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Marzo
4 Marzo 2024

PAC­CHET­TO DI SIGA­RET­TE

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54 min

Drin Drin.
“Emme! Rispon­di tu.”
È tut­ta la mat­ti­na che mi rom­pe le pal­le. Se non le obbe­di­sco so già come andrà a fini­re: è col­pa tua di qui, non fai nien­te di là, e così via fino ad esau­ri­men­to scor­te. Deci­do quin­di di alzar­mi e rimet­te­re in moto il cer­vel­lo per un po’. Met­to in pau­sa il film su Net­flix e poso il com­pu­ter il più lon­ta­no pos­si­bi­le dal­la spon­da del let­to.
“Pron­to?” bia­sci­co. I tre pas­si per rag­giun­ge­re il cor­ri­do­io mi han­no già sfi­ni­to.
“Sabri, sei te?”
“Zia. No. Mam­ma è fuo­ri che frig­ge. Ti fac­cio richia­ma­re, ok?”
“Ok, va bene, ciao teso­ro”, e attac­ca.
L’inutilità del mio sfor­zo mi fa irri­ta­re. Tor­no a sdra­iar­mi sul let­to. Ripren­do il mio bel com­pu­ter e me lo ripo­si­zio­no sul­la pan­cia. Duran­te il movi­men­to noto che sul­la mano sini­stra ho anco­ra una cro­sti­ci­na di quan­do mi bru­ciai un paio di set­ti­ma­ne fa. Cer­co di tirar­la via con l’unghia ma tiro trop­po e comin­cia a san­gui­na­re. Mi infi­lo il dito in boc­ca e il sapo­re del san­gue mi pia­ce e vor­rei che san­gui­nas­se di più. Delu­sa, viro lo sguar­do sul mio ster­no lascia­to sco­per­to dal­la cami­cet­ta. Con la pun­ta dell’indice del­la mano destra tasto alla ricer­ca di un bru­fo­lo. Sen­to un’escrescenza duro­gno­la, smet­to di suc­chia­re il dito dell’altra mano e striz­zo. Qual­co­sa c’è ma non sem­bra pus. Io striz­zo anco­ra più for­te fin­ché una minu­sco­la goc­cia di liqui­do tra­spa­ren­te vie­ne fuo­ri e io mi do pace.
“Era Car­la?” mi gri­da mia madre da fuo­ri.
“Sì.”
“Che vuo­le ora?”
“Non lo so. Le ho det­to che la richia­mi tu.”
Sen­to che bofon­chia qual­co­sa ma non la voglio ascol­ta­re.
“Guar­da un po’ se vai su ad appa­rec­chia­re la tavo­la. Qui è qua­si pron­to”, sbot­ta infi­ne, avvi­ci­nan­do­si sicu­ra­men­te alla por­ta alme­no la sen­to meglio.
Non le rispon­do. Sa che le ubbi­di­sco. Sa che devo far­lo. Sa che sono costret­ta a far­lo per non sen­tir­mi rim­brot­ta­re più tar­di fino allo sfi­ni­men­to. Sa che glie­lo devo “per tut­to quel­lo che sta facen­do per noi”.
E quin­di mi alzo. Poso il com­pu­ter sul let­to, chiu­do il moni­tor, mi tol­go le mutan­de da den­tro il culo, mi met­to le cia­bat­te ed esco di came­ra. Fac­cio il giro lun­go per sali­re su dai miei non­ni. Voglio evi­ta­re di incro­cia­re mia madre. Non si sa mai che abbia in ser­bo qual­che altro ordi­ne. Secon­do me le pia­ce dar­mi gli ordi­ni.
Fuo­ri fa più cal­do che den­tro. Men­tre sal­go le sca­le noto una caga­ta di uccel­lo sec­ca su un gra­di­no. Più in giù, nasco­sto, vedo un moz­zi­co­ne vola­to via dal mio posa­ce­ne­re di coc­co che ten­go sem­pre sui gra­di­ni. Il moz­zi­co­ne deve esse­re lì da un po’, dato che ha lascia­to sot­to di sé una mac­chio­li­na mar­ron­ci­na. Pen­so che for­se anche i miei pol­mo­ni sono di quel colo­re. Mia madre me lo dice sem­pre che non dovrei fuma­re, ma a me rilas­sa.
Sal­go le sca­le. Rag­giun­go la fine e ansi­mo. Guar­do drit­ta davan­ti a me cer­can­do di non guar­dar­la nean­che con la coda dell’occhio. Ma inve­ce ecco­la lì, pos­sia­mo dire mae­sto­sa, sen­za ormai alcun pudo­re, sdra­ia­ta a gam­be aper­te sul­la sua nuo­va pol­tro­na ergo­no­mi­ca, che esi­bi­sce il suo pan­no­lo­ne bagna­to, strin­to fra cumu­li di gras­so che stra­bor­da­no come ricot­ta. Sem­bra pro­prio un molos­so, lì men­tre sor­seg­gia la sua bot­ti­gliet­ta di acqua tie­pi­da. Non rie­sce più a bere come un cri­stia­no. La man­di­bo­la infe­rio­re sem­bra scol­la­ta dal viso dan­do mostra dell’arcata infe­rio­re den­tro il lab­bro spor­gen­te. Pen­so che avrei sem­pre volu­to un cane. Nem­me­no si gira al rumo­re dei miei pas­si.

Nem­me­no per un secon­do pen­sa a rico­prir­si le gam­be, o alme­no il pube fascia­to come quel­lo di un bebè. Chi è que­sto alie­no?
“Non­na? Come stai?”
A mala­pe­na si gira a guar­dar­mi. Gli occhi fis­si sul­la fac­cia del Papa che dice la mes­sa con una voce buf­fa e incom­pren­si­bi­le. Lei la mes­sa l’ha sem­pre guar­da­ta in TV ogni dome­ni­ca da quan­do ha smes­so di anda­re in chie­sa. Ormai saran­no cin­que anni, cre­do. Le pas­so davan­ti e vado in cuci­na. Apro una cre­den­za e pren­do la tova­glia. L’odore di car­ne arro­sti­ta è arri­va­to fino a qui nono­stan­te sia tut­to sbar­ra­to, nean­che fos­se inver­no. Sten­do la tova­glia gros­so­la­na­men­te e mi accor­go che final­men­te gira la testa ver­so di me. Non sor­ri­de ma mi guar­da fis­sa con gli occhi di una che si è appe­na fat­ta un’enorme riga di coca.

