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Ottobre
23 Ottobre 2025

RILEG­GE­RE MANN: CRO­NA­CHE DAL­L’O­SPE­DA­LE DI TER­NI

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Dopo diver­si anni che non lo face­vo, ho riguar­da­to uno dei car­to­ni Disney del­la mia infan­zia: Le avven­tu­re di Bian­ca e Ber­nie (1977). Nel­la pri­ma del­le peri­pe­zie vis­su­te dai due topi­ni, Miss Bian­ca e il Signor Ber­nie devo­no sal­va­re l’orfana Pen­ny dal­le grin­fie di Mada­me Medu­sa, la pro­prie­ta­ria di un ban­co dei pegni alla dispe­ra­ta ricer­ca di un dia­man­te noto come “l’occhio del dia­vo­lo”. In una del­le sce­ne per me più memo­ra­bi­li e più ango­scian­ti, Medu­sa si rivol­ge al suo gof­fo com­pli­ce Snoops, che ha appe­na lascia­to scap­pa­re Pen­ny per l’ennesima vol­ta, e, pun­tan­do­gli un dito lun­go e affu­so­la­to con­tro il naso, gli sibi­la cat­ti­vis­si­ma: «Snoops, tu sei trop­po tene­ro».

Ecco, mi chie­do se non sia que­sto il pun­to. Non con Pen­ny e il suo orsac­chiot­to era solo un gan­cio , ma con noi. Sia­mo diven­ta­te trop­po tene­re, trop­po sen­si­bi­li? O sie­te voi che non ci pren­de­te abba­stan­za sul serio?

A ini­zio ago­sto 2024 ero a Ter­ni. Io e il mio com­pa­gno ave­va­mo affit­ta­to per una set­ti­ma­na una gran­de casa in cam­pa­gna per scri­ve­re in pace le ulti­me pagi­ne del­le nostre tesi di dot­to­ra­to: lui sui per­so­nag­gi ipo­con­dria­ci tut­ti uomi­ni –, io sul­le don­ne arti­fi­cia­li tut­te ogget­ti. Era­no mesi che pen­sa­va­mo a que­sta casa: al bosco, al lago, alle stan­ze stu­dio da con­di­vi­de­re solo a vol­te e se ci anda­va, per­ché ci sono gior­ni in cui c’è biso­gno di soli­tu­di­ne e altri in cui inve­ce è più bel­lo par­la­re. Del resto, ci è capi­ta­to spes­so di leg­ger­ci cose a vicen­da e che i nostri per­cor­si di ricer­ca acca­de­mi­ca si intrec­cias­se­ro in pun­ti ina­spet­ta­ti e, in effet­ti, a sen­tir­lo par­la­re di medi­ci un po’ fau­stia­ni e di pazien­ti oni­ri­ca­men­te feb­bri­ci­tan­ti, da qual­che gior­no mi era venu­ta voglia di rileg­ge­re La mon­ta­gna incan­ta­ta di Tho­mas Mann, ma nel­la ver­sio­ne di Audi­ble let­ta da Rober­to Her­litz­ka, peral­tro allo­ra da poco scom­par­so. Inol­tre, c’era di mez­zo anche il mio 33esimo com­plean­no: ave­vo imma­gi­na­to un pel­le­gri­nag­gio lai­co tra Paso­li­ni Petro­lio e la Tor­re di Chia; un po’ di mostri a Bomar­zo e una bir­ra fre­sca, in per­fet­to sti­le mil­len­nial, stan­ca e sen­za Dio. Inve­ce è anda­ta che ho festeg­gia­to come Gesù a Pasqua, ma con meno mira­co­li e più fle­bo: moren­do e resu­sci­tan­do in Pron­to Soc­cor­so per col­pa di un cor­po luteo emor­ra­gi­co esplo­so. Set­te­cen­to mil­li­li­tri di san­gue nell’addome, un’operazione chi­rur­gi­ca d’urgenza e un rico­ve­ro di die­ci gior­ni in gine­co­lo­gia.

