Marco Toffaloni, il neonazismo e i legami con gli stragisti
È passata quasi sotto silenzio la sentenza emessa dalla Corte d’Assise per i minorenni di Brescia, il 3 aprile 2025, che ha condannato Marco Toffaloni alla pena di 30 anni di reclusione per il concorso nella strage di piazza della Loggia – a 51 anni di distanza dall’attentato.
La sentenza nei suoi confronti costituisce lo sviluppo delle indagini e dei processi che si erano già conclusi con la condanna per la strage di piazza della Loggia di Carlo Maria Maggi e di Maurizio Tramonte. La sentenza di condanna nei confronti di Maggi e Tramonte è stata pronunciata il 22 Luglio 2015 dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano competente, dopo l’annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza di assoluzione emessa il 14 aprile 2012 dalla Corte d’Assise d’Appello di Brescia. La sentenza di condanna nei confronti degli imputati con la pronuncia della Cassazione del 20 giugno 2017 è divenuta definitiva a più di 40 anni dalla strage. Carlo Maria Maggi è morto poco dopo il 26 dicembre 2018, mentre Maurizio Tramonte sta espiando l’ergastolo.
Conviene, quindi, di riassumere le motivazioni di tale sentenza sul ruolo attribuito nella strage ai due ordinovisti, per comprendere come si sia giunti all’individuazione e all’affermazione di responsabilità anche di Marco Toffaloni che, nato nel giugno 1957, all’epoca dei fatti era minorenne.
Carlo Maria Maggi, di ideologia neonazista, aveva una leadership incontrastata sulle cellule di Ordine Nuovo del Veneto e aveva elaborato una strategia stragista finalizzata a fungere da detonatore per l’abbattimento del sistema democratico. È lui ad organizzare le riunioni e gli incontri con i militanti operativi in cui tale strategia viene messa a punto. Organizzatore è il dr. Maggi, non solo nella veste di ‘mandante’ ideologico, era lui a custodire nella trattoria Lo Scalinetto di Venezia, usata come base, l’esplosivo che Carlo Digilio aveva utilizzato per assemblare l’ordigno da mandare a Brescia.
Il dr. Maggi era stato assolto in precedenza in modo fortunoso dalle accuse, sempre nel ruolo di organizzatore, per la strage di piazza Fontana e dinanzi alla Questura di Milano di via Fatebenefratelli, il 17 maggio 1973. L’assoluzione fu resa possibile dall’assoluta incapacità della Procura di Milano di sviluppare e sostenere in dibattimento le indagini sulla strage di piazza Fontana e sulla strage alla Questura. Assoluzioni anche e soprattutto dovute alla devastante ‘guerra’ scatenata da tale Ufficio contro chi scrive, allora Giudice Istruttore che stava raccogliendo gli elementi decisivi per giungere alla condanna dei responsabili.
Maurizio Tramonte era aderente ad una nuova cellula costituita a Padova, non più quella di Franco Freda che aveva come punto di riferimento la libreria Ezzelino, colpita dalle indagini su piazza Fontana, ma una nuova cellula che aveva creato il dr. Maggi. Tramonte .aveva partecipato alla strategia di organizzazione militare del gruppo, compresi spostamenti di armi, e alle riunioni preparatorie della strage, tra cui quella decisiva ad Abano Terme avvenuta appena tre giorni prima di piazza della Loggia.
Contemporaneamente, Tramonte era da tempo, con il nome in codice Tritone, informatore del Centro SID di Padova, al quale relazionava in merito all’evoluzione della strategia eversiva e ai nomi dei partecipanti – dal dr. Maggi in poi. In sostanza, in uno strano equilibrismo, questi svolgeva un ruolo doppio che non lo sottraeva da una corresponsabilità nella strage e che fu caratterizzato, anche nel corso delle indagini, da una serie continua di confessioni e di ritrattazioni. È di rilievo, e anche impressionante dal punto di vista della copertura dei responsabili della strage, che il gen. Gianadelio Maletti – vicecapo del SID – sentito dal Giudice Istruttore di Brescia, il 29 Agosto 1974, non abbia fatto il minimo riferimento alle notizie, allarmanti, che erano giunte dalla fonte Tritone prima del 28 maggio.
Inoltre, sarebbe stata accertata, tramite una fotografia, la presenza di Tramonte, come quella di Toffaloni, in piazza della Loggia subito dopo la strage.
Non può sfuggire che per la strage di Brescia, così come per le altre stragi in cui si è comunque giunti a sentenze di condanne definitive, siano stati individuati – e la strage di Bologna non fa eccezione – gli organizzatori dell’operazione. Il dr. Maggi per la strage di Brescia, e soggetti appartenenti ad un cerchio esterno cioè – secondo le sentenze – gli osservatori e i controllori consapevoli di quanto stava per avvenire, Tramonte e Toffaloni. Tuttavia, mai sono stati individuati gli esecutori materiali, cioè coloro che avevano collocato gli ordigni.
