanesi. Infatti, viene stimato che l’80% della popolazione libanese è arrivata a vivere sotto la soglia di povertà, di cui il 36% in condizioni di povertà estrema, mentre il 90% di rifugiati siriani non riesce a soddisfare i propri bisogni base.
Chatila viene costruito per ospitare circa 3,000 unità abitative. Oggi, senza la possibilità di ampliare lo spazio designato al campo, ci vivono tra le 30 e le 40 mila persone. Molti campi sono caratterizzati dal sovraffollamento e da una situazione abitativa precaria, ma per alcuni questa situazione è più evidente che in altri e Chatila è uno di questi.
Anche se oggi la presenza palestinese è molto bassa, circa il 30% della popolazione rispetto alle altre nazionalità presenti all’interno del campo, appena si mette piede dentro Chatila è chiaro che si sta entrando in un campo palestinese.
L’ingresso principale si trova subito dopo un check point delle forze armate libanesi, simile a tanti altri che si trovano in altre parti della città e lungo le strade che collegano il paese. Nessuno ti ferma, il tassista e il militare di turno si scambiano un saluto e si passa velocemente dall’altra parte. Superato il posto di blocco s’incontra il cimitero dei martiri palestinesi, costellato da bandiere e da immagini dei martiri. Sulla facciata principale risalta un grande murales rappresentante Arafat, leader storico palestinese che è stato sia dirigente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), sia di Fatah, partito palestinese che attualmente detiene la maggioranza in Cisgiordania, nonostante negli anni successivi al suo decesso, avvenuto nel 2004, abbia perso molto consenso a causa della linea politica considerata dalla popolazione troppo accondiscendente rispetto alle richieste di Israele.
Superato il cimitero dei martiri, che viene visitato soprattutto per la fine del Ramadan e durante le feste nazionali palestinesi, si raggiunge il campo vero e proprio. Qua, le strade si fanno più strette, i palazzi si sviluppano in altezza perché non c’è più spazio sul terreno, i tetti delle case arrivano quasi a sfiorarsi, impedendo alla luce di raggiungere i vicoli sottostanti. La maggior parte delle volte, i piani più alti dei palazzi sono anche quelli più ampi e spaziosi, compromettendo la stabilità di edifici che si trovano ad avere una base più stretta rispetto alla parte superiore. In alcune strade sono state messe delle luci al neon per illuminare il passaggio anche durante il giorno, in altre devi sapere bene dove andare o accendere la luce del cellulare per vedere dove metti i piedi. Sospesi in questo reticolo ci sono i cavi elettrici e i tubi dell’acqua, che spesso hanno delle perdite che causano delle piccole pozze di acqua sul terreno. Ogni anno a Chatila qualcuno muore fulminato da cavi scoperti in strada, per questo alcuni abitanti mi hanno detto che l’elettricità nel campo è più pericolosa che utile. Senza i generatori privati, infatti, la luce nel campo sarebbe disponibile solo un paio di ore al giorno. Grazie a donazioni esterne, alcune associazioni locali sono riuscite a montare dei pannelli solari sui tetti dei centri dove lavorano, in modo da essere indipendenti sia dalla luce dello Stato (quasi inesistente), sia dalla benzina che serve per azionare i generatori, spesso troppo costosa per rappresentare una soluzione valida.
Attualmente l’amministrazione e gestione del campo sono prese in carico da UNRWA, insieme al Comitato Popolare costituito da abitanti del campo e altre associazioni, sia internazionali che no. Lo Stato libanese, in seguito ai massacri commessi nei confronti della popolazione palestinese durante gli anni della guerra civile, non ha più potere di giurisdizione nelle aree delimitate dai campi profughi. Negli anni, i fondi dedicati ai rifugiati palestinesi si sono sempre più diradati, con un conseguente peggioramento dei servizi offerti, in particolare per quanto riguarda l’educazione e la sanità. Per questo motivo, ora più che mai, gli abitanti di Chatila si sono trovati di fronte alla necessità di auto organizzarsi sia per quanto riguarda la gestione del campo, sia per riempire il vuoto lasciato da un sistema di aiuti non più ben funzionante, che porta le persone in difficoltà economica ed abitativa a vivere delle condizioni di vulnerabilità e povertà sempre più estreme.
Un esempio di quella che può essere chiamata cooperazione rifugiato-rifugiato, il cosiddetto refugee-refugee humanitarianism, è rappresentata dall’associazione Beit Atfal Assomoud (BAS), con cui ho avuto la possibilità di collaborare. Questo tipo di cooperazione va a scardinare il principio focale del sistema umanitario attuale, basato su un’infantilizzazione del beneficiario di aiuti umanitari, che non viene in alcun modo coinvolto nelle politiche e nelle decisioni che lo riguardano, ma che piuttosto gli vengono calate dall’alto come verità già scritte, senza che gli venga lasciato lo spazio per dare voce ai propri bisogni e alle proposte, fondamentali, che dovrebbero partire dalle persone interessate.