Era­va­mo arri­va­ti da un gior­no in que­sta casa di cam­pa­gna — era pro­prio il gior­no del mio com­plean­no — quan­do sono sve­nu­ta e sono sta­ta por­ta­ta d’urgenza al Pron­to Soc­cor­so. Quan­do è ini­zia­ta la degen­za, dopo l’operazione e alme­no un gior­no dopo quel­lo in cui ho fat­to la medu­sa sul let­to, immo­bi­le, dor­men­do tut­to il tem­po insie­me alle mie esten­sio­ni arti­fi­cia­li a entram­bi i lati del cor­po come una medu­sa, appun­to per quel­li col gusto dell’esattezza: cate­te­re, dre­nag­gio, fle­bo e, più tar­di, tra­sfu­sio­ne, sta­vo quin­di già leg­gen­do Der Zau­ber­berg (1924). Ero arri­va­ta pre­ci­sa­men­te al momen­to in cui Hans Castorp, sen­za saper­lo, si con­se­gna alla poli­zia ospe­da­lie­ra del Ber­ghof. A onor di cro­na­ca: ave­vo anche comin­cia­to Eileen di Ottes­sa Mosh­fe­gh (2015) e le poe­sie di Nica­nor Par­ra (2019). Il pri­mo, però, avrei dovu­to leg­ger­lo dal mio Kind­le vec­chiot­to e sape­vo già che mi avreb­be fat­to aumen­ta­re il peren­ne mal di testa; il secon­do, inve­ce, mi ave­va fat­to già depri­me­re abba­stan­za sul mio futu­ro da pre­ca­ria nel­la scuo­la media ita­lia­na. Non pote­vo rischia­re di far­mi pas­sa­re la voglia di fare un lavo­ro qual­sia­si, fos­se anche in un isti­tu­to di cor­re­zio­ne come Eileen. Così, a un cer­to pun­to, ho mes­so un paio di cuf­fie e ho riav­via­to l’audiolibro.

Quel­lo del­la Mon­ta­gna magi­ca tito­lo ripri­sti­na­to gra­zie alla stu­pen­da inter­pre­ta­zio­ne di Luca Cre­scen­zi, cura­to­re del Meri­dia­no , dura diver­se ore: ma tan­to, come filo­so­feg­gia il pro­ta­go­ni­sta del roman­zo, in ospe­da­le il tem­po è una mes­sin­sce­na dila­ta­ta. Ero più o meno nel posto giu­sto, no? Pote­vo imme­de­si­mar­mi al mas­si­mo, no?

No. Non avrei dovu­to far­lo. 

La veri­tà è che quan­do il cor­po si rive­la per quel che è, un orga­ni­smo indi­pen­den­te da te e dal tuo biso­gno di far­ti una spe­cie di vacan­za, non ci sono né cugi­ni né inna­mo­ra­men­ti fuga­ci a sal­var­ti a meno che non sia tut­to un sogno, a meno che tu non sia una spe­cie di ipo­con­dria­co ed esse­re mala­to sia, appun­to, il ‘tuo’ sogno. Duran­te la mia degen­za, non ho incon­tra­to nes­sun peda­go­go all’altezza di Set­tem­bri­ni: solo due mis­sio­na­rie india­ne che era­no incu­rio­si­te dal mio tur­ban­te con­tro il mal di testa, anno­da­to come usa, da loro, fare per gli uomi­ni; qual­che infer­mie­ra che ha capi­to che pian­ge­vo per­ché era stra­no non riu­sci­re ad alzar­mi dal let­to e una dot­to­res­sa seve­ra che però una vol­ta mi ha man­da­to dei baci da lon­ta­no  la stes­sa davan­ti a cui qual­che gior­no dopo sarei scop­pia­ta a pian­ge­re per­ché non ce la face­vo più.

Tut­ta­via, pote­vo mori­re e non sono mor­ta, pote­vo esse­re taglia­ta in due e così non è sta­to, pote­vo per­de­re un’ovaia e non l’ho per­sa, potrò se vor­rò anche ave­re dei figli. Era­no pas­sa­ti cin­que gior­ni così, a ripe­ter­mi que­ste cose e a capi­re che cosa fos­se un fol­li­co­lo ova­ri­co per­ché, nono­stan­te sia adul­ta e il mio miglio­re ami­co un gine­co­lo­go bra­vis­si­mo, non l’avevo mica capi­to anco­ra bene. Era cioè ormai Fer­ra­go­sto quan­do Mada­me Chau­chat abban­do­na­va il sana­to­rio Ber­ghof e anche Set­tem­bri­ni se ne anda­va, e pure io avrei dovu­to esse­re dimes­sa. Quan­do Castorp si get­ta­va nel­la tor­men­ta di neve, sta­vo infat­ti pro­prio aspet­tan­do che il dot­to­re di tur­no mi visi­tas­se per san­ci­re la mia libe­ra­zio­ne: ave­vo pas­sa­to non so quan­te ore, il gior­no pri­ma, a fan­ta­sti­ca­re su come avreb­be con­fer­ma­to le dia­gno­si ras­si­cu­ran­ti del­le altre dot­to­res­se, su come me l’avrebbe det­to. Non è faci­le sta­re in un ospe­da­le quan­do ini­zi a sen­tir­ti meglio.