“Non­na?”, ripe­to facen­do­le un sor­ri­so timo­ro­so.
“Eh…” Il suo­no che le esce dal­la boc­ca è a metà fra il lamen­to di pia­ce­re di un vec­chio che vede i suoi cari e il mugo­lio di un paz­zo a cui è sta­to tol­to il tele­co­man­do.
“Hai fame?” le chie­do non sapen­do che altro chie­der­le.
Nes­su­no sa ormai par­la­re altro che di cibo in que­sta casa. È l’argomento fran­co che è rima­sto ad acco­mu­nar­ci tut­ti. Mia madre cuci­na i con­tor­ni, mio non­no cuci­na la bra­ce, mia zia pre­pa­ra la capre­se quan­do vie­ne a tro­var­la o por­ta del cibo extra per lei in gra­zio­se baci­nel­le colo­ra­te, e io mi limi­to a man­gia­re. A tavo­la par­lia­mo del cibo che stia­mo man­gian­do, del cibo che cuci­ne­re­mo doma­ni, di quel­lo che potreb­be anda­re alla boc­ca cat­ti­va di mia non­na.
“No.…” guai­sce tor­nan­do con la fac­cia al tele­vi­so­re.
“Come no? Non hai man­gia­to sta­ma­ni.”
Ci met­te qual­che secon­do.
“Non­na?”
“No, eh.”
“Dai che oggi ci sono le alet­te di pol­lo alla bra­ce con le pata­ti­ne! Ti ci van­no le pata­ti­ne? Sono buo­ne. Quel­le nuo­ve. Non­no le ha rac­col­te sta­ma­ni.”
Non mi rispon­de. Con­ti­nuo ad appa­rec­chia­re la tavo­la. Pren­do tre bic­chie­ri e tre piat­ti pia­ni dal­la cre­den­za e me li met­to impi­la­ti sul brac­cio sini­stro per rispar­mia­re un viag­gio. Tor­no in sala e men­tre li siste­mo sen­to il rumo­re pla­sti­co­so del­la tra­ver­sa posi­zio­na­ta sot­to il suo culo per non mac­chia­re di pipì la pol­tro­na nuo­va. Alzo lo sguar­do e la vedo agi­tar­si. Pro­va a tirar­si su aggrap­pan­do­si gof­fa­men­te con entram­be le mani alle spal­lie­re.
“Non­na! Aspet­ta ti aiu­to io”, le dico pen­san­do che voglia cer­ca­re una posi­zio­ne più como­da.
Ma inve­ce alza una chiap­pa e scor­reg­gia con la finez­za di un camio­ni­sta. Poi ne tira un’altra e un’altra anco­ra. Non ave­vo mai sen­ti­to mia non­na tira­re una scor­reg­gia fino ad ora. Fac­cio fin­ta di nien­te. Lei non mi guar­da imba­raz­za­ta, né mi chie­de scu­sa. Fac­cio fin­ta di non ren­der­mi con­to nean­che di que­sto.
Ma non voglio nem­me­no dimen­ti­ca­re. Non la devo dimen­ti­ca­re. La ricor­do men­tre sten­de i pan­ni e can­ta. Can­ta­va bene, come Anna Magna­ni. I pac­chet­ti di siga­ret­te che com­pra­va e mi nascon­de­va nel cas­set­to, era il nostro pic­co­lo segre­to che tut­ti sape­va­no. Il suo biso­gno di veni­re a vede­re cosa stes­si facen­do ogni gior­no, anche quan­do non ero più pic­co­la. Le busti­ne di sol­di che mi dava sen­za biso­gno di una ricor­ren­za. Il suo sor­ri­so per­fet­to, più bel­lo che nel­le foto di quan­do ave­va vent’anni per­ché più dol­ce, più da non­na. La ricor­do men­tre mi por­ta­va in bici lun­go il via­le albe­ra­to per anda­re a tro­va­re mio non­no quan­do anco­ra lavo­ra­va. A sgra­na­re i pisel­li le sere d’estate. La meren­di­na il pome­rig­gio. Le gior­na­te a vede­re Mary Pop­pins. Io sedu­ta in brac­cio a lei appog­gia­ta alle sue enor­mi e mor­bi­de tet­to­ne da non­na.
E poi mi vie­ne in men­te quel­lo che dice mio non­no. Anzi, dice­va, pri­ma che fos­se ban­di­to qual­sia­si discor­so cupo: “Bim­ba, se riman­go un vege­ta­le, mi rac­co­man­do: sac­chet­to in testa e vai a com­prar­ti le siga­ret­te”, poi annui­va come a rispon­der­si di sì da solo. Avrei volu­to rispon­der­gli di sì anche io, ma non ce l’ho mai fat­ta. Rispon­de­re di sì signi­fi­ca­va accet­ta­re che un gior­no sareb­be mor­to, sareb­be­ro mor­ti tut­ti quel­li sedu­ti accan­to a me, pri­ma di me, e poi sarei mor­ta anche io.
Mi dimen­ti­co di fini­re di appa­rec­chia­re. Lei è sem­pre immo­bi­le sul­la sua pol­tro­na a pren­de­re aria tra le cosce. Vor­rei met­ter­mi a sede­re accan­to a lei ma io vera­men­te il Papa e i suoi discor­si da Papa non li sop­por­to. Lo vor­rei vede­re, lì che fa anco­ra quei discor­si con una non­na mes­sa male come la mia. Pro­ba­bil­men­te non ce l’ha mai avu­ta una non­na, il Papa.

Quin­di vado giù, mi man­ca­no solo die­ci minu­ti per fini­re il film. Poi si man­ge­rà, si deci­de­rà cosa man­gia­re sta­se­ra, si pren­de­rà il caf­fè e poi potrò tor­na­re a dige­ri­re e a non pen­sa­re bel­la sola nel­la mia stan­za.
Mi sdra­io sul let­to, ripren­do il com­pu­ter e sen­to il rim­bom­bo dal muro di un pas­so len­to, vec­chio e stan­co che sale le sca­le. È mio non­no che tor­na scon­fit­to da sua moglie con la bra­ce in mano. Sa già che lei ne man­ge­rà appe­na, e quel­lo che man­ge­rà andrà som­mer­so di maio­ne­se se voglia­mo che non scio­pe­ri del tut­to la fame. Ad entram­bi ci vie­ne il disgu­sto.

