Come comincia esser noto, la questione ambientale è inseparabile dall’attuale assetto dell’ordine mondiale, dai rapporti e dai conflitti tra gli stati, dalla libertà eslege delle potenze finanziarie private, dallo scatenamento competitivo e bellico che oggi domina i rapporti internazionali. I nostri sforzi di contenere il riscaldamento climatico saranno vani se non accompagnati da un progetto di equilibrio multilaterale che metta fine allo sfruttamento selvaggio della Terra e alle guerre. Come ha ricordato Luigi Ferrajoli, in Per una Costituzione della Terra (Feltrinelli 2022), è «del tutto inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro alla devastazione del pianeta, fino alla sua inabitabilità».Senza dire che proprio il progredire della distruzione delle risorse naturali, l’abbattimento della foreste, il disseccamento dei fiumi, l’inquinamento dei mari, la perdita di terre fertili tenderà a esacerbare la logica dell’accaparramento selvaggio di ciò che resta da parte dì tutti contro tutti.
Per tale ragione il perseguimento della pace, al di là delle sue nobili ragioni ideali, della necessità odierna di porre fine alle sofferenze del popolo ucraino, (e di tanti altri popoli), ai danni inflitti all’economia mondiale, si presenta come una necessità ineludibile per il futuro del pianeta. E non solo per i suoi possibili esiti apocalittici. Da tempo si conoscono non solo i danni all’ambiente che le battaglie sul campo producono in termini di inquinamento chimico dei suoli e delle acque, incendi di boschi, uccisione di animali selvatici, distruzione di ecosistemi, devastazione dei paesaggi. Ma è la stessa macchina militare che in tempo di pace costituisce una fonte gigantesca di distruzione ecosistemica e di alterazione del clima. In una vasta ricerca a più mani di 12 anni fa (Militarization and the Environment: A Panel Study of Carbon Dioxide Emissions and the Ecological Footprints of Nations, 1970–2000 in Global Environmental Politics 2010) i ricercatori ricordano che per realizzare i test sulle armi i militari usano un’ampia gamma di diluenti, solventi, lubrificanti, sgrassanti, carburanti, pesticidi e propellenti come parte del funzionamento quotidiano e della manutenzione delle attrezzature militari. Di conseguenza, concludono gli autori, «producono la maggior quantità di rifiuti pericolosi al mondo». Ma non è tutto: durante le normali operazioni, le forze armate consumano immense quantità di combustibili fossili. Si stima « che i prodotti petroliferi utilizzati da parte delle forze armate per veicoli terrestri, aerei, navi marittime e altri macchinari militari rappresentano circa il 75 percento di tutto il consumo di energia nel mondo. Inoltre, il Pentagono degli Stati Uniti gestisce la flotta più grande del mondo di aerei moderni, elicotteri, navi, carri armati, veicoli corazzati e sistemi di supporto, che è quasi interamente alimentato dal petrolio. Di conseguenza, il Dipartimento della Difesa è “il principale consumatore mondiale di petrolio.» Non è difficile crederlo, visto che gli americani mantengono circa 800 basi militari sparse in 60 paesi nei vari angoli del pianeta.
Ma rammentiamo che tali dati non tengono conto del crescente impegno militare USA dell’ultimo dodicennio. Secondo i rapporti del Congressional Reaserch Service, aggiornati al 2021, le operazioni militari effettuate da questo paese tra il 1945 e il 1999, cioè in 54 anni, sono stati 100. Ma tra il 1999 e il 2021, in soli 22 anni, ne sono stati condotti ben 184. Cifre che denunciano il crescente impatto ambientale degli impegni militari statunitensi, ma al tempo stesso una linea di strategia geopolitica che oggi appare in tutto il suo colossale conflitto con le sorti del pianeta. Perché il Paese più ricco della terra che, con il 4% circa della popolazione mondiale, divora il 30% delle risorse ed è il principale agente di alterazione del clima planetario, continua una politica di potenza come a perpetuare l’egemonia del ‘900, in spregio degli interessi universali?