Un atto e un ruolo, questo, che è rimasto, in tutti i casi, nella sfera dell’indicibile, anche per la sua efferatezza.
Quanto a Marco Toffaloni, benché giovanissimo, il suo nome compare presto nel ribollire dell’estrema destra veronese e bresciana. Studia al liceo scientifico Fracastoro, l’istituto delle famiglie bene di Verona, la stessa scuola in cui, appena più giovani di lui, anche Marco Furlan e Wolfang Abel, i protagonisti del gruppo Ludwig – del quale ho scritto in precedenza su Ātman – hanno studiato.
Toffaloni aderisce al gruppo Anno Zero, nato in continuità con Ordine Nuovo dopo il decreto di scioglimento del 1973. Nel febbraio 1974, viene fermato dalla polizia in piazza delle Erbe, nel pieno centro di Verona, mentre distribuisce con altri militanti proprio il giornale Anno Zero. In quell’occasione fornisce un nome falso e viene denunciato per uso di false generalità.
Poi, nel febbraio 1976, era stata eseguita una perquisizione nell’abitazione degli ordinovisti di Verona, Giuseppe Fisanotti e Rita Stimamiglio – sorella di Giampaolo.
La Stimamiglio è indicata nel racconto del fratello, dopo la sua scelta di collaborazione, come molto vicina al mondo di Ludwig e alle tendenze magico-esoteriche di quel gruppo. Nell’abitazione erano state rinvenute armi e un laboratorio per la produzione di sostanze stupefacenti e anche il passaporto – a testimonianza del legame – di Marco Toffaloni.
Ancora più grave, per illuminare la collocazione in quegli anni di Toffaloni, è quanto si trovava nel suo borsello rinvenuto nel 1977.
È un volantino firmato “Squadre d’Azione Piro Acastasi”, con il quale vengono rivendicati attentati incendiari a danno di autovetture e motorini avvenuti in quel periodo a Verona e nella zona del lago di Garda. Tale gruppo aveva operato soprattutto a Bologna con la sigla “Ronde Pirogene Antidemocratiche” e, nelle indagini condotte dall’autorità giudiziaria di tale città, ne era stato individuato quale elemento di spicco Luca Tubertini. Questi era un estremista di destra di Bologna che si era trasferito a Verona per ragioni scolastiche e si era legato moltissimo a Toffaloni. Certamente il volantino “Piro Acastasi” era stato redatto insieme da Toffaloni e Tubertini, come del resto ha confessato quest’ultimo negli interrogatori resi poco prima di morire.
Questi roghi non erano infatti gesti di semplice teppismo ma azioni improntate da un messaggio ideologico molto vicino a quello di Ludwig. Tuttavia, nel 1977, il rinvenimento del volantino era stato completamente sottovalutato dai Carabinieri che non avevano avviato alcuna indagine su Toffaloni. Il borsello e il volantino erano tra l’altro stati restituiti a Toffaloni proprio dai militari della caserma dei Carabinieri di Parona, di cui si dirà tra poco.
Il volantino esaltava, con toni quasi deliranti, il fuoco purificatore che doveva distruggere i simboli materiali degli agglomerati sociali operai e piccolo borghesi con il progetto di passare dall’incendio dei mezzi “vecchi e sporchi” che appartenevano a tali soggetti ad una futura demolizione delle abitazioni dei pezzenti, dei baraccati e degli emarginati e poi alla soppressione fisica di tali esseri abbietti dal punto di vista sociale e anche estetico. Gli untermenschen, i sottouomini da cancellare in sostanza, secondo l’ideologia nazista che echeggiava anche nei volantini di rivendicazione di Ludwig.
Le confessioni di Giampaolo Stimamiglio sul ruolo di Toffaloni
Questo è il quadro, in cui nella sentenza della Corte bresciana, si colloca la figura di Toffaloni che entra nelle ultime indagini sulla strage di piazza della Loggia a partire dalle dichiarazioni di Giampaolo Stimamiglio.
Nel 2009, l’ex ordinovista veronese Giampaolo Stimamiglio decise di collaborare con la giustizia dopo aver reso negli anni precedenti qualche limitata e timida testimonianza, anche sulle indagini di piazza Fontana.
Giampaolo Stimamiglio aveva militato sin dalla gioventù nel gruppo di Ordine Nuovo di Verona, di cui era a capo Roberto Besutti. Stimamiglio non è un fanatico, è un uomo colto e intelligente, non si è mai macchiato di reati di sangue ma nel corso della sua militanza ha avuto rapporti stretti con eminenti membri dello stragismo. Sin da giovane con Giovanni Ventura e la sua famiglia, a cui era strettamente legato, poi con il col. Amos Spiazzi, coinvolto nei progetti di colpo di Stato della prima metà degli anni ‘70 e infine con personaggi del calibro di Elio Massagrande e appunto Roberto Besutti.