“Elsa”, la guar­da accen­nan­do una smor­fia simi­le ad un sor­ri­so. “Hai fame?”
Lei si gira ver­so di lui, muo­ven­do mac­chi­no­sa­men­te solo il col­lo e la testa ma tenen­do il resto del cor­po com­ple­ta­men­te immo­bi­le, le spal­le schiac­cia­te con­tro la pol­tro­na ergo­no­mi­ca bei­ge. Non rispon­de ma lo tra­fig­ge con lo sguar­do, come a dir­gli: “Per­ché non mi rom­pi? Così gros­sa non c’entro in un bido­ne, rom­pi­mi del tut­to, se mi ami”.
Lui per un secon­do ci pen­sa, a rom­per­la. Poi fis­sa per ter­ra, il pavi­men­to è sem­pre lì, soli­do, ma gli reg­ge comun­que le gam­be. Posa il cio­to­lo­ne con la car­ne alla bra­ce sul­la tavo­la, si sie­de a capo­ta­vo­la come sem­pre e ci aspet­ta. So che è lì che fis­sa il tele­vi­so­re spen­to. Non lo accen­dia­mo nean­che più, se no si rischia di non sen­ti­re non­na che si lamen­ta. Lo scher­mo nero sem­bra dir­gli qual­co­sa di brut­to, appog­gia i gomi­ti pesan­ti sul tavo­lo e si pren­de la testa tra le mani. Tra le dita gli si intra­ve­do­no gli occhi aper­ti, fis­si e appan­na­ti su quel­la tele­vi­sio­ne che gli dice cose sem­pre più brut­te.
Si asso­pi­sce per qual­che secon­do nel­la sua dispe­ra­zio­ne, fin­ché un altro rumo­re di pas­si, que­sta vol­ta magro e rit­ma­to, si acui­sce dal­la trom­ba del­le sca­le. Mia madre sta salen­do con un’enorme teglia di pata­te frit­te che osti­na­ta­men­te d’estate e d’inverno cuo­ce fuo­ri, sot­to la tet­to­ia, per non impuz­za­re la casa di frit­to. Anche la car­ne vuo­le che si cuo­cia fuo­ri per­ché è diven­ta­ta vege­ta­ria­na e ora l’odore di cic­cia mor­ta le fa veni­re la nau­sea. Io mi rifiu­to comun­que di cuo­ce­re fuo­ri. Un’altra enor­me per­di­ta di tem­po. Il puz­zo in casa va via, pri­ma o poi. Il tem­po per­so nes­su­no te lo ridà.
Appe­na pri­ma che sbu­chi il suo viso, mio non­no si ricom­po­ne; si stro­fi­na gli occhi, guar­da la tavo­la mez­za appa­rec­chia­ta, si alza spin­gen­do­si con le mani sul tavo­lo, guar­da mia non­na e va in cuci­na.
So che non con­ta­no su di me nean­che per appa­rec­chia­re e che lui lo sta per fini­re al posto mio. Non con­ta­no su di me per nien­te, alla fine. Que­sta cosa mi spez­za, mi spez­za tut­to, dal­le gam­be alle brac­cia. Non rie­sco ad aiu­tar­li in nes­sun modo, non rie­sco a far­lo bene. Se appa­rec­chio, mi dimen­ti­co qual­co­sa. Se puli­sco, lascio le mac­chie per­ché doso male il deter­si­vo per pavi­men­ti. Mia mam­ma infat­ti dice che ne met­to trop­po, ma io sono dell’idea che più ne met­ti, più vie­ne puli­to. E nes­su­no me lo toglie dal­la testa.
Ma soprat­tut­to, non rie­sco ad aiu­tar­li con mia non­na. Non rie­sco a dar­le da man­gia­re per­ché veder­la così, che si sbro­do­la come una enor­me bam­bo­la defor­ma­ta, mi fa veni­re da pian­ge­re. Non rie­sco ad alzar­la per­ché è trop­po pesan­te. E lavar­la, lascia­mo per­de­re. Era lei che lava­va me. Non pos­so sop­por­ta­re di dover­le toglie­re la mer­da dal pan­no­lo­ne. Anche se lei ora non lo sa e non lo può dire, so che non vor­reb­be che lo faces­si. Pre­fe­ri­reb­be mori­re. Lo so. E non vor­reb­be nean­che che lo faces­se­ro mio non­no, mia mam­ma o la zia. Ma qual­cu­no deve far­lo e di soli­to sono sem­pre i gran­di che fan­no le cose dif­fi­ci­li. Ma come si diven­ta gran­di se non facen­do cose dif­fi­ci­li? Io non rie­sco a far nul­la, di dif­fi­ci­le. Sono una smi­dol­la­ta. Qui sdra­ia­ta col mio film a non diven­ta­re gran­de.

“Le dia­mo da man­gia­re?” dice mia mam­ma appe­na atter­ra­ta in sala da pran­zo. “Mh”, bor­bot­ta lui.
“Mam­ma, ce la vuoi la maio­ne­se sul­le pata­te?”
Silen­zio.

“Sì, eh.”
“Bene! Due minu­ti e si man­gia.”
Mia mam­ma sgam­bet­ta in cuci­na e si met­te ad armeg­gia­re con qual­co­sa. Mio non­no nel men­tre ha una bot­ti­glia d’acqua in una mano e una di vino nell’altra. Vor­rei anda­re su ad aiu­tar­lo ma sono bloc­ca­ta nel let­to come se il com­pu­ter sul­la mia pan­cia pesas­se un quin­ta­le.
“Sabri­na!” urla d’un trat­to.
Mia mam­ma ha una scos­sa improv­vi­sa. In un nano­se­con­do si vol­ta a destra e a sini­stra come se si aspet­tas­se l’ag­gua­to di un leo­ne. Scat­ta in salot­to. Mio non­no, cur­vo su mia non­na, le sta reg­gen­do le spal­le men­tre lei ha la testa mez­za ribal­ta­ta all’indietro, gli occhi pure ribal­ta­ti e la boc­ca che le tre­ma. Sem­bra la Pie­tà di Miche­lan­ge­lo. L’ho stu­dia­ta a scuo­la.
Mia mam­ma rima­ne bloc­ca­ta a fis­sa­re la sce­na da un metro di distan­za, le brac­cia a mezz’aria e la boc­ca semia­per­ta come se stes­se gio­can­do a un due tre stel­la. Cer­ca di pen­sa­re a qual­co­sa, vuo­le una solu­zio­ne. Ma tut­to d’un trat­to non ce n’è più biso­gno. Gli occhi di mia non­na ruo­ta­no in avan­ti, la boc­ca si rad­driz­za e sem­bra aver tro­va­to di nuo­vo la capa­ci­tà di muo­ve­re il col­lo. Fis­sa mio non­no men­tre un filo di bava le sbor­da da un lato del­la boc­ca. Mi ricor­da quel ragaz­zi­no han­di­cap­pa­to che era con me alle medie. Pove­ri­no. Mi è sem­pre dispia­ciu­to pro­va­re pena per lui. Mia madre è sem­pre lì che guar­da sua madre han­di­cap­pa­ta e non si muo­ve. Solo imper­cet­ti­bil­men­te, e se uno le fos­se pro­prio vici­no vici­no potreb­be nota­re che le sue dita stan­no tre­man­do come una zan­za­ra che frig­ge.
“Elsa…” geme mio non­no men­tre la fis­sa, invec­chia­to di altri die­ci anni in qual­che secon­do. Lei gli fis­sa la mano che è anco­ra stret­ta intor­no alla sua spal­la e ten­ta di alza­re la sua.
“Hai sete?” le chie­de e sen­za aspet­ta­re rispo­sta si allun­ga e affer­ra la bot­ti­gliet­ta di pri­ma con la can­nuc­cia ros­sa che spun­ta. Glie­la avvi­ci­na alla boc­ca e lei strin­ge la can­nuc­cia tra i den­ti e suc­chia pia­no pia­no, con il lab­bro pen­zo­lo­ni, facen­do usci­re dell’acqua dai lati del­la boc­ca.
Mia madre, intan­to, si è rin­sa­vi­ta e sta armeg­gian­do col cel­lu­la­re. Pre­me un tasto e si met­te il tele­fo­no all’orecchio men­tre cam­mi­na impa­zien­te tra il salot­to e la cuci­na vol­tan­do­si ogni tre secon­di ver­so mia non­na.
“Il dot­to­re non rispon­de!”
“Che si fa?” chie­de lui con con la voce stroz­za­ta.
“Non ne ho idea.”
“Chia­mia­mo l’ambulanza?”
Mia mam­ma non rispon­de ma pen­sa che non ce la fareb­be a rifa­re le not­ti all’ospedale e si sen­te in col­pa.
Qual­co­sa vibra.
“Aspet­ta, mi sta richia­man­do”, e cor­re sul ter­raz­zo dove pren­de meglio. “Sal­ve dot­to­re”, e poi non si capi­sce più nul­la.
Mio non­no la fis­sa da den­tro come un cane a cui è sta­to coman­da­to di star fer­mo. La fis­sa anche se non la vede più. Poi ad un cer­to pun­to lei risbu­ca. Sta ammic­can­do al tele­fo­no.
“Mh”, bor­bot­ta con la boc­ca stret­ta e le soprac­ci­glia arric­cia­te. “Ma dice che è nor­ma­le così?”
Mio non­no nel men­tre guar­da mia non­na che inve­ce guar­da nel vuo­to. For­se si aspet­ta che lei lo con­so­li dicen­do­gli che è nor­ma­le così, che dopo una cadu­ta dal­le sca­le e la man­can­za di ossi­ge­no al cer­vel­lo que­ste cri­si sono nor­ma­li, che un’ischemia può cau­sa­re in segui­to ripe­tu­te alte­ra­zio­ni car­dia­che che por­ta­no per­di­te di coscien­za momen­ta­nee.