BAS nasce nel 1976, un anno dopo lo scoppio della guerra civile libanese, in seguito al massacro di Tal Al Zaatar, un campo profughi palestinese situato a Beirut Est. Il campo ha resistito ed è rimasto sotto assedio per 52 giorni, durante i quali numerosi abitanti sono morti di fame, sete e altre malattie. Alla fine, più di duemila persone sono state uccise dalle milizie cristiane libanesi. In seguito a questo terribile evento, l’associazione ha cominciato ad offrire assistenza ai bambini rimasti orfani dal massacro, insieme al resto della popolazione colpita.
Il massacro di Tal Al Zaatar è stato seguito da altri durante la guerra civile. Il quartiere di Sabra e il campo profughi di Chatila sono stati la scena di uno degli eventi più brutali e sanguinosi di quel periodo. Il massacro di Sabra e Chatila è avvenuto nel 1982, durante l’invasione israeliana del Libano, ma il campo è rimasto per tutta la guerra civile un target di continui attacchi verso la popolazione. Oltre duemila persone sono state uccise dal 15 al 18 settembre 1982 in questo ennesimo attacco contro la popolazione civile palestinese.
Durante questi periodi di scontri e violenze, durante i quali Chatila è rimasto sotto assedio per lunghi periodi, un gruppo di volontari ha cominciato ad aiutare in tutti i modi possibili le famiglie e le persone più colpite dagli eventi. Come nel caso di Tal Al Zaatar, anche in seguito al massacro di Sabra e Chatila molti bambini sono rimasti orfani o hanno perso gran parte delle loro famiglie. I volontari di BAS hanno iniziato anche qui a portare il loro sostegno e da quel momento non hanno più smesso di supportare la loro comunità. Alcuni di loro che erano volontari all’epoca lavorano ancora all’interno dell’associazione, come nel caso della direttrice del centro Aida e di Amal, una delle assistenti sociali.
Parlando con Aida nel suo ufficio nel centro di BAS, le ho chiesto quali fossero le difficoltà maggiori di lavorare nel campo. “Come BAS abbiamo centri in ognuno dei dieci campi palestinesi in Libano, ma quello di Chatila risulta il contesto più difficile. Potete immaginare, dopo l’invasione israeliana e il massacro il campo era distrutto, vuoto. Abbiamo vissuto dei momenti molto difficili, ma abbiamo continuato a vivere e a fare il nostro lavoro”. Aida è diventata una volontaria dopo il massacro. Dice di essere stata fortunata, perché la sua casa e la sua famiglia sono stati risparmiati, ma almeno duecento bambini erano rimasti orfani. Insieme agli altri volontari cercava di occuparsi di loro, di farli ridere ancora, di dargli la forza di continuare nonostante il dolore.
Quando Amal ha iniziato a fare la volontaria per BAS, era al primo anno di università e studiava per diventare assistente sociale. Durante uno dei nostri incontri, le ho chiesto di raccontarmi gli anni della guerra e di come avesse iniziato a fare il suo lavoro. “Durante la guerra, le milizie libanesi circondavano il campo, nessuno poteva uscire, anche quando bombardavano. Il centro di BAS era vicino a casa mia, così ho iniziato a frequentarlo per aiutare la mia gente. Alternavo la mia vita secondo questi due momenti: quando il campo era aperto, uscivo e andavo in università. Quando tornava sotto assedio, rimanevo a casa e lavoravo come volontaria”.
Il centro ufficiale dell’associazione è stato aperto due anni dopo il massacro, nel 1984. All’epoca, il governo libanese non permetteva ai palestinesi di aprire centri per le loro associazioni. Per questo motivo, BAS ha chiesto a un team di medici belgi con cui erano in contatto di aiutarli ad aprire uno spazio per il loro lavoro. Dopo aver parlato con l’ambasciata belga, sono riusciti a organizzare l’apertura del centro, che da quel momento ha iniziato ad ospitare e promuovere vari progetti ed attività per la popolazione locale.
Amal, in quanto assistente sociale, svolgeva la maggior parte delle sue attività con i bambini. Passando molto tempo con loro, si rese conto che per la maggior parte erano terrorizzati dal buio. Durante la guerra, infatti, i cavi elettrici erano stati tagliati e una volta calato il sole tutto il campo piombava nel buio più totale. I bambini avevano vissuto esperienze traumatiche, dalle uccisioni di massa ai bombardamenti, senza poter contare sul conforto di una luce. Per questo motivo Amal decise di scegliere la stanza più buia del nuovo centro e così ha iniziato a svolgere attività e giochi al suo interno. Il suo obiettivo era quello di creare dei nuovi ricordi positivi legati al buio per quei bambini, così che potessero tornare a sentirsi al sicuro anche in assenza di luce.