Bisogna porsi tale domanda per rovesciare la narrazione dominante che si è imposta per rappresentare la guerra in Ucraina, e per capire il futuro a cui tendono i gruppi che oggi detengono il potere negli USA. Ormai appare evidente da una consistente letteratura internazionale: la guerra iniziata il 24 febbraio con l’invasione russa è stata lungamente perseguita dagli americani con una mirata strategia . Oggi persino Angela Merkel ammette che gli accordi di Minsk tra l’Ucraina e la Russia erano solo un pretesto per prendere tempo e consentire a Kiev di completare il suo armamento sostenuto dagli USA (intervista a Die Zeit del 7 dicembre).Del resto tutta la storia successiva al 1989 non è che una conferma di questo disegno: l’allargamento a est della Nato, l’aver circondato l’ex nemico di basi missilistiche collocate nei paesi confinanti, non rispondeva solo al fine di un’ ovvia espansione della potenza americana, ma era la premessa per un risultato futuro più sostanzioso: muovere guerra alla Russia, senza rischiare troppo e per conto terzi, col sangue altrui. Grazie alle rivalità interetniche e territoriali tra due nazionalismi contrapposti, l’Ucraina offriva l’occasione più propizia. Ricordiamo che quella strategia ha conseguito vari risultati già prima della guerra. Intanto ha impedito una evoluzione in senso democratico della Russia dopo il crollo dell’URSS. Non c’è modo migliore di favorire il consolidamento al potere di un autocrate che minacciare la sicurezza del suo popolo. Putin è in fondo il risultato della politica americana, che aveva bisogno di un nemico, per giunta odiabile come un tiranno, e della incommensurabile pochezza delle élites dirigenti europee, che avevano un interesse enorme ad attrarre la Russia nella propria orbita, non solo economica.
Per capire l’insostenibile politica imperiale degli USA in un mondo di fatto multipolare, occorre tener presente la sua storia. America first non è una novità. Gli Usa hanno messo sempre i propri interessi davanti a qualunque altro valore, a cominciare dalla democrazia di cui si fanno paladini ingannando l’intero Occidente. Basta chiedere alle madri argentine, ai socialisti cileni, a tutti i democratici dell’America Latina. Ma anche il liberalismo è stato subordinato alle convenienze della propria economia. Un grande storico, Paul Bairoch, definiva gli USA « il paese più protezionista della storia». Lo mostra ancora Biden con la Inflation Reduction Act in barba a ogni regola di concorrenza. Ma c’è una vicenda recente meno nota che spiega, (ma non giustifica come necessaria), la politica espansionistica americana. Lo illustra una acuta analisi, condotta da un punto di vista cinese, ma su scala mondiale, quella di Qiaio Liang, L’arco dell’impero (Leg edizioni, 2021) curato e con una densa e informatissima prefazione di Fabio Mini. Negli ultimi decenni gli USA hanno perduto le loro manifatture, fonte di ricchezza reale e di occupazione, puntando sull’alta tecnologia, civile e militare e sulla finanza. Il dollaro staccato dall’oro dopo la fine della sua convertibilità, nel 1971, ha portato i gruppi dirigenti americani a fare della stampa di carta verde, insieme alle armi, uno strumento di sfruttamento delle economie altrui. Sempre più il deficit commerciale è utilizzato per scambiare ricchezza reale da tutti i paesi del mondo in cambio di carta colorata. E la guerra è uno strumento di espansione del potente settore militare-industriale, ma al tempo stesso di dominio politico che legittima il dollaro e di rastrellamento dei capitali. Laddove arriva la guerra, o anche solo tensioni politiche, i soldi volano via, molti capitali americani tornano a casa e altri vengono attratti. E’ quello che stanno facendo gli USA incoraggiando i movimenti separatisti a Taiwan, a Hong Kong, e in varie altre provincie, con le continue esercitazioni militari nel Mar della Cina, con le promesse di Biden di difendere con le armi l’autonomia dell’ l’isola di Taiwan, ecc.
Queste mosse americane verso la Cina continuano dunque il vecchio copione. Lo sfiancamento economico e l’isolamento della Russia (comunque si concluderà la guerra in Ucraina), prelude a una nuova partita di aggressione per mettere nell’angolo il loro più potente concorrente.