Mia non­na però non dice nes­su­na di que­ste cose. Lo fa mia madre al suo posto non appe­na met­te giù, finen­do con l’inutile ras­si­cu­ra­zio­ne che il dot­to­re la ver­rà a visi­ta­re o oggi o doma­ni mat­ti­na pre­sto.
Per­ché in fon­do si sa tut­ti come andrà a fini­re. Lei smet­te­rà del tut­to di obbe­di­re al fisio­te­ra­pi­sta, smet­te­rà anche di man­gia­re, poi avrà un’altra ische­mia, una bel­la for­te, rian­drà all’ospedale in ambu­lan­za men­tre noi tre in cia­bat­te nel mez­zo del­la not­te sta­re­mo a guar­da­re imbam­bo­la­ti come fale­ne le luci che si allon­ta­na­no dal via­let­to. E all’ospedale la nutri­ran­no con un son­di­no, le sue ener­gie eva­po­re­ran­no com­ple­ta­men­te, ver­rà intu­ba­ta, e alla fine i reni col­las­se­ran­no e di mia non­na reste­rà solo un con­te­ni­to­re vuo­to, pri­vo di qual­sia­si essen­za.

E que­sto con­te­ni­to­re poi si riem­pi­rà di acqua e sco­rie come uno sca­to­lo­ne di car­ta sot­to un tem­po­ra­le. E ver­rà mes­so in una bara e chiu­so con i chio­di. E ver­rà mura­to in alto, accan­to ai miei bisnon­ni, non per ter­ra per­ché lei non vole­va pren­der acqua da mor­ta. E tut­to que­sto dure­rà un mese infi­ni­to. E non si potrà evi­ta­re.

Ma for­se è l’ora che io sal­ga su. Tra poco vedrai che si man­gia. Pri­ma però biso­gna dare da man­gia­re a lei. Non casca il mon­do se aspet­to qual­che secon­do in più.
Infat­ti mio non­no si sta seden­do pro­prio ades­so davan­ti alla sua pol­tro­na su un puff mes­so lì appo­sta. Guar­da il piat­to fon­do pie­no di alet­te accu­ra­ta­men­te disos­sa­te e di pata­ti­ne rico­per­te di maio­ne­se che tie­ne in mano, e pen­sa che sem­bra la cio­to­la di un cane. Si ren­de anche con­to che gli è pas­sa­ta la fame. Alza lo sguar­do ver­so di lei e si accor­ge che man­ca qual­co­sa. Si alza di nuo­vo, pog­gia il piat­to sul puff e va in cuci­na. Pren­de un bava­glio da un cas­set­to e tor­na cia­bat­tan­do ver­so la sua posta­zio­ne. Le lega il bava­glio intor­no al col­lo e ripren­de il piat­to in mano. Deve esse­re pro­prio dif­fi­ci­le ritro­var­si a imboc­ca­re tua moglie.

“Emme dov’è?” chie­de mia madre guar­dan­do­si intor­no.
“Dove vuoi che sia”, rispon­de lui men­tre allun­ga il cuc­chia­io gela­ti­no­so ver­so la ser­ra­tu­ra den­ta­ta di mia non­na.
Mia mam­ma è arrab­bia­ta, lo so. Lo sen­to. For­se non tan­to con me, ma sono l’unica con cui si può arrab­bia­re. For­se le do anche io volon­ta­ria­men­te tut­te le ragio­ni per far­lo.
“Emme!” urla lei all’improvviso dal­la trom­ba del­le sca­le.
Via. È l’ora. È l’ora di anda­re in sce­na. La soli­ta sce­na da set­ti­ma­ne con le soli­te bana­li bat­tu­te. Ho il vol­ta­sto­ma­co. Scat­to sul dal let­to con un’energia che non pen­sa­vo di ave­re…
“Ma dov’eri?”
“Eh, scu­sa. Mi ero appi­so­la­ta.” Men­to spu­do­ra­ta­men­te ma so che anche se aves­si det­to la veri­tà non avrei sor­pre­so nes­su­no. Riman­go un atti­mo in pie­di davan­ti al tavo­lo.
“Man­ca nien­te?” dico men­tre mi sie­do.
“La tua acqua. Pren­di­te­la.”
Non bevo l’idrolitina come loro, è sala­ta quell’acqua. Stan­no tut­ti a lamen­tar­si dell’acqua del mare quan­do la bevo­no e poi a casa riem­pio­no le bot­ti­glie di idro­li­ti­na. Non mi alzo, bevo dopo. Pren­do inve­ce un paio di alet­te di pol­lo e me le met­to nel piat­to. Mi allun­go poi ver­so il vas­so­io di pata­ti­ne. Ci sta­reb­be­ro bene due sal­se. A que­sto pen­sie­ro la testa mi si alza invo­lon­ta­ria­men­te ver­so mia non­na. La sua cio­to­la è qua­si vuo­ta e un po’ del­la maio­ne­se che fino a poco fa era nel piat­to pen­zo­la ora ai lati del­la sua boc­ca.
Pen­so che alla fine pos­so evi­tar­le, le sal­se. Pren­do inve­ce una man­cia­ta di sale e me lo spruz­zo sul­le pata­te in abbon­dan­za. Mia mam­ma sala pochis­si­mo, nul­la direi. Dice che il sale fa veni­re il cole­ste­ro­lo. Secon­do lei tut­te le cose buo­ne fan­no male. Sarà allo­ra che inve­ce le cose cat­ti­ve fan­no bene?
“Ne vuoi di più?” le chie­de lui.
“No, eh”, sospi­ra lei.

