Le indagini sulle “navi a perdere” e la morte del Capitano Natale De Grazia
Reggio Calabria, ora di pranzo. Martedì, 19 dicembre 1995.
Alessio scatta alcune foto a Natale, diciassette per la precisione. Quel giorno, Natale, compie trentanove anni. Non una cifra tonda, certamente, ma un compleanno da festeggiare, un momento da ricordare, da passare in compagnia. In quella sala, accanto a Natale, ci sono i parenti del festeggiato. Nei loro volti, però, tristezza. Facce vitree e dubbiose osservano quel corpo.
Il Capitano Natale De Grazia, quel 19 dicembre, il giorno di quello che avrebbe dovuto essere il suo compleanno, si trovava disteso a pancia in su, inerme su un lettino della camera mortuaria dell’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria. Trentotto anni, una moglie, due figli, l’amore per il mare ed un futuro ancora da scrivere. Un futuro che, però, non verrà mai scritto o, almeno, non sarà lui a farlo.
Meno di una settimana prima Natale era morto in circostanze ancora poco chiare mentre si dirigeva a La Spezia insieme a due suoi colleghi, per ragioni di lavoro. Con sé un borsone con i cambi per il soggiorno fuori casa, una macchina fotografica e una valigetta contenente materiale molto importante. Ma perché Natale doveva partire? E perché, lui e i suoi colleghi, decisero di viaggiare di notte, con un’auto civetta?
Il Capitano De Grazia e i colleghi di Polizia Giudiziaria Nicolò Moschitta e Rosario Francaviglia dovevano affrontare un viaggio molto lungo. Dalla punta dello stivale avrebbero dovuto raggiungere il Nord Italia. Franco Neri, il sostituto Procuratore che era a capo delle indagini a cui lavorava anche Natale da meno di un anno, aveva dato indicazioni molto chiare – seppur ad oggi, di quelle dichiarazioni, sia rimasto ben poco di certo oltre quanto scritto nelle sei deleghe.
Le mete del viaggio erano, sostanzialmente, tre: La Spezia, Como e Salerno.
A La Spezia li attendeva l’Ispettore del Corpo Forestale Claudio Tassi, che stava collaborando con loro e con altri colleghi della Forestale di Brescia, attenti ai traffici nazionali e internazionali di rifiuti pericolosi e radioattivi. Sempre a La Spezia, Natale e Nicolò sarebbero dovuti andare in Tribunale per consultare e fotocopiare del materiale di indagine riguardo la nave Rigel, probabilmente affondata a largo di Capo Spartivento, in Calabria, il 21 settembre 1987.
Oltre a La Spezia, da quanto risulta dalle deleghe, si sarebbero dovuti recare in un paesino vicino Como per raccogliere le dichiarazioni di un signore, un certo Cesare Cranchi, socio in affari di un ingegnere su cui Natale e colleghi stavano indagando da diverso tempo. In realtà su Cranchi e sul socio Giorgio Comerio c’erano anche le attenzioni dei servizi segreti italiani e di altri paesi europei. Perché?
Comerio aveva notato che i Paesi che producevano energia e bombe atomiche utilizzando il nucleare, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, avevano un grande anzi, direi, grandissimo problema: che fare delle scorie? Alcune soluzioni, per così dire, legali erano state trovate ma non convincevano fino in fondo tutti i Paesi. L’Unione Europea lavorava su un progetto in particolare. In sostanza i rifiuti radioattivi avrebbero dovuto essere inseriti in dei contenitori a forma di siluro, per poi esser caricati su una nave ed affondati in appositi fondali marini del Mar Mediterraneo. Ulteriori ricerche dovevano esser fatte prima di arrivare ad una concreta realizzazione ma tutto venne bloccato (in concordanza con il tempo verbale del periodo) .
Comerio riprese questo progetto, senza alcuna autorizzazione, e lo propose a paesi di mezzo mondo prestando particolare attenzione a quelli pesantemente indebitati, in guerra civile, in crisi economica o, più semplicemente, in quei paesi in cui aveva degli agganci, dei soci in affari: Sierra Leone, Nigeria, Somalia e tanti altri paesi con condizioni politiche ed economiche simili.