Giampaolo Stimamiglio racconta che aveva conosciuto anche Claudio Bizzarri sin dalla comune militanza giovanile in Ordine Nuovo. Bizzarri era un elemento di spicco del gruppo, molto legato ad Elio Massagrande e Roberto Besutti. Bizzarri dovrebbe identificarsi nel “figlio di un funzionario di banca”, che, in un accenno di Carlo Digilio e in altre testimonianze raccolte dopo la fine del processo, aveva partecipato materialmente all’operazione a piazza Fontana il 12 dicembre 1969. Inoltre, Bizzarri aveva partecipato, come testimoniato dalla sua ex fidanzata in verbali resi all’autorità giudiziaria di Verona già negli anni ‘70, ad attentati a Mantova e Verona, e proprio nei giorni della strage di piazza Fontana era stato assente per alcuni giorni da scuola e le aveva poi detto che si era recato a Milano. Come abbiamo indicato, insieme ad Andrea Sceresini, in La maledizione di piazza Fontana (2019, 346–364), nel quale tuttavia è stato indicato con lo pseudonimo di Paracadutista – attività svolta da lui e altri ordinovisti – per non pregiudicare possibili indagini. Tuttavia, essendo questi morto dopo poche settimane dalla pubblicazione de La maledizione, il suo nome può ormai essere indicato.
Ad ogni modo, Bizzarri, nella prima metà degli anni ‘70, si era rifugiato in Grecia per sottrarsi alla giustizia – dato che era imputato anche nel processo romano contro Ordine Nuovo. In Grecia aveva conosciuto Lucia, sorella di Elio Massagrande, che aveva in seguito sposato. Si era poi spostato in Francia per alcuni anni ed era rientrato infine in Italia. Aveva, quindi, assunto la gestione dell’Hotel Garda sulla strada per Bussolengo dove abitava con la famiglia in un appartamento al piano inferiore.
Stimamiglio era uscito da Ordine Nuovo nel 1974 ma aveva sempre mantenuto contatti personali con i suoi ex camerati. Aveva quindi fatto visita più volte a Bizzarri presso l’Hotel. In una di queste occasioni, alla fine degli anni ‘80, vi aveva trovato Marco Toffaloni che conosceva già dai tempi della sua militanza in Ordine Nuovo. Ad un certo momento, dopo il pranzo erano rimasti da soli, non erano presenti né i familiari né Bizzarri e avevano quindi iniziato a parlare delle loro esperienze politiche.
Stimamiglio aveva commentato il trasferimento di Toffaloni da molti anni in Svizzera dicendo che aveva fatto bene a spostarsi in quel paese, perché in Italia ne aveva combinate di “veramente pesanti”; volendo alludere, nel suo pensiero, alla militanza di Toffaloni nel gruppo Ludwig.
Toffaloni aveva però risposto alla “provocazione” di Stimamiglio dicendo, forse diversamente da quanto quest’ultimo si attendeva, «anche a Brescia c’ero io», riferendosi chiaramente alla strage.
Stimamiglio aveva replicato dicendo che all’epoca era solo un ragazzo, ma Toffaloni aveva confermato il suo ruolo facendo intendere che, per quanto giovane, aveva le qualità necessarie. Stimamiglio gli aveva allora chiesto se avesse ricevuto l’ordine da Roberto, dando per scontato che si trattasse di Roberto Besutti, noto ad entrambi come responsabile degli ordinovisti veronesi. Toffaloni aveva allora risposto «Sì certo».
Non era stato aggiunto altro. Tuttavia, Stimamiglio, nel corso delle sue dichiarazioni, ha ricordato che in occasione di un incontro con il col. Amos Spiazzi, in cui si era parlato della strage, questi gli aveva detto che vi era stata una «cooperazione veronese-bresciana nella realizzazione dell’attentato». Ricordandogli quanto, come sapeva Stimamiglio, fossero ottimi i rapporti tra i camerati veronesi e bresciani.
Una fotografia in piazza della Loggia
Da un punto di vista probatorio, il racconto di Stimamiglio da solo non è molto, poco più che uno spunto, forse un indizio, ma unendo la sua testimonianza con i risultati dell’esame, disposto dalla Procura di Brescia, di tutto il materiale fotografico scattato in piazza della Loggia subito dopo la strage, sarà determinante.
La Polizia era riuscita a recuperare, tra le centinaia di immagini scattate quel giorno, una fotografia presente nell’archivio dello studio Cinelli.
La fotografia era stata certamente scattata appena dopo la strage perché davanti alle persone che fanno ‘cordone’ per evitare alla folla di avvicinarsi si vede Manlio Milani – poi animatore della Casa della Memoria di Brescia – ancora chino sul corpo della moglie Livia Bottardi, uccisa sul colpo dall’esplosione.
Nel fotogramma è visibile, seppur non a figura intera, un ragazzo molto giovane assai somigliante e poi identificato in Marco Toffaloni. Era in piedi subito alle spalle del cordone di persone, probabilmente appartenenti al servizio d’ordine del sindacato, che trattenevano i manifestanti.
Il giovane si trovava quindi in un punto privilegiato di osservazione, a pochissimi metri dall’epicentro dell’attentato.