“Ha man­gia­to tut­to?” doman­da mia madre che si sta met­ten­do a sede­re con in mano il suo piat­to di cic­ci­na fin­ta di sei­tan, come la chia­ma lei.
Ecco, lì sopra la maio­ne­se sareb­be d’obbligo per copri­re quel sapo­rac­cio pla­sti­co­so. Una vol­ta è riu­sci­ta anche a far­me­la assag­gia­re: “È ugua­le al pol­lo”, mi dis­se. Ma non ci casco più. Io non so cosa abbia lei al posto del­le papil­le gusta­ti­ve ma quel­lo è tut­to fuor­ché pol­lo.

Mio non­no si alza. Mia non­na ha di nuo­vo gli occhi pun­ta­ti ver­so la TV. Il Papa final­men­te ha fini­to e ora è in onda Linea Ver­de. Dal­la sua espres­sio­ne ebe­te ho i miei dub­bi che rie­sca a rece­pi­re quel­lo che dico­no. For­se le don­ne che un tem­po veni­va­no man­da­te negli ospe­da­li psi­chia­tri­ci dai mari­ti ave­va­no pro­prio la stes­sa espres­sio­ne dopo l’elettroshock. Anche que­sto l’ho impa­ra­to a scuo­la.

A veder­la così uno non ci cre­de­reb­be che pri­ma ave­va la memo­ria di un del­fi­no. Riu­sci­va a fare un cru­ci­ver­ba, tut­to un cru­ci­ver­ba in un bat­ti­ba­le­no. Era un dizio­na­rio di non­na. Sape­va il nome di tut­ti quel­li che vede­va in TV, gior­na­li­sti, pre­sen­ta­to­ri o pre­sen­ta­tri­ci, gli omi­ni del meteo, anche se li ave­va visti o sen­ti­ti una vol­ta sola. Cre­do che li sapes­se tut­ti tran­ne due: uno che chia­ma­va sem­pre Giac­chet­ton per­ché men­tre pre­sen­ta­va il TG indos­sa­va sem­pre una giac­ca enor­me con le mani­che stra­bor­dan­ti; e una che chia­ma­va Den­to­na, e il moti­vo si capi­sce da soli. Mia non­na odia­va quel­li coi den­to­ni. Sono sicu­ra che fos­se il suo uni­co pec­ca­to. Chis­sà per­ché. For­se qual­che bam­bi­no coi den­to­ni l’aveva bul­liz­za­ta da pic­ci­na. Lei non ce l’ha mai det­to e io non cre­do di aver­glie­lo mai chie­sto.

Ed ora ecco­la lì, esem­pio lam­pan­te del­la leg­ge del con­trap­pas­so. Una mez­za ebe­te sma­scel­la­ta che non rie­sce a nutrir­si o a far­si nutri­re decen­te­men­te a cau­sa dei den­ti di fuo­ri.
Un faz­zo­let­to le acca­rez­za dol­ce­men­te la boc­ca. Le bavet­te sono spa­ri­te.
“Oh, issa.”

Mio non­no si è tira­to su dal puff. Arran­ca in cuci­na, il cuc­chia­io schioc­ca nel piat­to posa­to nel lava­bo. Poi risbu­ca e si sie­de.
“Bim­ba, pas­sa­mi un po’ di vino”, mi chie­de.
Glie­lo pas­so. Final­men­te sia­mo tut­ti e tre sedu­ti al tavo­lo. Ini­zia il con­to alla rove­scia. Di soli­to si man­gia in die­ci minu­ti al mas­si­mo. Do un’occhiata ad entram­bi; lei sta smi­nuz­zan­do i già pic­co­li pez­zet­ti­ni di sei­tan, lui titu­ba davan­ti alla cio­to­la con le alet­te come se doves­se sce­glie­re da un menù poco appe­ti­to­so, io do ini­zio alle dan­ze pren­den­do un’aletta con le mani e la azzan­no.

“Come sono venu­te?” doman­da lui. “Buo­nis­si­me, non­no.”
“Non sono trop­po pic­can­ti?”
“No no. A me piac­cio­no.”

“Bene, allo­ra ne man­gio una anch’io, via.”
Ne pren­de una pic­co­la e se la met­te nel piat­to. Anche lui allun­ga la mano ver­so la salie­ra e ci spruz­za abbo­nan­te sale. Secon­do me non sono scioc­che quel­le, ma lui fa sem­pre così. Anche in un piat­to di sale ci met­te­reb­be il sale sopra. Mia mam­ma lo guar­da e stor­ce la boc­ca. Lui affer­ra la mini-alet­ta con le sue mano­ne da con­ta­di­no e ci tira un mor­sot­to.
“Mh, dai. Non son venu­te cat­ti­ve.”
“Ma sì eh”, rispon­do io a boc­ca pie­na.
“Papà, non le vuoi due pata­ti­ne?” chie­de mia mam­ma allun­gan­do­gli il vas­so­io.
“Sì, via, ma due di nume­ro”, e con la soli­ta mano­na ne affer­ra una man­cia­ta e se la but­ta nel piat­to. Il pran­zo fini­sce in fret­ta. Io che mi stra­fo­go, mia mam­ma che man­gia come un cana­ri­no il suo pasto magro e sten­ta­to e mio non­no che al posto dell’apparato dige­ren­te ha un tubo diret­to al culo e in die­ci minu­ti è l’ora del caf­fè. Mi sen­to così in col­pa per non aver fat­to nien­te, e sin­ce­ra­men­te ho anche tan­ta voglia di tor­na­re al mio film, che deci­do di ren­der­mi uti­le.
“Lo pre­pa­ro io il caf­fè”, dico men­tre mi alzo.

Mia mam­ma si sve­glia dal suo tor­po­re: “Sì, però non ci met­te­re poca acqua, che te lo fai trop­po for­te il caf­fè”.
“Ok”, rispon­do pen­san­do che mi è già pas­sa­ta la voglia.
Apro il mobi­let­to dove si tro­va la moka, accen­do il rubi­net­to e da bra­va bam­bi­na la riem­pio fino al bul­lo­ne, non di meno, per cari­tà, sen­nò quel­la là chi la sen­te dopo.