Neri, De Grazia e tutti i componenti del pool reggino stavano indagando anche su questo, ma non solo. Al centro delle sue indagini, in effetti, c’era anche dell’altro. Precisamente c’erano delle navi che partivano da diversi porti mediterranei raggiungendo, tutte, la medesima destinazione: i fondali marini. Una delle ipotesi su cui la Procura reggina indagava era l’affondamento di queste navi con a bordo carichi radioattivi. Tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, si ipotizza che oltre un centinaio di navi furono fatte inabissare nel Mar Mediterraneo con i loro carichi.
Natale era l’esperto, il tecnico di una manciata di uomini delle forze dell’ordine. L’unico vero uomo di mare del gruppo, in grado di leggere carte nautiche, bolle di carico, rotte marittime e, forse, uno dei pochi che avrebbe potuto mettere in chiaro il fenomeno su cui stavano indagando, le “navi a perdere”. Una storia strana, pericolosa. Una storia che ha al suo interno altre storie. Una storia fatta di pedinamenti subiti da coloro che lottavano per la ricerca della verità. Una storia fatta di paure e misteri, di parole e di tanti, troppi, pesanti silenzi.
La storia delle navi a perdere parte, in realtà, da una denuncia che aveva a che fare con la terra e non con il mare anzi, per la precisione, con la montagna. Tutto era partito dall’ipotesi che in Calabria, una trentina di anni fa, fossero arrivati diversi camion carichi di rifiuti pericolosi provenienti dalle industrie del Nord Italia. Un po’ come è successo in Campania, nella ormai tristemente nota Terra dei Fuochi. La ‘ndrangheta aveva dato l’assenso per lo scarico e l’occultamento di materiale pericoloso anche nel territorio calabrese. È probabile che aree della Calabria siano state utilizzate come discariche di rifiuti pericolosi da parte della ‘ndrangheta e di altri soci in affari. In Calabria, come in Liguria, in Lombardia, in Piemonte, in Veneto ed in altri territori del centro-nord Italia.
A fianco a questa, l’ipotesi secondo cui “navi a perdere” venissero caricate con rifiuti radioattivi e con materiale che avrebbe consentito di schermare la radioattività – in caso di controlli – per poi essere affondate. Alcune navi affondate nel Mediterraneo e, in particolare, vicino alle coste calabresi, avevano a bordo proprio del granulato di marmo o, come nel caso della Rigel, anche del cemento. “Vuoi vedere che è questa la traccia da seguire”, aveva pensato Natale? Vuoi vedere che chi si è occupato di falsificare le bolle di carico ha fatto un errore, ha lasciato un indizio? Vuoi vedere che, oltre al traffico di rifiuti tossici diretti in Africa, era in atto un più grave traffico di scorie nucleari? Vuoi vedere che quelle navi che erano state fatte affondare, erano cariche di queste scorie e che, contemporaneamente, altre navi trafficavano materiale nucleare pronto per armare qualche bomba atomica? E vuoi vedere che dietro tutto c’era anche Comerio? Magari proprio Cesare Cranchi avrebbe potuto dire qualcosa in più.
Quel 12 dicembre, Natale stava sicuramente seguendo tracce nucleari. Tracce pericolose e complicate. Se partì nel tardo pomeriggio da Reggio Calabria, con un’auto civetta, senza dare informazioni di sorta neppure ai suoi familiari, un motivo c’era. O, forse, ce n’era più di uno.
Non dimostrava né diceva di sentirsi in pericolo ma le persone che lo conoscevano parlavano (concordana) di un Natale diverso rispetto al solito. Già dai giorni che precedettero la sua partenza per La Spezia era strano, dubbioso ma non era il tipo che si tirava indietro di fronte alle difficoltà. Era una persona con la schiena dritta che non sopportava “le cose storte”, un padre che voleva lasciare ai suoi figli un mondo diverso da come l’aveva trovato. Voleva un mare diverso, una Reggio diversa o, forse, voleva solo difendere le bellezze che, giorno dopo giorno, la vita ci dà e di cui, in cambio, ci chiede di prenderci cura.
Quel 12 dicembre, Natale, Rosario e Nicolò, dopo aver superato la Calabria e la Basilicata, si fermarono in una trattoria per mangiare un boccone e, poi, riprendere il lungo viaggio. Entrarono in una trattoria in tarda serata con la cucina prossima alla chiusura ed uscirono poco dopo le undici con lo stomaco pieno. Intorno alla mezzanotte, la tragedia.