Inve­ce non è anda­ta bene, non sono sta­ta dimes­sa. Valo­ri anco­ra trop­po insta­bi­li, dopo­tut­to una tra­sfu­sio­ne non è una cosa da poco. Con­tra­ria­men­te alle altre dot­to­res­se e infer­mie­re che mi ave­va­no visi­ta­to con costan­za fino ad allo­ra, il dot­tor S. di tur­no quel gior­no nome di pura inven­zio­ne omag­gian­do Sve­vo, un altro ipo­con­dria­co non se la sen­ti­va di lasciar­mi anda­re. «Aspet­ta alme­no fino a doma­ni l’esame del­le sei per l’emoglobina». Mi è sem­bra­to di esse­re Castorp quan­do si misu­ra per la pri­ma vol­ta la tem­pe­ra­tu­ra e sco­pre che sì, in effet­ti quel sin­to­mo che il medi­co del sana­to­rio ave­va osser­va­to con sospet­to fin dall’inizio non era affat­to da sot­to­va­lu­ta­re. Il tut­to con un mera­vi­glio­so sen­so di sospen­sio­ne e, insie­me, di inspie­ga­bi­le orgo­glio.

E però il dot­tor S. non è sta­to solo l’autore, for­se giu­sto, di una pesan­te disil­lu­sio­ne. È sta­to anche le mani che mi han­no dato un buf­fet­to sul­la pan­cia quan­do, dopo aver­la tasta­ta come ave­va­no sem­pre fat­to fino a quel momen­to le dot­to­res­se per capi­re se sen­ti­vo dolo­re, se c’era anco­ra san­gue nell’addome e striz­zan­do­me­la un po’ tra un pun­to e un cerot­to, mi ha chie­sto: «Que­sta è la tua soli­ta pan­cet­ta?». 

A que­sta doman­da ho rispo­sto titu­ban­te per diver­si moti­vi: per­ché mi face­va impres­sio­ne guar­da­re là dove fino a un gior­no pri­ma ave­vo un tubo a estrar­re san­gue; per­ché era ogget­ti­va­men­te dif­fi­ci­le giu­di­ca­re; per quel mec­ca­ni­smo difen­si­vo che avrei poi impa­ra­to a chia­ma­re free­zing e che, come sug­ge­ri­sce la paro­la, mi ave­va immo­bi­liz­za­ta, non capi­vo cosa stes­se suc­ce­den­do e come rea­gi­re.

«Sì, for­se ades­so è un po’ più gon­fia del soli­to però…», ho fat­to in tem­po a dire ma lui, buf­fet­to, se n’era già anda­to. Quan­do era anco­ra sul­la soglia del­la mia stan­za mi sono ripre­sa, gli ho chie­sto di dir­mi alme­no il valo­re dell’emoglobina pre­so la sera pri­ma a mez­za­not­te, se era sali­to e a quan­to, a quan­to dove­va anco­ra sali­re per per­met­ter­mi di usci­re. 

«Cer­to che è sali­to, ci man­che­reb­be, dopo la tra­sfu­sio­ne».

Nes­su­no dei due ha avu­to il tem­po di dire “arri­ve­der­ci” per­ché lui se n’era già anda­to: ave­va furia, era Fer­ra­go­sto, c’erano pochi medi­ci in giro.

Natu­ral­men­te non si par­la qui né del­lo sta­to di for­ma del­la mia pan­cia né del fat­to che pro­ba­bil­men­te non riu­sci­rò mai più a imme­de­si­mar­mi dav­ve­ro in Hans Castorp è mai sta­to pos­si­bi­le? ma dei gesti e del­le paro­le che puoi sce­glie­re quan­do hai il tem­po, il modo e for­se la respon­sa­bi­li­tà di far­lo per bene. 