Il centro di BAS è costituito da cinque piani e un terrazzo sul tetto che viene usato come spazio di gioco per i bambini. All’interno della struttura, al primo piano si trovano una clinica dentistica e gli uffici degli assistenti sociali, dove avvengono le distribuzioni di cibo e vestiti, ma che sono anche luogo di incontro e dialogo per le persone che hanno bisogno di sostegno. Salendo, si trovano sia le classi per la scuola materna che quelle per le attività del pomeriggio e le classi di sostegno per i bambini delle elementari che hanno bisogno di ripetizioni. All’ultimo piano si trova la stanza più grande, che viene usata sia per le riunioni sia per attività quali la dabke (danza tipica palestinese), teatro, disegno e le riunioni del gruppo scout, una delle attività implementate recentemente da BAS.
Khaled, un giovane palestinese che lavora per BAS come assistente sociale, mi ha raccontato come durante la sua infanzia la sua casa di quattro piani fosse la più alta del campo, da cui poteva vedere il mare. Ad oggi, vedere l’orizzonte da Chatila diventa quasi impossibile, considerando che le case vengono costruite sempre più vicine le une alle altre e che ogni edificio conta almeno sette od otto piani.
Il centro di BAS a Chatila rappresenta uno spazio sicuro per i bambini e le famiglie del campo che sono seguiti dall’associazione e che possono usufruire dei loro progetti ed attività. Il centro è uno spazio aperto alla comunità, in cui spesso le persone si fermano a parlare anche solo per scambiare qualche parola, per avere un momento di confronto e conforto. Per la direttrice del centro Aida, il contatto con la comunità rimane la parte fondamentale del loro lavoro, come mi ha più volte ribadito durante i nostri incontri. “Abbiamo creato questo centro per stare con le persone, per ascoltarle. Ho lavorato in questa associazione per 40 anni e ho visto le condizioni di vita all’interno del campo deteriorarsi sempre più. Nonostante questo, quando incontro le madri di questi bambini le ringrazio, perché continuano a sopportare questa vita e a prendersi cura dei loro figli. Cerco di incoraggiarle, di dargli la forza di continuare, perché siamo palestinesi e dobbiamo continuare a resistere fino al giorno in cui faremo ritorno alla nostra terra”.
La missione di BAS è quella di contribuire allo sviluppo e al rafforzamento della comunità palestinese in Libano, attraverso progetti che hanno come obiettivo quello di rispondere ai bisogni delle famiglie, aiutandole ad ampliare le conoscenze e competenze dei bambini, dei giovani e dei loro genitori. In particolar modo vengono aiutate e supportate le famiglie più vulnerabili, all’interno delle quali è venuta a mancare la figura paterna per decesso, o nella quale uno o più individui sono gravemente malati, tanto da non poter lavorare.
Amal mi ha raccontato di aver assistito sia alla guerra, sia ai cambiamenti che si sono susseguiti negli anni all’interno del campo. Le necessità delle persone sono in continua evoluzione e così anche i progetti di BAS. “Quando abbiamo iniziato a lavorare con BAS, ci concentravamo soprattutto sugli orfani o sulle famiglie che avevano perso i padri a causa della guerra. Poi ci siamo resi conto che c’erano tante famiglie povere, nelle quali i componenti erano malati o invalidi, così abbiamo iniziato a supportare anche loro. Oggigiorno, molte persone che vivono nel campo soffrono di malattie fisiche o mentali a causa delle attuali condizioni di vita e a causa delle ferite che si portano ancora dietro dalla guerra ”.
Secondo Amal, la forza del lavoro di BAS sta proprio nel loro approccio basato sulla comunità, per la comunità. L’associazione è locale e nasce da palestinesi del campo, che sanno come aiutare le persone perché loro stessi vivono le stesse situazioni di vita.