Allora gli inquirenti reperirono alcune fotografie di Marco Toffaloni prossime sul piano temporale ai fatti, in particolare una fotosegnalazione risalente al 1977, comparandole con l’uso di tecniche avanzate. La prima, affidata al consulente tecnico dei Pubblici Ministeri, prof. Luigi Capasso – docente di Antropologia presso l’Università di Medicina di Chieti e Pescara – e la seconda affidata, in sede di incidente probatorio dinanzi al GIP, a esperti del RIS dei Carabinieri di Parma.
Entrambi gli accertamenti portavano alla conclusione che, con elevata probabilità, prossima alla certezza, il giovane tra la folla fosse proprio Marco Toffaloni.
Deponeva in tal senso la comparazione morfologica del viso e cioè la sua forma generale, quella dei capelli, delle orecchie, del naso, della bocca e così via. In particolare, risultavano 14 caratteri morfologici uguali al viso di Toffaloni, di particolare significatività la fossetta sul mento e l’incisione sul labbro inferiore, e altri 9 molto simili. Una sorta quindi di impronta papillare. Nessun segno morfologico inoltre risultava incompatibile con l’indagato portando così ad escludere un falso positivo. Un quadro quindi che, secondo i più recenti protocolli scientifici, restituisce, in assenza di elementi contrari, una forte probabilità di identificazione.
Anche la comparazione antropometrica, cioè non più la forma ma la distanza tra i vari punti del capo, ad esempio tra la punta più alta delle orbite e la base del naso, portava alle medesime conclusioni.
Sulla base di tali dati, in modo corretto sul piano logico, nella sentenza della Corte minorile, si argomenta che la presenza sul luogo di un crimine, anche se subito dopo che esso è avvenuto, non è di per sé prova di una corresponsabilità. Tuttavia tale presenza assume un significato diverso se è del tutto priva di spiegazione e lascia invece intravedere un ruolo nell’episodio. Infatti, Toffaloni non aveva alcuna ragione di trovarsi in piazza della Loggia se non fosse stato a conoscenza di quanto sarebbe accaduto durante il comizio sindacale. Né poteva essere un transito casuale dato che Toffaloni abitava a 70 chilometri da Brescia e che per raggiungere tale città avrebbe dovuto comunque marinare la scuola e ciò comportava una ragione significativa per farlo. Inoltre, non guidava e quindi a Brescia qualcuno aveva dovuto portarlo. Non aveva poi alcuna logica che lui, nazista fanatico, partecipasse, da solo, a un comizio antifascista indetto come protesta contro le azioni dell’estrema destra nella zona.
Se non si vuole pensare ad una presenza per semplice curiosità dopo aver carpito dai camerati qualche notizia, la sua presenza nella piazza si spiega invece in modo logico con un ruolo di ‘controllore’ , ma nemmeno Toffaloni ha mai sostenuto qualcosa di simile. Dunque, il livello più basso di concorso nel delitto, ma pur sempre concorso nell’esecuzione della strage e nelle sue conseguenze.
È, dunque, molto probabile che Toffaloni avesse il compito di perlustrare la zona, in sostanza di fare da ‘palo’, e di intervenire qualora si fosse verificato qualche inconveniente nel piano operativo. Non si può nemmeno escludere che egli avesse, almeno per qualche momento, trasportato l’ordigno e l’avesse poi consegnato a chi doveva collocarlo nel cestino in mezzo ai partecipanti alla manifestazione.
È anche importante sul piano della ‘tenuta’ dimostrativa della prova che il racconto di Giampaolo Stimamiglio abbia preceduto la scoperta della fotografia e non viceversa.
Nella scansione delle indagini non è stata reperita una fotografia che è stata poi sottoposta a Stimamiglio, ma è stato raccolto il racconto di questi. Andando dopo a cercare le fotografie storiche di quel 28 maggio 1974, sino a trovarne una in cui era visibile una persona identificabile in Toffaloni. Questo significa che Stimamiglio, che non conosceva l’esistenza della fotografia, non poteva immaginare che vi sarebbe stato un riscontro alle sue dichiarazioni. Allo stesso tempo, egli non ha potuto utilizzare la fotografia per costruire su di essa un racconto, eventualmente non veritiero e compiacente, in merito alla confidenza che aveva ricevuto dall’ex camerata visibile in tale immagine.
In sostanza, racconto e fotografia hanno un effetto congiunto che li valorizza entrambi senza possibilità da parte del testimone di ‘utilizzare’ qualcosa che non gli era stato mostrato.
Verona: Ordine Nuovo, Anno Zero e Marco Toffaloni
Il quadro probatorio si è rafforzato quando le indagini e l’istruzione dibattimentale si sono dirette ad illuminare la figura di Marco Toffaloni, rimasta sino a quel momento ai margini delle inchieste sull’eversione di destra.