Quan­do ho rac­con­ta­to la cosa ai miei geni­to­ri, venu­ti fino a Ter­ni da Pisto­ia solo per­ché pen­sa­va­no di ripor­tar­mi a casa, li ho visti che si guar­da­va­no negli occhi e non capi­ta spes­sis­si­mo. Ave­va­no appe­na fini­to di rac­con­tar­mi di quan­do a mia non­na mater­na era sta­to dato del tu da una dot­to­res­sa e lei ave­va rispo­sto, rigi­dis­si­ma: «Pre­go!??», per­ché non si dove­va per­met­te­re così tan­ta con­fi­den­za. Una sto­ria nota, cono­sco bene il carat­te­re alte­ro, esa­ge­ra­ta­men­te orgo­glio­so che ave­va mia non­na. Mio padre inve­ce mi ave­va rac­con­ta­to un epi­so­dio nuo­vo, di quan­do cioè suo padre era sta­to ope­ra­to alle cor­de voca­li e, non poten­do par­la­re, ave­va man­da­to a quel pae­se con un sem­pli­ce gesto il medi­co che quel gior­no lo ave­va chia­ma­to per nume­ro, e non per cogno­me. Però dopo il mio sfo­go si sono guar­da­ti negli occhi. Qual è il con­fi­ne tra un com­por­ta­men­to pater­na­li­sti­co, una ten­den­za a desog­get­ti­va­re o a infan­ti­liz­za­re, e una sto­riel­la di fami­glia? L’avevano capi­to loro? Io non lo so, e del resto per il dot­tor S. non ero né un nume­ro né un cogno­me. Ero sem­pli­ce­men­te “Lavi­nia”, e una “pan­cet­ta” da schiaf­feg­gia­re. For­se però quel­lo sguar­do tra i miei geni­to­ri era già una dia­gno­si. Mi ero con­se­gna­ta anche io alla poli­zia ospe­da­lie­ra, come Castorp? Ne sarei mai usci­ta? 

Ma anche dap­pri­ma in sor­di­na e poi, pia­no pia­no, andan­te: avreb­be mai dato un buf­fet­to sul­la pan­cia di Castorp, il mio caro dot­tor S.? 

Per­ché quel­lo che è suc­ces­so a me non è un caso gra­ve o lam­pan­te, cre­do, ma non è nem­me­no iso­la­to. Lo stes­so han­no denun­cia­to altre don­ne, più e meno gio­va­ni come me. Pen­so a Mar­zia Sar­do, che poche set­ti­ma­ne fa ha rac­con­ta­to la bat­tu­ta di un ope­ra­to­re men­tre face­va una TAC al Poli­cli­ni­co Umber­to I di Roma: «Se vuoi toglie­re anche il reg­gi­se­no fai feli­ci tut­ti». 

Pen­so a tan­te altre che han­no par­la­to di paro­le inap­pro­pria­te, di allu­sio­ni, di bat­tu­te pater­na­li­sti­che o ses­si­ste rice­vu­te pro­prio nei momen­ti di mag­gio­re fra­gi­li­tà. Al fat­to insom­ma che for­se la mia sen­sa­zio­ne di free­zing non era dovu­ta al mio sta­to par­ti­co­la­re, non era col­pa mia o del­la mia gof­fag­gi­ne: era sem­pli­ce­men­te il mio cor­po che rea­gi­va a un peri­co­lo per­ché è pro­gram­ma­to così. Non ero io ‘trop­po sen­si­bi­le’, era il dot­tor S. che sta­va oltre­pas­san­do un limi­te. Non sono sto­rie di medi­ci mostruo­si, spes­so sono ‘solo’ det­ta­gli: un buf­fet­to, un com­men­to fuo­ri posto, una bat­tu­ta di trop­po. Eppu­re segna­no, umi­lia­no, lascia­no una cica­tri­ce che si som­ma alle cica­tri­ci fisi­che. Sia­mo trop­po sen­si­bi­li noi, come Snoops, che ci indi­gnia­mo per un buf­fet­to, per una fra­se? O sie­te voi che con­ti­nua­te a non capi­re quan­to sia cru­cia­le, per una don­na ste­sa su un let­to d’ospedale, il modo in cui la guar­da­te e le par­la­te? 

