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7 Novembre 2022

TRIAN­GLE OF SAD­NESS: IN DEN WOL­KEN

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“La cri­si del cine­ma è cri­si di idee, non ci sono più idee, non ci sono più scrit­to­ri”, così ammo­ni­va Vit­to­rio Gass­man, inter­vi­sta­to dal­la Rai, duran­te una sce­na trat­ta dal film Una vita dif­fi­ci­le di Dino Risi.

Una fra­se in par­te vera e in par­te pro­vo­ca­to­ria, ma sicu­ra­men­te sma­sche­ra­ta dagli innu­me­re­vo­li capo­la­vo­ri cine­ma­to­gra­fi­ci che sono sus­se­gui­ti negli anni. Ruben Östlund con il suo pre­ce­den­te film The Squa­re (2017) ha rag­giun­to un pic­co nel cine­ma dell’ultimo decen­nio, sma­sche­ran­do l’invettiva di Gass­man. Quest’anno si è pre­sen­ta­to al 75° Festi­val di Can­nes aggiu­di­can­do­si la Pal­ma d’Oro con Trian­gle of Sad­ness. Il tito­lo, Il trian­go­lo del­la tri­stez­za, si rife­ri­sce a un’espressione del­la chi­rur­gia este­ti­ca impie­ga­ta per indi­ca­re lo spa­zio com­pre­so tra le soprac­ci­glia che spes­so, per evi­ta­re inop­por­tu­ni ine­ste­ti­smi, neces­si­ta dell’intervento del Botox. Il tito­lo ci riman­da subi­to a un’idea pla­sti­ca, mec­ca­ni­ca, espres­sio­ne per­fet­ta del­la socie­tà odier­na.

Con quest’ultimo film (il pri­mo in lin­gua ingle­se) il plu­ri­pre­mia­to regi­sta e sce­neg­gia­to­re Ruben Östlund rie­sce nell’intento di crea­re una foto­gra­fia comi­ca e sati­ri­ca sul mon­do del­la moda, degli influen­cer e del­la bor­ghe­sia del XXI seco­lo, appa­ren­te­men­te distac­ca­ta dai vec­chi ric­chi del mon­do. Rispet­to ai due pre­ce­den­ti lavo­ri: For­za Mag­gio­re e The Squa­re, però, Trian­gle of Sad­ness, sep­pur a trat­ti esi­la­ran­te risul­ta meno com­ples­so e più super­fi­cia­le rispet­to ai pre­ce­den­ti lavo­ri. La tesi del film, ovve­ro che, “sol­di e bel­lez­za” rego­la­no i rap­por­ti di pote­re è pie­no di ovvie­tà e scon­ta­ti cli­ché sui poten­ti.

Il film, divi­so in tre capi­to­li, è una cri­ti­ca a que­sta socie­tà del con­su­mo, un viag­gio costan­te tra sta­tus sym­bol e mora­li­smi, tra capi­ta­li­smo e lot­ta di clas­se, immer­si nel caos di una cro­cie­ra nei Carai­bi.

Nel pri­mo capi­to­lo, quel­lo tra Carl (Har­ris Dic­kin­son) e Yaya (Charl­bi Dean, dece­du­ta alla fine di ago­sto a soli 32 anni), Östlund descri­ve il mon­do del­la moda, spie­ta­to e fri­vo­lo, com­po­sto da un eser­ci­to di masche­re in bili­co tra H&M e Balen­cia­ga. Carl è sospe­so su una cor­da sem­pre pron­to a cade­re, men­tre Yaya si ritro­va sul­la cre­sta dell’onda gra­zie ai social. Il Dio dena­ro costrin­ge i due a con­ti­nue discus­sio­ni su chi deve paga­re il con­to al risto­ran­te. Anche in que­sto caso il tema del­la con­trap­po­si­zio­ne tra “con­ven­zio­ni socia­li o eman­ci­pa­zio­ne fem­mi­ni­le” è pro­fon­do come una discus­sio­ne di filo­so­fia tra due licea­li alla pri­ma lezio­ne.

Nei suc­ces­si­vi capi­to­li ritro­via­mo i due model­li immer­si in una lus­suo­sa cro­cie­ra nel­le acque carai­bi­che, tra ven­di­to­ri di armi, spac­cia­to­ri di fer­ti­liz­zan­ti agri­co­li e pro­dut­to­ri video­lu­di­ci. Il Dio degli ingle­si, come Fabri­zio De Andrè ama­va defi­ni­re la bor­ghe­sia indu­stria­le, gui­da la socie­tà odier­na e que­sta nave del caos.

Il coman­dan­te, Tho­mas Smith (Woo­dy Har­rel­son, eccel­len­te), è un mar­xi­sta che sof­fre di ago­ra­fo­bia e vez­zo all’alcool che lascia affon­da­re la nave in una bat­ta­glia ideo­lo­gi­ca a col­pi di afo­ri­smi da tastie­ra tra comu­ni­smo e capi­ta­li­smo in com­pa­gnia di un oli­gar­ca rus­so. L’equipaggio, gui­da­to dal­la steward Pau­la (Vic­ky Ber­lin) è dedi­to al ser­vi­li­smo più paros­si­sti­co, meta­fo­ra di una clas­se media sem­pre più al ser­vi­zio del­la clas­se domi­nan­te. Nel suo discor­so inau­gu­ra­le all’equipaggio, Pau­la spro­na il team ad accon­ten­ta­re ogni sin­go­la richie­sta degli ospi­ti, al fine di rice­ve­re una cospi­cua man­cia da par­te dei pas­seg­ge­ri. L’ostentazione e la bra­mo­sia del dena­ro uni­sce ogni sin­go­lo com­po­nen­te di que­sto Tita­nic alla Mon­ty Python come il filo di una col­la­na tie­ne uni­te le per­le.