Natale sedeva nel posto affianco al conducente, Rosario alla guida e Nicolò dietro. Sembrava essersi addormentato ma una brusca frenata consentì ai due colleghi di scoprire la verità: Natale stava morendo o, forse, era già morto. Il respiro era un rantolo, la fronte sudata, la testa penzoloni. Subito dopo una galleria, Rosario accostò. I colleghi cercarono di capire cosa avesse Natale, cosa gli fosse successo. Nel frattempo, infatti, una violenta pioggia si era abbattuta sull’autostrada, bagnando il corpo di Natale, riverso sull’asfalto nel tentativo di esser rianimato.
Anche il cielo piangeva la morte di un grande uomo. Lacrime pesanti, lacrime amare.
Una lunga notte di lampi e fulmini quella tra il 12 ed il 13 dicembre 1995. Una lunga notte fatta di testimonianze e di domande, di affermazioni e di tanti interrogativi irrisolti.
Quella lunga notte continua.
A venticinque anni di distanza continua la richiesta di giustizia presentata dalla famiglia De Grazia insieme al Circolo di Legambiente di Reggio Calabria che, da anni, tiene viva la memoria di Natale e chiede, unitamente ad altre associazioni e giornalisti, quale fu la reale causa della morte del Capitano De Grazia e perché, proprio in quel dicembre del 1995, l’inchiesta fu sostanzialmente bloccata. Con rinnovato vigore, anche grazie ad alcune interessanti inchieste giornalistiche, la richiesta di giustizia va avanti, con maggiore veemenza, con assoluta urgenza. Ci si continua a chiedere perché la vita di Natale si interruppe quella notte, perché in meno di tre giorni fu sotterrato senza fare neppure un’autopsia, se non poi, il 19 dicembre, infangare ancora e ancora il suo corpo e la sua memoria con un’autopsia fatta dalla dottoressa Simona Del Vecchio che riferiva di una presunta morte per infarto del Capitano – smentita quasi un ventennio dopo.
Ad oggi, però, ci si chiede anche cosa, nel dettaglio, avrebbero dovuto fare Natale, Rosario e Nicolò durante quel viaggio, quale sarebbe stato il percorso da seguire, quale le persone da incontrare e quali i compiti per ognuno di loro. Non si tratta di domande scontate né lo sarebbero, tantomeno, le risposte ad esse. Risposte pesanti e pericolose, senza ombra di dubbio. Ma dare queste risposte non è solo un dovere nei confronti della famiglia di Natale. Lo è nei confronti di tutte quelle persone che, negli anni, hanno lottato affinché la verità venisse fuori. Lo è nei confronti di quelle persone che, oggi, non sono più presenti per poter continuare a lottare. Lo è, infine, nei confronti di quelle persone che, inquiete, si chiedono perché Natale sia morto e cosa aveva intuito o, peggio, saputo. Di quelle persone che si chiedono cosa ci sia nei nostri mari. Di quelle persone che si chiedono, e chiudo, perché chi sa qualcosa, ancora continui a rimanere in silenzio.
PRESENTAZIONE AUTORE
Dottore di ricerca in Studi sulla criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi storico internazionalista sul traffico internazionale di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi italiani, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Vincitore della II edizione del Premio “Saperi per la legalità: Giovanni Falcone” bandito annualmente dalla Fondazione Falcone. Assegnista di ricerca e Professore a contratto in Criminalità organizzata e metodologia della ricerca presso l’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato la sua prima monografia nel 2017 dal titolo ‘Ndrangheta totalitaria. Analisi filosofica dell’Onorata società, per poi ideare, curare e contribuire alla realizzazione del volume Cose storte. Documenti, fatti e memorie attorno alle “navi a perdere” (2018). Ha scritto all’interno di diversi volumi (Mafie tossiche, 2019; Sulle tracce dell’antindrangheta. Approfondimenti, testimonianze e strumenti per le scuole, 2021) e, in ultimo, ha pubblicato il volume Le navi dei veleni all’interno della collana “Storia dei grandi segreti d’Italia” (vol. n. 62, uscito in edicola il 21 settembre 2022).