Dunque, che cosa è accaduto e accadrà all’Europa? Quando sarà terminato lo slancio di solidarietà (ma anche di stolido bellicismo) nei confronti dell’Ucraina, riusciranno le élites europee a comprendere la trappola in cui sono stati trascinati insieme alla Russia? L’Europa impoverita, che perde un grande partner economico come la Russia, obbligata ad accrescere le spese militari, con l’Ucraina distrutta, migliaia di militari e di civili uccisi (e di soldati russi), e una prospettiva prossima di tensioni internazionali e di nuove guerre? Un futuro di espansione militare che spinge paesi amici e nemici a incrementare gli armamenti e che, come abbiamo visto, infliggono al pianeta danni di prima grandezza anche in tempo di pace. Allora nessuna politica ambientale dell’UE sarà più credibile, nessun Next Generation UE, nessuna Cop avrà più legittimità, se resta in piedi la Nato, strumento di dominio americano e di conflitti perpetui. La sua permanenza non è compatibile con gli interessi dell’Europa e con il futuro stesso dell’umanità.
PRESENTAZIONE AUTORE
Pietro (detto Piero) Bevilacqua è nato a Catanzaro l’1 giugno 1944 e vive a Roma. Si è laureato all’Università La Sapienza con Alberto Asor Rosa, correlatore Renzo De felice. Ha partecipato alla lotta politica sin da ragazzo, per rivendicare l’Università in Calabria, per il superamento delle gabbie salariali nei contratti di lavoro, e poi prendendo parte al movimento studentesco dell’Università di Roma. In questa fase ha collaborato alle riviste «Contropiano» e « Laboratorio Politico». In seguito ha avviato il suo lungo percorso di storico, studiando il mondo delle campagne calabresi e meridionali, collaborando a riviste italiane e straniere, partecipando a convegni internazionali. In questa fase ha curato, insieme ad A.Placanica, La Calabria, per la storia delle regioni Einaudi, e scritto la Breve storia dell’Italia meridionale (1993), ancora oggi adottata nei corsi universitari. Si è interessato di storia dell’agricoltura, curando una Storia dell’agricoltura italiana in 3 voll per Marsilio, passando poi a studiare la storia dell’ambiente, pubblicando saggi e volumi fra cui Venezia e le acque, per Donzelli, tradotto in Germania, Francia, Giappone e Stati Uniti. Nel 1986 insieme a Carmine Donzelli, Augusto Placanica, Salvatore Lupo e altri studiosi ha fondato l’Istituto Meridionale di Storia e Scienze Sociali (IMES) di cui è formalmente il presidente, e la rivista «Meridiana», di cui è stato direttore fino al 2004. Con l’IMES, che ha coinvolto in convegni e ricerche centinaia di studiosi italiani e stranieri, e con i circa 40 volumi di « Meridiana», è stata realizzata, nel corso di oltre 15 anni, una vasta opera di rinnovamento della storia e dell’interpretazione della realtà meridionale.
Dai primi anni 2000 ha collaborato con Carlo Petrini, Vandana Shiva, Massimo Montanari, e altri studiosi alla fondazione dell’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo e al progetto di Slow Food di una Facoltà di agroecologia. Da anni partecipa ai seminari di Navdanya International, coordinati da Vandana Shiva, per lo studio dell’agricoltura, del cibo e dell’ambiente.
Ha insegnato nell’Università di Salerno, di Bari, di Pollenzo, della Sapienza di Roma. Ha tenuto lezioni, seminari, convegni all’Università Autonoma di Barcellona, all’Università di Granada, di Cordoba, all’Istituto universitario Ortega Y Gasset di Oviedo, all’University College di Londra, alla Humboldt Universität di Berlino, alla Casa Italiana della Cultura di Dresda e di Vienna, alla Columbia University di New York, all’Università di Tokyo, Hiroschima e Kobe in Giappone. E’ stato membro del Comitato scientifico del Réseau National des Maisons des Sciences de l’Homme di Parigi.
È in pensione dalla Sapienza, ha pubblicato vari libri di storia dell’ambiente e di saggistica politica con Laterza, un testo su Pasolini. L’insensata modernità, Jaca Book, per una collana diretta da Serge Latouche, varie opere, come Ecologia del tempo e poi romanzi, racconti, testi teatrali con Castelvecchi. Negli ultimi 16 anni, ha collaborato al Manifesto, scrive su Left.