Pur tra molte e comprensibili reticenze, in quanti i testimoni erano in buona parte ex camerati amici di Toffaloni o congiunti dell’imputato, alcuni di essi, che in parte avevano cambiato stile di vita, hanno fornito elementi e riscontri per inquadrare sia l’attività di Toffaloni sia quella del gruppo di cui l’imputato faceva parte nel periodo della strage di piazza della Loggia e oltre.
Nella cantina dell’abitazione Toffaloni c’era, lo racconta l’ex camerata Tubertini, un deposito di armi. C’erano varie pistole, anche silenziate, bombe a mano SRCM, bombe a mano di tipo ananas. Toffaloni era riuscito a non farle ritrovare durante una perquisizione spostandole nella cantina di un vicino, divisa dalla sua solo da un tramezzo di legno. Dopo la perquisizione Toffaloni le aveva per prudenza cedute a un militante romano vicino ai NAR.
Toffaloni era stato protagonista nel 1977 anche dell’agguato a colpi di pistola contro un esponente democristiano, l’on. Luigi Bacciconi. Un attentato che pretendeva di avere uno spessore politico ma era nato soprattutto dall’odio di Rita Stimamiglio, cui Toffaloni era legato, per la famiglia di Bacciconi.
Sui progetti della cellula veronese, Umberto Zamboni ha raccontato che nelle riunioni del gruppo si progettava la realizzazione di stragi con vittime indiscriminate per indurre nella popolazione un desiderio di sicurezza e che tali attentati non dovevano più essere mascherati, come in passato, come azioni della sinistra. Questo perché lo Stato, in cui gli ordinovisti avevano confidato, li aveva ‘traditi’ in quanto l’atteso putsch non si era verificato e, al contrario, Ordine Nuovo era stato sciolto. A quel punto Zamboni si era tirato indietro perché non accettava di partecipare ad attentati in cui fosse prevista la morte di civili innocenti.
Un altro ordinovista di Verona, Mario Bosio, ha raccontato di aver svolto personalmente l’attività di procacciatore di armi, anche da guerra, per Ordine Nuovo – grazie ai contatti con la V Legione dei Nuclei di Difesa dello Stato del col. Spiazzi. Inoltre, Stefano Russo, anch’egli di Verona, ha a sua volta narrato di aver custodito armi per Bosio e di averlo accompagnato alcune volte presso il comando della SETAF – Southern European Task Force, un importante comando militare dell’esercito statunitense – di Vicenza, ove Bosio era entrato senza subire alcun controllo.
Infine, per completare il quadro di questa comunità di fanatici, molti di essi erano iscritti al Poligono di Tiro di Verona e tra di loro anche Marco Toffaloni, benché minorenne. Lo stesso poligono cui era iscritto, pur risiedendo a Venezia, Carlo Digilio, circostanza questa che sembra più di una coincidenza.
Quella di Ordine Nuovo a Verona era una compagine numerosa e determinata, protagonista di numerose violenze contro avversari politici e attentati, e che ha continuato ad agire anche dopo il decreto di scioglimento del 1973, operando sotto la sigla Anno Zero. Negli anni successivi, alcuni militanti, tra cui Toffaloni, hanno anche gravitato nell’ambiente nazista-esoterico di Ludwig, di cui era maestra di cerimonie Rita Stimamiglio, e nelle Squadre d’Azione Piro Acastasi.
Certamente, sino all’ultima indagine a Brescia, è stata sottovalutata la presenza della cellula di Ordine Nuovo di Verona nella strategia eversiva di estrema destra degli anni ‘60 e ‘70. Ad esempio, a Verona era presente la V Legione dei Nuclei di Difesa dello Stato, la più consistente, comandata dal col. Amos Spiazzi. Era una struttura formata da civili e militari, interamente clandestina e progettata per un’azione di appoggio a un mutamento istituzionale di carattere golpista.
Il racconto di Ombretta Giacomazzi al gen. Francesco Delfino
Ombretta Giacomazzi è l’altra testimone di rilievo entrata nelle indagini. Una testimone pura, in quanto non è mai stata coinvolta in reati.
Ombretta Giacomazzi era giovanissima all’epoca della strage, appena diciassettenne, e per alcuni mesi aveva intrattenuto una relazione con Silvio Ferrari prima che questi morisse la notte tra il 18 e il 19 maggio 1974, dilaniato dall’ordigno che trasportava sulla sua Vespa.
La famiglia di Ombretta in quell’epoca gestiva una pizzeria a Brescia proprio dinanzi all’abitazione di Silvio Ferrari.
In seguito, Ombretta aveva sposato uno dei figli di Giuseppe Soffiantini, diventando così nuora dell’imprenditore rapito nel 1997 e liberato dopo quasi 8 mesi di prigionia grazie al pagamento di un riscatto di 5 miliardi di lire. Vi è, in questo rapporto di famiglia, una singolare intersezione con le indagini sulla strage di Brescia. Si scoprirà infatti che il generale dei Carabinieri Francesco Delfino, inserendosi nelle indagini e nelle trattative con i rapitori, si era appropriato di alcune centinaia di milioni di lire facenti parte del riscatto offerto dalla famiglia. Successivamente, per tale appropriazione, Delfino è stato condannato alla pena di 4 anni e 3 mesi di reclusione oltre alla degradazione.