“Non­no, lo vuoi cor­ret­to?” dico a voce alta men­tre riem­pio accu­ra­ta­men­te il fil­tro di caf­fè.
“No, oggi no”, rispon­de lui.
È da quan­do è cam­bia­ta mia non­na che il caf­fè non lo pren­de più cor­ret­to. Se mi chie­des­se­ro di espri­me­re un desi­de­rio ades­so, qua­lun­que desi­de­rio, vor­rei che mio non­no rico­min­cias­se a met­te­re il liquo­re nel caf­fè.
Accen­do il fuo­co, ma schiop­pet­ta e non par­te. Tiro un moc­co­lo men­ta­le e pren­do l’accendino al lato dei for­nel­li. La moka final­men­te è sul fuo­co. Ora spa­rec­chio, bevo il caf­fè, scuo­to la tova­glia, fumo una siga­ret­ta e fac­cio un piso­li­no davan­ti al com­pu­ter e tut­to il resto spa­ri­sce.
Tor­no in cuci­na e pren­do per pri­ma cosa i piat­ti che mi impi­lo di nuo­vo sul soli­to brac­cio, li appog­gio nel lavel­lo e uno ad uno ci tol­go i rima­su­gli di cibo con un po’ di Scot­tex per­ché mi fa schi­fo, e li get­to nell’umido.
Sen­to una sedia stri­de­re, mia mam­ma mi si avvi­ci­na da die­tro. Non si fida di come met­to i piat­ti nel­la lava­sto­vi­glie.
“Vie­ni, fac­cio io”, mi dice infat­ti, e il suo è più un ordi­ne che una gen­ti­lez­za.
Con­trol­lo allo­ra il caf­fè che sta ini­zian­do a fuma­re. Alzo il coper­chio e quel­lo sta comin­cian­do ad usci­re bel­lo den­so dal­la pipet­ta. Pren­do allo­ra le taz­zi­ne dal­la cre­den­za, ne alli­neo tre davan­ti a me, mi allun­go a pren­de­re lo zuc­che­ro e le riem­pio tut­te e tre; la mia con un bel cuc­chia­io, quel­la di mio non­no con due cuc­chiai pie­ni e quel­la di mia madre con una pun­ti­na per­ché lo zuc­che­ro fa male.
“A non­na lo fac­cio il caf­fè?” le chie­do per smor­za­re il tem­po.
Lei ha una ghi­gna che le toc­ca il pavi­men­to, ha gli occhi fis­si sui piat­ti che pra­ti­ca­men­te sta già lavan­do con spu­gna e sapo­ne e pen­so che sia inu­ti­le met­ter­li nel­la lava­sto­vi­glie, ma non le dico nul­la.
“Mam­ma?”
“Eh?” rispon­de lei che solo ades­so mi ha sen­ti­to.
“Dice­vo, a non­na lo fac­cio il caf­fè?”
“Pro­va a sen­ti­re se lo vuo­le.”
Spe­ra­vo non mi dices­se così. Chiu­do gli occhi e inspi­ro. Mi vol­to e vado ver­so mia non­na con lo sguar­do al pavi­men­to. Le arri­vo davan­ti, noto i pie­do­ni gon­fi con cen­ti­na­ia di capil­la­ri ram­pi­can­ti che da quan­to sono livi­di sem­bra­no qua­si bol­li­ti.
“Non­na?”
Alzo lo sguar­do. Lei mi guar­da come si guar­da un fan­ta­sma.
Deglu­ti­sco: “Lo vuoi il caf­fè?“
Ad un cer­to pun­to lei mi sor­ri­de, le pia­ce­va il caf­fè.
“Sì, eh”, rispon­de qua­si deci­sa, rimet­ten­do­si subi­to a guar­da­re la TV. Le sor­ri­do come si fa ad un cane mol­to vec­chio quan­do ti pas­sa accan­to. Mi affret­to in cuci­na e aggiun­go una taz­zi­na. “Met­ti­glie­lo in una taz­za gran­de che in quel­la non rie­sce a ber­lo”, erom­pe mia madre che ha appe­na fini­to di riem­pi­re la lava­sto­vi­glie con le sto­vi­glie puli­te.
Pren­do allo­ra una taz­za da lat­te e ci aggiun­go un cuc­chia­io e mez­zo di zuc­che­ro. Spen­go il fuo­co e ver­so il caf­fè: stra­col­mo per mio non­no, qua­si pie­no per me, due dita per mia mam­ma e il rima­nen­te per mia non­na che pro­ba­bil­men­te non sa nem­me­no di aver­lo volu­to.
“Glie­lo dai tu a non­na?” men­di­co io.
“Sì. Glie­lo do io.”

Guar­da la fila di taz­zi­ne. Poi pren­de quel­la giu­sta e mi gira le spal­le. Io pren­do le altre e le por­to di là.
Mi sie­do accan­to a mio non­no e lo guar­do men­tre sof­fia sul suo caf­fè con un’espressione buf­fa che se non sapes­si che lui non è tipo da smor­fie, pen­se­rei che lo stia facen­do solo per far­mi ride­re. Ne beve un sor­so, fa la boc­cuc­cia, si suc­chia le guan­ce e mi guar­da.

“T’è venu­to buo­no.”
“Gra­zie”, rispon­do con­ten­tis­si­ma nean­che mi aves­se dato la busti­na di sol­di del­le feste. Sor­ri­do e pren­do la mia taz­zi­na qua­si ansio­sa di assag­giar­lo io stes­sa il mio buon caf­fè.
Mia madre si alza dal puff. Tor­na a sede­re a tavo­la. Si sie­de come una signo­ri­na e ini­zia a gira­re lo zuc­che­ro col cuc­chiai­no guar­dan­do la fine­stra drit­ta davan­ti a sé. La guar­do e pen­so che se fos­se diver­sa sareb­be tut­to più faci­le. Lo sguar­do mi cade sul tavo­lo e vedo la taz­zo­na di mia non­na con tut­to il caf­fè den­tro. Mia madre avvi­ci­na la sua taz­zi­na alla boc­ca che si arro­ton­da a culet­to mostran­do tut­te le sue rughe da cin­quan­ten­ne poco cura­ta. Io la con­ti­nuo a fis­sa­re invo­lon­ta­ria­men­te e ogni suo gesto sem­bra a ral­len­ta­to­re. La sua boc­ca si digri­gna in una smor­fia di disgu­sto.
“Ma l’hai fat­to ama­ris­si­mo”, dice pra­ti­ca­men­te get­tan­do la taz­zi­na sul tavo­lo. “È imbe­vi­bi­le. Lo devo fare io il caf­fè, via”, e si alza pren­den­do di nuo­vo la taz­zi­na e por­tan­do­se­la via.
A pas­so svel­to va in cuci­na e ci scom­met­to che sta ver­san­do il caf­fè nel lavel­lo nean­che fos­se il pan­no­lo­ne puz­zo­len­te di non­na. Io giro lo sguar­do a mio non­no che pun­tual­men­te evi­ta il mio.
“È così, che si deve fare”, bofon­chia lui sen­za che lei lo sen­ta.