Per la mia tesi di dot­to­ra­to ho let­to e rilet­to Ven­tre di don­na, roman­zo del 1919 del­la futu­ri­sta Enif Robert, sot­to­ti­to­lo: Roman­zo chi­rur­gi­co. Dopo que­sta mia espe­rien­za ospe­da­lie­ra ho spe­ri­men­ta­to una pro­fon­dis­si­ma sorel­lan­za nel­le paro­le che Robert scri­ve per rac­con­ta­re e supe­ra­re, scri­ven­do, i nume­ro­si asfis­sian­ti rico­ve­ri che dovet­te subi­re per un mal­fun­zio­na­men­to del­le ova­ie: un pec­ca­to mor­ta­le, allo­ra più di oggi, esse­re una don­na ‘difet­to­sa’. Se ci riu­sci­te, recu­pe­ra­te il libro e pro­va­te a non depri­mer­vi di fron­te alle pagi­ne dedi­ca­te ai dele­te­ri e umi­lian­ti incon­tri con i dot­to­ri e le infer­mie­re che la visi­ta­va­no e gior­no dopo gior­no, con­trol­lo dopo con­trol­lo, e inter­ro­ga­va­no il suo cor­po come se fos­se solo car­ne anda­ta a male. Per col­pa sua. «Ormai so di cosa SI ACCU­SA il mio orga­ni­smo», scri­ve la pro­ta­go­ni­sta. Per­ché quan­do sei una pazien­te don­na in un repar­to di ostetricia/ginecologia e non stai per ave­re un figlio, a vol­te sei solo que­sto: car­ne, buf­fet­to, salu­ti. Se va peg­gio, insul­ti: «paz­za! paz­za! paz­za!»; «lame di sguar­di che taglia­no odio­sa­men­te pri­ma del bistu­ri», scri­ve Robert. Anche quan­do non rie­sci ad ave­re un figlio è lo stes­so. 

L’autrice ha rac­con­ta­to cen­to anni pri­ma che lo vives­si in pri­ma per­so­na cosa signi­fi­ca esse­re un cor­po fem­mi­ni­le sul tavo­lo ope­ra­to­rio, un cor­po da rimet­te­re insie­me che, però, non gua­ri­sce mai del tut­to pro­prio a cau­sa del­le paro­le di chi lo dovreb­be cura­re. 

Un seco­lo dopo, quan­te di noi si sen­to­no anco­ra così? 

Per non limi­tar­si alla cro­na­ca, di libri che mostra­no come i medi­ci inte­ra­gi­sco­no col cor­po del­le don­ne pri­ma, dopo e duran­te un per­cor­so medi­co ne sono usci­ti parec­chi altri dopo quel­lo di Robert, che del resto è qua­si dimen­ti­ca­to per gli stes­si moti­vi per cui allo­ra ebbe un po’ di suc­ces­so per­ché era scrit­to a quat­tro mani con Mari­net­ti. Ne ha par­la­to in un sag­gio recen­te anche Ramo­na Onnis, rac­co­glien­do i pri­mi rac­con­ti ita­lia­ni su per­cor­si di pro­crea­zio­ne medi­cal­men­te assi­sti­ta: si chia­ma In viag­gio ver­so un figlio (2024) e mostra bene come l’esperienza cli­ni­ca del­le don­ne con­ti­nui a esse­re opa­ca, sovrae­spo­sta o infan­ti­liz­za­ta dal­la socie­tà ospe­da­lie­ra e non solo , anche quan­do le don­ne sono alla ricer­ca spes­so dispe­ran­te, sem­pre appas­sio­na­ta, di diven­ta­re madri. Pen­so al roman­zo di Anto­nel­la Lat­tan­zi, di cui Onnis si occu­pa, e che, fin dal tito­lo, par­la di omis­sio­ni e non det­ti, man­can­ze e rim­pro­ve­ri in qual­che modo inte­rio­riz­za­ti: Cose che non si rac­con­ta­no (2023) par­la di un per­cor­so tor­men­to­so di mater­ni­tà ma anche di paro­le, gesti, (pre)giudizi che, fuo­ri e den­tro i cor­pi del­le don­ne, nel pri­va­to e nel poli­ti­co, se c’è dav­ve­ro una dif­fe­ren­za, non riu­scia­mo anco­ra del tut­to a rac­con­ta­re.