Questi è lo stesso Francesco Delfino di cui è ormai accertata, dall’insieme delle indagini condotte a Brescia, l’attività, quando rivestiva il grado di capitano dirigente del Nucleo Investigativo, di protezione in favore degli estremisti di destra della città tramite il sabotaggio delle indagini sulla strage.
Ed è proprio Francesco Delfino, presente nel racconto di Ombretta, che ha un ruolo da protagonista in quegli eventi.
Infatti, quella di Silvio Ferrari, che aderiva come Marco Toffaloni ad Anno Zero, non era una comune militanza di estrema destra.
Ombretta aveva frequentato il piccolo appartamento, di via Aleardo Aleardi a Brescia, del fidanzato e lì, pur senza porre troppe domande, aveva visto buste con fotografie di militari e civili durante degli addestramenti e fotografie di riunioni. Inoltre, aveva notato nell’appartamento una pistola.
Ombretta aveva anche assistito a scambi di buste con fotografie e denaro tra Silvio e persone in borghese, che aveva poi riconosciuto come appartenenti all’arma dei Carabinieri.
Uno di questi era il cap. Francesco Delfino, che aveva visto anche in pizzeria insieme a un altro elemento dell’estrema destra bresciana, Ermanno Buzzi, confidente dell’Arma, coinvolto nella prima fase delle indagini sulla strage. Buzzi è stato strangolato nel 1981 nel carcere di Novara da Pierluigi Concutelli nel timore che, dopo la sentenza di condanna all’ergastolo nel processo in grado, si risolvesse a parlare nel processo di appello che stava per iniziare.
Nei pochi mesi in cui era durata la loro relazione, Silvio le aveva chiesto di accompagnarla più volte in sedi istituzionali, identificate nella caserma dei Carabinieri di Parona Valpolicella e nella sede della FTASE a Verona.
A Parona si erano recati insieme più volte, una volta anche con un’autovettura guidata da un Carabiniere.
Una volta Silvio era uscito dalla caserma con una busta piena di soldi, un’altra volta li aspettava all’esterno Toffaloni.
Nella caserma di Parona si tenevano riunioni che non è eccessivo definire eversive.
In due occasioni era stato consentito ad Ombretta di assistere a queste riunioni, in un locale del seminterrato.
Erano presenti, oltre a Silvio, Marco Toffaloni, Nando Ferrari, anche lui ordinovista di Brescia, il gen. Delfino, anche in divisa, un altro carabiniere che Ombretta ricordava chiamarsi Angelo e che aveva riconosciuto nel capocentro del SID di Verona, col. Angelo Pignatelli e altri militari.
Nel corso delle riunioni si era parlato di un attentato da compiere contro la discoteca Blue Note, un locale frequentato, uno dei primi all’epoca, da omosessuali e travestiti, e tale compito era stato affidato proprio a Silvio Ferrari.
Del progetto di attentato al Blue Note, Ombretta aveva ancora sentito parlare poche settimane prima della morte di Silvio mentre si trovava a bordo della BMW di Paolo Siliotti, un altro ordinovista di Verona, insieme a Marco Toffaloni.
Toffaloni e Silvio avevano discusso in modo acceso perché quest’ultimo aveva espresso la sua volontà di ritirarsi dall’esecuzione dell’attentato contro la discoteca.
Era molto probabilmente legato al nascere di questo contrasto quanto Silvio le aveva poi riferito. Cioè di aver scattato, durante le riunioni a Parona, e conservato di nascosto, alcune fotografie, in cui era visibile anche il gen. Delfino. Erano quelle fotografie, secondo Silvio, la sua ancora di salvezza.
L’altra sede istituzionale presso la quale, in quei mesi, Silvio le aveva chiesto di accompagnarlo era Palazzo Carli a Verona, sede della FTASE, uno dei più importanti comandi della NATO in Italia. La sede della FTASE era il Comando delle Forze Alleate Terrestri per il sud Europa, strategicamente collocato a Verona dagli anni ‘50 con il compito di predisporre la difesa del Nord Italia da un’ipotetica invasione delle forze del Patto di Varsavia e il cui comando era affidato per statuto ad un generale italiano affiancato comunque da militari statunitensi e di altri paesi.
Ombretta non aveva mai accompagnato Silvio all’interno ma si era sempre fermata in cortile accanto alla Vespa del fidanzato. Una volta aveva visto Silvio uscire dal palazzo insieme al gen. Delfino. Un’altra volta Marco Toffaloni li aspettava fuori dal comando, ma poi si era allontanato lasciando Silvio entrare da solo.