Durante il mio periodo di lavoro nel campo, mi è capitato spesso di accompagnare Amal durante le visite alle famiglie. La prima cosa di cui mi sono resa conto è stata che, oltre ad essere la loro assistente sociale, sembrava che fosse ormai parte del nucleo familiare. Anche io, sebbene fossi solo un’ascoltatrice, venivo accolta calorosamente dopo essere stata presentata da Amal. Camminando verso l’ufficio mentre tornavamo da una di queste visite, mi è venuto spontaneo chiederle come facesse ad essere così benvoluta in quei contesti familiari. “È perché sono anche io del campo, ho vissuto le loro stesse esperienze, vivo come vivono loro. Provo quello che anche loro provano, conosco le difficoltà con cui si scontrano ogni giorno. A volte si trovano in delle situazioni in cui non posso fare niente per aiutarli, se hanno malattie particolari o non abbiamo i fondi necessari per le cure, o l’istruzione dei figli. Però sono presente in ogni caso, cerco di ascoltarli, dare conforto. Anche questo è importante”.
Le problematiche legate alla mancanza di servizi all’interno del campo sono sempre più critiche. A causa della crisi economica tutto è diventato più costoso, soprattutto i medicinali, che sono sempre più difficili da trovare. Come conseguenza, un maggior numero di persone del campo non può permettersi di pagare le proprie cure, dipendendo sempre più dall’aiuto di associazioni umanitarie. I palestinesi del campo resistono, ma si sentono sempre più abbandonati ed esclusi dalle agende e dalle agenzie internazionali. Sanno che i fondi destinati ad UNRWA, in costante diminuzione, un giorno cesseranno del tutto, lasciandoli senza alcun aiuto. L’esistenza del sistema umanitario all’interno di Chatila risulta fondamentale, dal momento che le leggi libanesi impediscono ai rifugiati palestinesi, così come a chiunque altro senza cittadinanza, di ricoprire almeno 70 posizioni lavorative, rendendo molto difficile la possibilità di trovare un lavoro e costringendo così le persone a dipendere dalle organizzazioni umanitarie.
Ho chiesto ad Amal cosa ne pensasse dell’attuale situazione umanitaria legata al campo e ai rifugiati palestinesi. “I paesi e la comunità internazionale vogliono farla finita, dimenticare la questione palestinese. Con le guerre che ci sono state, i massacri, l’impossibilità di trovare lavoro, il Libano sta cercando di spingere i giovani a lasciare il paese, a dimenticarsi delle proprie origini e cambiare identità. Nonostante tutte le difficoltà, noi non dimenticheremo mai la nostra terra, la Palestina, e non smetteremo mai di rivendicare il nostro diritto al ritorno. Mai. Per questo motivo è importante il nostro lavoro, soprattutto per quanto riguarda i giovani, per continuare a resistere, perché non sappiamo quando, ma sappiamo che torneremo”.
La trasmissione della memoria, generazione dopo generazione, è un altro dei punti cardine dell’associazione. Ogni anno vengono celebrate nel campo le festività nazionali palestinesi. Due degli eventi più importanti sono la Giornata della Terra (30 marzo) e la Giornata in commemorazione della Nakba (15 maggio). In queste occasioni, i bambini vengono vestiti con gli abiti tradizionali, tessuti a mano dalle donne del centro di ricamo di BAS. Insieme ad altre associazioni del campo organizzano dei cortei per le strade di Chatila, ai quali tutti possono partecipare e durante i quali s’intonano le canzoni storiche palestinesi, che parlano di esilio, appartenenza e lotta. La folla si concentra poi in Piazza del Popolo, l’unico spazio aperto di aggregazione nel campo, nel quale i bambini si esibiscono con canzoni, balli tradizionali e piccole rappresentazioni teatrali.
L’associazione porta nel suo stesso nome la rivendicazione della propria terra. Tradotto dall’arabo, Beit Atfal Assomoud significa infatti “la casa dei bambini resilienti”. Le persone più anziane della comunità, a cui è stato raccontato della Palestina e che ricordano, hanno il dovere di trasmettere questa memoria collettiva alle nuove generazioni.
Come mi ha confessato Aida in una delle nostre conversazioni, quando suo nonno è morto è stato come “perdere la Palestina due volte”, perché lui era l’ultimo della sua famiglia ad aver visto la loro terra e a ricordarla.
Nell’attesa del ritorno, BAS continua a supportare e ad assicurare assistenza alla propria comunità, offrendo alle nuove generazioni la possibilità e i mezzi per migliorare la loro vita nel campo, che anche nella routine quotidiana rappresenta un forte mezzo di resistenza.
Secondo Aida, è fondamentale che le persone continuino a parlare della situazione dei rifugiati palestinesi, soprattutto nei paesi esteri. La Palestina non può essere dimenticata, ed è convinta che con il sostegno della comunità internazionale e di tutti i singoli che sostengono la loro causa, riusciranno a tornare nella propria terra. “Perché la Palestina non è solo dei palestinesi, ma è di ogni persona che crede nei diritti, nella dignità umana, che tutti nel mondo possano avere una terra e una casa, che tutti possano avere una speranza”.
Testo e fotografie di Sofia Pari