E allo­ra tor­no alla doman­da: sia­mo trop­po sen­si­bi­li?

All’ospedale di Ter­ni nes­su­no mi ha dato dell’isterica come è capi­ta­to a Enif Robert. 

Non ho subì­to un abu­so gra­ve come inve­ce alcu­ne del­le don­ne dei roman­zi sul­la Pro­crea­zio­ne Medi­cal­men­te Assi­sti­ta di cui si è occu­pa­ta Onnis o come ripor­ta­no i sem­pre più nume­ro­si fat­ti di cro­na­ca in Ita­lia dal Poli­cli­ni­co Umber­to I all’ospe­da­le Mag­gio­re di Bolo­gna: mi ripe­to che è sta­to solo per la fret­ta, un buf­fet­to di noia e nient’altro, ma è inu­ti­le men­ti­re, avrei pre­fe­ri­to che quel­le mani non mi trat­tas­se­ro in quel modo. Se il dot­tor S. aves­se volu­to instau­ra­re un rap­por­to di com­pli­ci­tà con me, lo avreb­be potu­to fare chie­den­do­mi che audio­li­bro stes­si ascol­tan­do quan­do è entra­to nel­la mia came­ra, o anche solo rispon­den­do con un sem­pli­ce nume­ro alla mia doman­da sull’emoglobina, come tut­te le altre dot­to­res­se pri­ma di lui. L’emoglobina è sali­ta fino a qui, deve arri­va­re fino a qua. È un atto mini­mo, ma è la dif­fe­ren­za tra esse­re una pazien­te e diven­ta­re solo car­ne gon­fia su un let­ti­no. Del resto, ormai sap­pia­mo che il lin­guag­gio non è mai neu­tro, che un buf­fet­to non è mai solo un buf­fet­to. Che dire ‘pan­cet­ta’ a una don­na che ha appe­na subi­to un’operazione d’urgenza signi­fi­ca anche ridur­la, mini­miz­za­re il suo dolo­re, infan­ti­liz­zar­la. La rispo­sta, allo­ra, è chia­ra: non sia­mo diven­ta­te trop­po sen­si­bi­li, abbia­mo sem­pli­ce­men­te impa­ra­to a far­ci pren­de­re sul serio. Ma pos­sia­mo scon­ge­lar­ci solo par­lan­do, pro­ble­ma­tiz­zan­do di più e alzan­do la voce insie­me.

Foto­gra­fia di Valen­ti­na De San­tis

Biblio­gra­fia

Il Fat­to Quo­ti­dia­no. 2025, 23 ago­sto. “Io, mole­sta­ta duran­te una Tac all’Umberto I di Roma”: la denun­cia di Mar­zia Sar­do diven­ta vira­le”:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/08/23/molestie-umberto-i-marzia-sardo-denuncia-notizie/8102670/ .

Lat­tan­zi, A. 2023. Cose che non si rac­con­ta­no, Einau­di, Tori­no.

La Repub­bli­ca. 2025, 16 mar­zo, “Ragaz­za rico­ve­ra­ta al Mag­gio­re denun­cia: “Mole­sta­ta da un ope­ra­to­re sani­ta­rio”. Aper­ta un’inchiesta”:

https://bologna.repubblica.it/cronaca/2025/03/16/news/bologna_ragazza_molestata_ospedale_maggiore_inchiesta-424066753/ .

Mann, T. [1924] 2011. [Der Zauer­berg] La mon­ta­gna incan­ta­ta, Cor­bac­cio, Mila­no.

Mosh­fe­gh, O. 2015. Eileen, Mon­da­do­ri, Mila­no.

Par­ra, N. 2019. L’ultimo spe­gne la luce, Bom­pia­ni, Mila­no.

Onnis, R. 2024. In viag­gio ver­so un figlio, Mel­te­mi, Mila­no.

Paso­li­ni, P. P. 1992. Petro­lio, Einau­di, Tori­no.

Enif, R. & Mari­net­ti, F. T. 1919 .Ven­tre di don­na. Roman­zo chi­rur­gi­co, Fac­chi Edi­to­re, Mila­no.



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