Questi accessi in un Comando militare di tale importanza come la sede della FTASE, ove avevano sede anche i Servizi di sicurezza della NATO, possono spiegarsi solo – così come gli accessi e le riunioni nell’isolata stazione Carabinieri di Parona – con l’ingaggio di Silvio nel ruolo di informatore e di soggetto protetto e anche operativo di tali strutture militari. L’ingaggio, si tenga ben presente, di un neofascista convinto che faceva parte di una cellula, come quella veronese, molto attiva e pericolosa.
È probabile che l’ultima notte di vita di Silvio Ferrari abbia visto un girovagare in moto incerto se compiere o meno il previsto attentato alla discoteca – l’attentato era stato addirittura preannunziato da due telefonate anonime proprio la sera del 18 maggio – sino forse a decidere di ripiegare su un altro obiettivo. Quest’obiettivo, come indicato da alcune testimonianze, sarebbe l’ingresso della sede del Corriere della Sera a Brescia. Ferrari aveva comunque perso tempo, e per fatalità o per qualche imprudenza nell’innesco del congegno che portava sulla sua Vespa, questo era esploso, in piazza del Mercato, uccidendolo.
La testimone, infine, ha spiegato di aver atteso tanto tempo prima di raccontare quello cui aveva assistito perché ancora intimorita dalla figura del potente gen. Delfino – le sue dichiarazioni risalgono infatti alla nuova indagine condotta a Brescia nel 2013 e si sono sviluppate, in particolare, dopo la scomparsa del gen. Delfino nel 2014.
Il gen. Delfino, infatti, quando aveva diretto la prima fase delle indagini sulla strage, l’aveva letteralmente perseguitata affinché non rivelasse quanto a sua conoscenza, in particolare le riunioni nella caserma di Parona e la protezione del generale in favore di estremisti di destra. Delfino pretendeva che, con testimonianze false, Ombretta lo aiutasse a dirottare le indagini su piste sbagliate facendole arenare. La sua famiglia aveva dovuto subire simili soprusi molti anni dopo, quando era stato rapito il suocero Giuseppe Soffiantini. Solo quando era stata sentita nell’ambito della nuova indagine, la testimone aveva capito di trovarsi dinanzi non a Carabinieri ‘infedeli’ ma a investigatori di cui poteva fidarsi.
Quindi, Ombretta Giacomazzi non parla in modo diretto di un coinvolgimento di Marco Toffaloni nella strage, ma è testimone delle attività del gruppo di cui tanto il suo fidanzato Silvio Ferrari quanto Toffaloni facevano parte. E inoltre delle protezioni di cui il gruppo godeva e dell’alleanza stretta con una parte dell’Arma dei Carabinieri e con il SID.
Soprattutto, Ombretta racconta dell’interesse di Toffaloni per l’esecuzione dell’attentato contro il Blue Note, sino ad insistere con il titubante Silvio Ferrari. Se la morte di quest’ultimo è un fatto che, nella visione distorta di quel gruppo di giovani, si doveva ‘vendicare’, tale volontà colloca Toffaloni tra coloro che erano disponibili a partecipare, con un ruolo minore ma consapevole, alla strage.
Inoltre, come esattamente rilevato nella sentenza, il racconto della testimone contribuisce a connotare come non casuale il significato della presenza dell’imputato in piazza della Loggia in quel preciso giorno.
La Corte minorile di Brescia ha giudicato attendibile il racconto di Ombretta Giacomazzi scrivendo che la testimone è apparsa “una persona forse un po’ provata dalla sua storia, ma assolutamente normale, sobria, contenuta, certamente molto maturata rispetto alla ragazzina” presente nei primi processi, e “in più di un passaggio è apparsa rammaricata, se non gravata dal senso di colpa, di non aver capito quello che stava succedendo, di non aver parlato a suo tempo come avrebbe dovuto […] tutto tranne che una mitomane”.
Infine, per completare la storia del processo, Marco Toffaloni, sentito in rogatoria a Berna dai magistrati bresciani, si è avvalso della facoltà di non rispondere e si è rifiutato di presenziare alle udienze del processo nonostante la garanzia che non fossero emesse misure restrittive nei suoi confronti. Non ha fornito quindi nessuna ricostruzione alternativa nemmeno in merito alla sua presenza nella piazza.
Cosa significa la sentenza
Nell’affermare, in conclusione, la responsabilità di Marco Toffaloni per il concorso nella strage, la Corte d’Assise per i minorenni di Brescia ha descritto la figura dell’imputato tratteggiandola con parole precise anche sul piano culturale e psicologico. Un quadro utile anche a comprendere la personalità di altri soggetti, anche molto giovani, che sono stati coinvolti nelle strategie violente ed eversive di quegli anni. Tra l’altro, Toffaloni, trasferitosi da molti anni in Svizzera, ove si è anche sposato e ha acquisito la cittadinanza elvetica, non può essere estradato sia perché cittadino svizzero, sia perché, secondo il Codice penale elvetico, il reato di strage per cui è stato condannato è ormai prescritto. Nella sentenza infatti si legge:
“La sua militanza era una militanza convinta, esaltata, al punto da ritenere che Ordine Nuovo non fosse sufficientemente radicale ed eversivo e che si dovesse agire di più e più incisivamente. Un neofascista e un neonazista.