Mi irri­gi­di­sco, non si può vive­re così. Non ci si può met­te­re anche lei a cro­ci­fig­ge­re tut­ti dall’alto del­la sua per­fe­zio­ne. Non­na non l’avrebbe mai fat­to. È sem­pre sta­ta così anti­pa­ti­ca ma da quan­do non­na è in que­sto sta­to è diven­ta­ta anche peg­gio, insop­por­ta­bi­le. Non ce la fac­cio più a sen­tir­mi trat­ta­re come una mon­go­loi­de. E che caz­zo, non ne fac­cio una giu­sta. Ma quel gior­no, che mi ha fat­to a fare?
Ecco­la che risbu­ca dal­la cuci­na. Pren­de il suo piat­to e quel­lo di mio non­no e men­tre ripar­te mi dice: “Via ma che fai, devo fare tut­to io anche oggi?”
La fis­so col­ma di rab­bia. Scat­to in pie­di e pren­do le bot­ti­glie e una vor­rei tirar­glie­la in testa. Ci ritro­via­mo in cuci­na una di schie­na all’altra.
Non rie­sco a sta­re zit­ta: “Comun­que dat­ti una cal­ma­ta”.
“Cosa? Dat­ti una cal­ma­ta? Fac­cio tut­to io in que­sta casa.”
“Sì oh, e non­no non fa nul­la, giu­sto?”
“Ma che vuol dire? Lui è in pen­sio­ne. Ci vai tu a lavo­ra­re otto ore al posto mio?”
“Tran­quil­la che appe­na fini­ta la scuo­la mi tro­vo subi­to un lavo­ro.”
“Sì, ti ci voglio vede­re, sfa­ti­ca­ta come sei come ti pren­do­no a lavo­ra­re.”
“Ah già, sei bra­va solo te, dimen­ti­ca­vo.”
“Ti sem­bra di esse­re bra­va a far qual­co­sa tu?”
“A scuo­la vado bene.”
“Oh, hai la media del set­te, a casa mia è sopra il suf­fi­cien­te.”
“Ma che caz­zo dici? Il set­te è distin­to a casa mia.”
“Hai pra­ti­ca­men­te da fare solo quel­lo.”
“Per­ché scu­sa te quan­to ave­vi quan­do anda­vi a scuo­la?”
“Io non chie­de­vo tut­to quel­lo che chie­di tu.”
“E cosa chie­do io? Vado avan­ti coi sol­di che mi dà papà.”
“Sì, i sol­di del man­te­ni­men­to che dovrei tene­re io ma che ti pren­di tut­ti tu.”
“E tie­ni­te­li allo­ra! Basta che la smet­ti di rom­pe­re le pal­le.”
“Io i sol­di di tuo padre non li voglio.”
“E allo­ra non rom­pe­re le pal­le.”

“La fare­te fini­ta una vol­ta per tut­te voi due”, tuo­na mio non­no, fac­cia nel­le mani, e la sua voce caver­ni­co­la improv­vi­sa­men­te ci pla­ca. Entram­be bam­bi­ne col bron­cio, poco cre­sciu­te.
“Via io vado giù, non ti sop­por­to più.”
“Bra­va tor­na a let­to.”

Cor­ro incu­li­ta ver­so le sca­le e vedo mio non­no pie­ga­to sul tavo­lo con la testa tra le mani. Mi ver­go­gno, e mi ver­go­gno di mia madre per­ché so che lei non si ver­go­gna.
Apro la por­ta del­la mia stan­za. Fac­cio per pren­de­re una siga­ret­ta sul mobi­let­to ma il pac­chet­to è vuo­to. Dia­mi­ne. Mi but­to sul let­to. Che col­pa ne ho io se sul let­to ci sto così bene. E anche se fos­si nata inca­pa­ce, non sono sta­ta io a far­mi, sarà anche col­pa loro.

La por­ta è rima­sta aper­ta, allun­go una gam­ba e con una spin­ta rie­sco a chiu­der­la sbat­ten­do­la. Sono tal­men­te ner­vo­sa che non mi va nem­me­no di guar­da­re il film. Vor­rei poter sen­ti­re cosa sta­rà dicen­do ades­so mia madre a mio non­no. Sicu­ra­men­te che “sono una figlio­la ingra­ta”, che “sono ugua­le a mio padre”, che “sarei dovu­ta anda­re a sta­re da lui” e così via, men­tre quel pover’uomo pen­sa che sareb­be meglio che ci toglies­si­mo dal­le pal­le tut­te e due e for­se il sac­chet­to in testa se lo vor­reb­be met­ter lui da sé per smet­ter­la di sen­tir­ci che ci scan­nia­mo così men­tre mia non­na mar­ci­sce in silen­zio.

Ven­go inter­rot­ta da un rumo­re di pas­si. È mia madre che è sce­sa e ora è entra­ta in came­ra sua per cam­biar­si. Poi rumo­re di gruc­ce, silen­zio, altri pas­si svel­ti ver­so il bagno, rubi­net­to aper­to, spaz­zo­li­no, spu­to, spaz­zo­la, inter­rut­to­re, altri pas­si ver­so la cuci­na, por­ta d’ingresso che sbat­te.
E final­men­te, silen­zio. Se n’è anda­ta e per quat­tro ore pos­so sta­re in pace. Da sopra la mia testa sen­to altri pas­si, que­sto è mio non­no che si va a ripo­sa­re un’oretta. Mia non­na dopo pran­zo dor­me sem­pre, non più con mio non­no ma sul­la sua pol­tro­na. Lui le abbas­sa lo schie­na­le col tele­co­man­di­no e lei si are­na lì e chiu­de gli occhi buo­na come il pane. Que­sto è l’unico momen­to di ripo­so di mio non­no. Non è vero che non fa nul­la, lui sta con lei tut­ta la not­te a con­trol­lar­la per­ché è di not­te che lei fa le biz­ze. Saran­no coli­che o avrà pau­ra del buio, non lo so. Però sen­to sem­pre un gran tram­bu­sto da sopra e dor­mo male pure io. Mam­ma non ne par­la mai, non so se lei lo sen­te ma io sì. E la mat­ti­na anda­re a scuo­la ed esse­re da otto è dura.

Pen­so che nean­che mi ricor­do più come si sta­va pri­ma di sta­re così, si sta­va meglio però. Tran­ne quan­do io e mam­ma liti­ga­va­mo e non­na allo­ra pian­ge­va e non­no si incaz­za­va con noi. È sem­pre sta­ta trop­po sen­si­bi­le. Un po’ sono anche io così, ma non come lei. Spe­ro solo che ades­so non capi­sca cosa le suc­ce­de intor­no e non stia male per la sbu­fe­ra­ta di oggi.

La dovrei smet­te­re di rispon­de­re a mia madre comun­que. Sareb­be segno di matu­ri­tà. Alme­no cam­bie­rei le cose in qual­che modo. O for­se dovrei met­ter­me­lo io il sac­chet­to in testa visto che non sono capa­ce di far nul­la e sono solo un peso. Ma dopo sono con­vin­ta che lei ci sta­reb­be di mer­da se non ci fos­si più.

O for­se dovreb­be met­ter­se­lo lei, così io e mio non­no sta­rem­mo tran­quil­li e in pace. Ci sareb­be­ro però tut­te le puli­zie da fare, che io non ho voglia. Si potreb­be­ro usa­re i sol­di di papà per paga­re una don­na che ven­ga a sti­ra­re e spol­ve­ra­re. Ma chis­sà quan­to pren­de una don­na per puli­re? E dove si tro­va.

Alla fine, for­se è a mia non­na che andreb­be mes­so un sac­co in testa. Alme­no smet­te­reb­be di sof­fri­re, mio non­no pri­ma o poi se ne fareb­be una ragio­ne per­ché lui è sem­pre sta­to più for­te di lei e sicu­ra­men­te sof­fri­reb­be meno se lei spa­ris­se piut­to­sto che a veder­la sva­ni­re così. E mam­ma si dareb­be una cal­ma­ta e la smet­te­reb­be di esse­re così tan­to odio­sa, ed io allo­ra sarei più tran­quil­la, dor­mi­rei meglio, sarei meno stan­ca e potrei aiu­ta­re di più in casa e pren­de­re otto a scuo­la.

