Scendo di schiena dal primo scoglio europeo che ero riuscito a toccare e nuoto all’indietro. Quando gli sono vicino, il relitto di ferro riemerge dalle profondità e vomita acqua gonfia di vento. L’abisso mi risucchia di sotto e poi una colonna bianca di bolle mi spinge in alto, fuori dall’acqua, fin sul ponte della barca. Attorno a me altre persone atterrano con i talloni sui bordi dello scafo. La tempesta ci trascina nel suo cuore, dove le onde scappano lontano dalla terra e riassorbono la propria schiuma e il mare crivella il cielo di gocce.
Ripeschiamo corpi e li corichiamo ai nostri piedi e loro aprono gli occhi e cominciano a tremare.
Ecco mia moglie, fradicia e dura, le passo una mano sulle palpebre, da sotto in su, per schiudere il suo sguardo, che è vuoto. La stringo al mio petto e dopo qualche ora i suoi occhi mi mettono a fuoco. La aiuto ad alzarsi all’indietro, si sporge fuori dalla barca, urla parole incomprensibili finché il piccolo corpo di nostro figlio non le sale tra le mani e me lo passa ed è gelato e lo avvolgo in una camicia insanguinata e ci rannicchiamo e lo abbracciamo finché non diventa caldo e piange.
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