Que­sto rap­por­to di pote­re tra pas­seg­ge­ri ed equi­pag­gio si inter­rom­pe quan­do la nave entra in una tem­pe­sta. Il mal di mare e un’intossicazione ali­men­ta­re tra­sfor­ma­no la festa in una stra­ge. Arri­va­no i pira­ti, esplo­de una bom­ba, la bar­ca cola a pic­co e i pochi super­sti­ti si ritro­va­no gomi­to a gomi­to su un’isola deser­ta dove i came­rie­ri diven­ta­no lea­der del grup­po.

Boom: l’élite si sgre­to­la e i rap­por­ti di pote­re si inver­to­no. Chi sa cac­cia­re e pesca­re pren­de il coman­do e il dena­ro per­de tut­to il suo valo­re. È Tra­vol­ti da un Inso­li­to Desti­no del­la Wert­mül­ler ma sen­za quel­la pro­fon­di­tà che fa del film con Gian­ni­ni e Mela­to una pie­tra milia­re. Se l’intento di Östlund era quel­lo di ribal­ta­re i luo­ghi comu­ni sul­le clas­si più agia­te, il risul­ta­to non è sta­to all’altezza. Quel­lo che acca­de sull’isola è tut­to lapa­lis­sia­no, chia­ro al pri­mo sguar­do, rei­te­ra­to per più di tre quar­ti d’ora, per un’opera che vuo­le pro­ce­de­re per accu­mu­la­zio­ne di sketch e non tra­mi­te un ragio­na­men­to con capo e coda. Sicu­ra­men­te l’essere uma­no ha per­so di manua­li­tà rispet­to al pas­sa­to, ma oltre ai super ric­chi, quan­ti di noi si sal­ve­reb­be­ro su un’isola deser­ta in balia del­la Natu­ra?

L’organizzazione socia­le sull’isola ribal­ta la sovra­strut­tu­ra capi­ta­li­sta, ma non offre una visio­ne chia­ra di que­sto pas­sag­gio, sot­to­li­nea­to dall’autore, da una socie­tà patriar­ca­le ad una socie­tà matriar­ca­le. La que­stio­ne è sta­ta but­ta­ta al ven­to: Abi­gail (Dol­ly de Leon), inser­vien­te del­lo yatch, recla­ma una posi­zio­ne di auto­ri­tà all’interno del grup­po, poi­ché essen­do l’unica in gra­do di pro­cu­rar­si del cibo risul­ta indi­spen­sa­bi­le alla soprav­vi­ven­za del grup­po. Abi­gail fa vale­re il suo pote­re assog­get­tan­do Carl e costrin­gen­do­lo a dive­ni­re il suo aman­te in cam­bio del nutri­men­to al grup­po. Abi­gail cre­de di aver sov­ver­ti­to i rap­por­ti di clas­se, van­tan­do­si con Yaya di aver crea­to sull’isola una socie­tà matriar­ca­le. Lei, l’ultima dei pro­le­ta­ri nel­la nave dei sov­ver­si­vi da sera­te di gala, non fa altro che per­pe­tra­re l’autoritarismo gerar­chi­co in una del­le tan­te decli­na­zio­ni del capi­ta­li­smo, che oltre ad esse­re un siste­ma eco­no­mi­co si con­fer­ma un vero e pro­prio modus viven­di. Lo imma­gi­na­vo diver­so il matriar­ca­to.

È mol­to dif­fi­ci­le usci­re dal­la sala scon­ten­ti o delu­si dopo aver visto Trian­gle of Sad­ness, un film esi­la­ran­te, imme­dia­to, epi­der­mi­co e suc­cu­len­to che caval­ca le più faci­li auto­com­mi­se­ra­zio­ni del pro­prio pub­bli­co. Ma la visio­ne rap­pre­sen­ta­ta da que­sto nubi­fra­gio del capi­ta­li­smo risul­ta esse­re intel­let­tual­men­te poco attraen­te, un’orgia esca­to­lo­gi­ca fine a sé stes­sa. Que­sta som­mos­sa con­tro l’ideologia domi­nan­te è sta­ta tra­sfor­ma­ta in opzio­ne psi­co-este­ti­ca, imma­gi­ni­fi­ca, i mor­ti veri, gli oppres­si, nel­la loro tra­gi­ca natu­ra­li­tà, sono sta­ti fat­ti spa­ri­re. I ber­sa­gli del regi­sta sve­de­se ora­mai sono sem­pre i soli­ti, trop­po faci­li. Ne ha abu­sa­to poli­ti­ca­men­te. The­re­se, pas­seg­ge­ra del­la cro­cie­ra e nau­fra­ga, capa­ce di pro­nun­cia­re solo una sin­go­la fra­se dopo un ictus ripe­te­va: In den Wol­ken, tra le nuvo­le. Se gros­so­la­na­men­te fos­se anda­ta a fini­re così?

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