Ma per fare una cosa del gene­re ci vuo­le corag­gio, come papà e mam­ma quan­do fece­ro sop­pri­me­re Bob che ave­va il can­cro e non man­gia­va più. Papà mi rac­con­tò che quan­do morì era fra le sue brac­cia e la sua testa ad un cer­to pun­to bar­col­lò all’indietro ed era mor­to. Non­na avreb­be anche l’appoggio del­la pol­tro­na quin­di la sua testa rimar­reb­be ammo­do, al mas­si­mo pen­de­reb­be da un lato.
“Bim­ba, se riman­go un vege­ta­le, mi rac­co­man­do: sac­chet­to in testa e vai a com­prar­ti le siga­ret­te”, mi risuo­na nel­la testa.

Ma avrei il corag­gio? Quan­to ci met­te­rà uno a mori­re con un sac­chet­to in testa? For­se una sirin­ga sareb­be meglio ma io ho sem­pre avu­to pau­ra del­le pun­tu­re. Di sac­chet­ti in casa ne abbia­mo a biz­zef­fe, non­no tie­ne quel­li per la spaz­za­tu­ra in un cas­set­to. Poi le andreb­be fis­sa­to al col­lo però, lo scotch cre­do sia in un cas­set­to sot­to il tele­vi­so­re, ci ave­vo attac­ca­to una foto in came­ra qual­che gior­no fa. E maga­ri dopo tut­to cam­bia e io diven­to matu­ra e tut­ti sia­mo mol­to più feli­ci e non­na cre­de in Dio, quin­di, andrà in para­di­so e sarà anche lei più con­ten­ta e in pace.

Il sof­fit­to è bian­chis­si­mo. Mi alzo. Apro deli­ca­ta­men­te la por­ta, vado in salot­to e apro il cas­set­to sot­to il tele­vi­so­re. Mi ricor­da­vo bene. Pren­do lo scotch. Apro la por­ta. Sal­go le sca­le e sono leg­ge­ra. Guar­do mia non­na che dor­me sul­la sua pol­tro­na. Arri­vo in cuci­na e apro il cas­set­to dei sac­chet­ti, ne pren­do uno. Tor­no in salot­to e mi fer­mo davan­ti a lei che si è sve­glia­ta e ha gli occhi aper­ti drit­ti ver­so di me. Mi guar­da che mi avvi­ci­no con il sac­chet­to di pla­sti­ca e lo scotch in mano. Mi avvi­ci­no pia­no, come un gat­to mal­fi­da­to. Ma il suo sguar­do sem­bra acco­glien­te, bene­vo­lo. Mi chi­no davan­ti a lei e lei non smet­te di guar­dar­mi. Sto pian­gen­do in silen­zio. Le appog­gio una mano su una guan­cia rugo­sa, la fac­cio sci­vo­la­re giù sul­la spal­la e poi la spo­sto die­tro la sca­po­la, dol­ce­men­te. Le sal­to poi addos­so e la abbrac­cio e mi scap­pa un sin­ghioz­zo ma non devo far­mi sen­ti­re quin­di sof­fo­co la fac­cia nell’incavo del­la sua cla­vi­co­la e respi­ro il suo odo­re, lo assor­bo come ossi­ge­no. Lo memo­riz­zo, ne ana­liz­zo il DNA per non dimen­ti­car­lo, anche se so che lo dimen­ti­che­rò. Que­sto pen­sie­ro mi fa sin­ghioz­za­re di nuo­vo, ma devo esse­re for­te, devo esse­re gran­de. Mi allon­ta­no dal suo cor­po e la guar­do. Le pren­do una mano e lei, ina­spet­ta­ta­men­te, me la strin­ge, me la strin­ge for­tis­si­mo. In que­sto momen­to voglio cre­de­re che esi­sta un para­di­so per lei da qual­che par­te.

“Ci vedia­mo pre­sto, va bene?”
Lei mi guar­da.
“Sì, eh”, rispon­de e so che la smor­fia che si for­ma sul suo viso è un bel­lis­si­mo sor­ri­so. Il più bel­lo che mi abbia mai fat­to.
Mi alzo, le gam­be mi tre­ma­no, le mani mi tre­ma­no e non rie­sco a sepa­ra­re i due stra­ti del sac­chet­to di pla­sti­ca. Il rumo­re di una rus­sa­ta di mio non­no mi fa sus­sul­ta­re. Ma è ora il momen­to giu­sto, ora che dor­me pesan­te­men­te. Apro il sac­chet­to final­men­te. Guar­do per un’ultima vol­ta il sor­ri­so di mia non­na e le inse­ri­sco la testa nel sac­chet­to. Lei è doci­le come un cane a cui stai per toglie­re una zec­ca. A vol­te far male è per il bene. E i cani lo san­no, e mia non­na lo sa. Sbuc­cio lo scotch ma mi sci­vo­la nel­le mani suda­te. Me le asciu­go sul­la magliet­ta men­tre ten­go lo scotch fer­mo tra i den­ti. Dal sac­chet­to si intra­ve­do­no a mala­pe­na le for­me del suo viso. Sta respi­ran­do già affan­no­sa­men­te ed il sac­chet­to si gon­fia e si sgon­fia mostran­do l’incavo del­la sua boc­ca. Ma lei non si muo­ve. Lo vuo­le dav­ve­ro. Sbuc­cio lo scotch e ne allun­go una bel­la stri­scia. Le gam­be mi bal­let­ta­no. Lei mi sta aspet­tan­do. Mi sca­glio su di lei e velo­ce­men­te le bloc­co il sac­chet­to intor­no al col­lo con due giri di scotch.
Lo lascio attac­ca­to lì, al suo col­lo, e cor­ro giù. Scen­do le sca­le due sca­li­ni alla vol­ta. Sono al pia­no ter­ra, ora che la mor­te è alle mie spal­le sen­to che pos­so ral­len­ta­re. Una per­so­na matu­ra non scap­pa. Una per­so­na gran­de fa quel­lo che è giu­sto, sac­chet­to in testa e ti vai a com­pra­re le siga­ret­te. Io il sac­chet­to gliel’ho mes­so.
Vado in came­ra mia e pren­do 5 euro e ven­ti dal por­ta­fo­glio e la tes­se­ra sani­ta­ria. Non pren­do il por­ta­fo­glio per­ché l’ultima vol­ta mi è cadu­to dai pan­ta­lon­ci­ni men­tre anda­vo a com­pra­re le siga­ret­te e l’ho per­so e mia mam­ma mi ha fat­to una testa così. Mi sie­do sul mio let­to. Il com­pu­ter è anco­ra lì. Chis­sà come va a fini­re il film che sta­vo guar­dan­do? Mi infi­lo le Vans, ne lego pri­ma una, poi l’altra. Pren­do tele­fo­no, auri­co­la­ri ed esco di casa.

Ora sono in stra­da e pas­seg­gio pia­no. Scor­ro la play­li­st ma non rie­sco a tro­va­re nean­che una can­zo­ne adat­ta a que­sto mio nuo­vo esse­re gran­de.

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