Un giovane più intelligente della media, anche se non altrettanto dedito alla fatica dello studio; […] molto orientato verso gli autori di riferimento della destra spiritualista; interessato all’esoterismo, all’occultismo […] ad un ascetismo non trascendente.
Una persona […] con un carattere forte, duro, prevaricatore, sprezzante, violento. […]
Una persona convinta della propria superiorità e della superiorità della razza, capace di disprezzare le persone fisicamente non perfette, gli ebrei, le persone di colore, gli omosessuali, gli zingari. […]
Un ragazzo che amava le armi, che usava le armi, che custodiva le armi.”
In sintesi, un “monaco guerriero”, come egli stesso si definiva.
Indubbiamente le indagini e l’ultima sentenza di Brescia non aggiungono molto sulla concreta esecuzione della strage di piazza della Loggia: Marco Toffaloni, anche in ragione della sua età, resta un comprimario, una pedina del gruppo ordinovista con un ruolo, quel giorno, nemmeno troppo definito. Una condanna comunque – è giusto ricordarlo – che non si basa su prove definitive e autoesplicanti, quindi il grado di appello e quello eventuale in Cassazione rimangono aperti.
L’ultimo filone delle indagini illumina molto di più il backstage della strage, i rapporti che elementi della destra radicale come quelli di Anno Zero – eredi tra l’altro di un movimento come Ordine Nuovo disciolto per decreto – hanno potuto coltivare con il mondo militare interno e Atlantico.
Gli accessi di ordinovisti come Silvio Ferrari alla base FTASE di Verona sono tra l’altro una conferma postuma delle dichiarazioni di Carlo Digilio che aveva raccontato nelle indagini sulla strage di piazza Fontana il suo duplice ruolo di addetto per la cellula di Ordine Nuovo di Mestre-Venezia al settore logistico delle armi e degli esplosivi e di informatore proprio dai Servizi di sicurezza militari statunitensi, che avevano sede in quella base, i quali erano quindi a conoscenza dei progetti eversivi delle più importanti cellule di Ordine Nuovo del Triveneto.
Certamente può apparire poco comprensibile perché Carabinieri e SID abbiano protetto il gruppo veronese dirigendo le indagini su ambienti limitrofi ma estranei alla strage di Brescia – ad esempio il Movimento di Azione Rivoluzionaria (MAR), che agiva in Valtellina guidato da Carlo Fumagalli e un “balordo’ bresciano, Angelino Papa, costretto dai Carabinieri a confessare falsamente la sua responsabilità con pressioni e violenze. Con la conseguenza che le indagini si riducessero a un insieme di notizie confuse e finissero in un vicolo cieco.
I Carabinieri ugualmente avevano protetto la cellula di Padova in quanto le informazioni riferite da Maurizio Tramonte, la fonte Tritone, in particolare relative alle riunioni di ‘avvicinamento’ all’esecuzione dell’attentato, non sono mai state oggetto di un’attività di prevenzione né rese accessibili alla magistratura. Ad esempio, al fatto che il gen. Gianadelio Maletti, vicecapo del SID, sentito dal Giudice Istruttore di Brescia, il 29 agosto 1974, non aveva riferito alcunché delle allarmanti notizie sulla preparazione della strage fornite dalla fonte Tritone.
La strage di piazza della Loggia era, inoltre, un’azione ‘offensiva’ dell’estrema destra, rivolta direttamente contro un comizio sindacale ed antifascista, e non poteva quindi in alcun modo essere mascherata – come avvenuto nel 1969 per piazza Fontana e gli altri attentati collegati – come un’azione attribuibile al campo politico opposto. Come, ad esempio, non poteva esserlo nemmeno la strage di pochi mesi dopo, il 4 agosto 1974, sul treno Italicus, compiuta certamente dalle cellule ordinoviste della Toscana.
Piazza della Loggia non era quindi utilizzabile per proseguire la strategia volta all’instaurazione di un governo forte contro la ‘sovversione’ che era stata perseguita negli anni precedenti.
Tuttavia, è molto probabile che l’individuazione dei suoi autori costituisse comunque un grave ed immediato pericolo perché con l’arresto di alcuni di essi e lo scompaginamento dei gruppi che erano stati sino a quel momento lasciati agire e sottratti ad iniziative giudiziarie, vi era il rischio che venisse alla luce l’insieme delle protezioni e delle collusioni precedenti, a partire dal 1969, con conseguenze non controllabili.
Era quindi più prudente che gli autori non fossero scoperti e che le indagini girassero a vuoto.
Questi sono gli ultimi esiti sulla strage di piazza della Loggia. Un’indagine sabotata all’epoca da ufficiali dei Carabinieri e altri militari e, per fortuna, tanti anni dopo, ‘riparata’ in qualche modo dalla Procura di Brescia e da ben diversi ufficiali dell’Arma fedeli alla Costituzione.
Fotografia di Utu-Tuuli Jussila