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Gennaio
20 Gennaio 2025

LE TREC­CE DAU­NIE E GLI INDO­ME­DI­TER­RA­NEI: UN’IN­TER­PRE­TA­ZIO­NE ALLA LUCE DI ALCU­NI STU­DI DI LIN­GUI­STI­CA STO­RI­CA

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Con “Dau­nia anti­ca” o sem­pli­ce­men­te “Dau­nia” si fa rife­ri­men­to ad una regio­ne sto­ri­ca, cor­ri­spon­den­te alla par­te set­ten­trio­na­le del­la Puglia. Quel ter­ri­to­rio este­so e arti­co­la­to nel qua­le è pos­si­bi­le distin­gue­re cin­que aree prin­ci­pa­li: il pro­mon­to­rio del Gar­ga­no; la pia­nu­ra del Tavo­lie­re, deli­mi­ta­ta a nord e sud rispet­ti­va­men­te dal For­to­ne e dall’Ofanto; il trat­to del­la lagu­na fra il Can­de­la­ro e l’Ofanto; il Subap­pen­ni­no e l’area ofan­ti­na, gra­vi­tan­te intor­no a Cano­sa. In que­sta este­sa area geo­gra­fi­ca pro­li­fe­rò la civil­tà “dau­nia” — così legit­ti­ma­men­te defi­ni­ta, in real­tà, sol­tan­to a par­ti­re dal­la I età del Fer­ro (IX – VIII seco­lo a. C) fino al IV seco­lo a.C., come sot­to­li­nea una del­le voci più auto­re­vo­li nel cam­po dell’archeologia clas­si­ca e spe­ci­fi­ca­ta­men­te ita­li­ca, quel­la di Etto­re M. De Juliis (1984, 137), —  che sin dal­le ori­gi­ni si distin­se dal­le altre due cul­tu­re anti­che del­la Puglia, pur essen­do­gli affi­ne, quel­la del­la Mes­sa­pia e quel­la del­la Peu­ce­zia. Infat­ti, se tra Peu­ce­zia e Mes­sa­pia è pos­si­bi­le rico­no­sce­re più trat­ti comu­ni per­du­ran­ti nel cor­so del tem­po, la Dau­nia, inve­ce, con la sua posi­zio­ne eccen­tri­ca e la sua peren­ne indi­spo­ni­bi­li­tà ai con­tat­ti con le cul­tu­re allo­trie, come quel­la gre­ca — alme­no fino al VI a. C (De Juliis 1988, 75–88) — , si carat­te­riz­za come un baci­no cul­tu­ra­le pecu­lia­re, indi­pen­den­te, ben distin­to nel pano­ra­ma sto­ri­co — archeo­lo­gi­co ita­li­co e puglie­se. Par­lia­mo dun­que di uno scri­gno pre­zio­so e carat­te­riz­za­to da sfac­cet­ta­tu­re cul­tu­ra­li dav­ve­ro esclu­si­ve.

Non è dun­que un caso che i Dau­ni furo­no una civil­tà che per alcu­ni ver­si resta anco­ra oscu­ra. La loro visio­ne del mon­do, espres­sa soprat­tut­to attra­ver­so scul­tu­re e deco­ra­zio­ni figu­ra­ti­ve com­ples­se, si carat­te­riz­za per una dif­fi­ci­le ese­ge­si. Sia le scul­tu­re in pie­tra, le cosid­det­te “ste­le dau­nie”, con le loro ric­che deco­ra­zio­ni, risa­len­ti al VII — VI a.C, sia i bron­zet­ti figu­ra­ti, antro­po­mor­fi e zoo­mor­fi, risa­len­ti al Neo­li­ti­co lo sono. Alcu­ne sta­tui­ne antro­po­mor­fe rive­la­no inte­res­san­ti trat­ti cul­tu­ra­li che pos­so­no aiu­ta­re a leg­ge­re alcu­ne carat­te­ri­sti­che non solo del­la cul­tu­ra dau­nia stes­sa, ma anche di reper­ti archeo­lo­gi­ci più recen­ti, come le ste­le dau­nie, appun­to. Si potreb­be indi­vi­dua­re un fil rou­ge che lega, nel cor­so dei seco­li, la pro­du­zio­ne arti­sti­ca ritro­va­ta nel­la regio­ne set­ten­trio­na­le del­la Puglia che va dal Neo­li­ti­co sino al VI a.C, alme­no. Mi sem­bra pos­si­bi­le rico­no­sce­re, quin­di, un sostra­to cul­tu­ra­le per­si­sten­te — anche gra­zie alla ritro­sia ai con­tat­ti del­la regio­ne — nel cor­so dei seco­li non tan­to indoeu­ro­peo, quan­to indo­me­di­ter­ra­neo. È pro­prio sul­la base degli stu­di effet­tua­ti su una civil­tà poco inda­ga­ta e cono­sciu­ta, risa­len­te al quar­to mil­len­nio a.C., quel­la indo­me­di­ter­ra­nea, appun­to, che voglia­mo pro­va­re a leg­ge­re alcu­ni aspet­ti del­la cul­tu­ra dau­nia. 

Ma pro­ce­dia­mo per gra­di.

Comin­ce­rò col defi­ni­re qua­li gen­ti abi­ta­ro­no la Puglia e a par­ti­re da quan­do, cer­can­do di indi­vi­duar­ne anche l’origine attra­ver­so le fon­ti sto­ri­che. Una vol­ta trac­cia­to un qua­dro gene­ra­le del­le civil­tà anti­che del ter­ri­to­rio puglie­se, por­rò il focus sul­la Dau­nia pren­den­do in con­si­de­ra­zio­ne innan­zi­tut­to i pri­mi inse­dia­men­ti del Neo­li­ti­co per poi pas­sa­re all’analisi di alcu­ni reper­ti archeo­lo­gi­ci ricon­du­ci­bi­li a perio­di sto­ri­ci diver­si: pri­ma le sta­tuet­te antro­po­mor­fe risa­len­ti al Neo­li­ti­co, poi le ste­le dau­nie di VII — VI a.C. Di que­sti ulti­mi monu­men­ti mi sof­fer­me­rò su un ele­men­to in par­ti­co­la­re, la gros­sa trec­cia poste­rio­re rap­pre­sen­ta­ta nel­le ste­le di tipo fem­mi­ni­le. Que­sta, infat­ti, costi­tui­sce il per­no attor­no al qua­le tira­re le fila del discor­so: incro­cian­do dati archeo­lo­gi­ci e di lin­gui­sti­ca sto­ri­ca, in vir­tù del­le fon­ti archeo­lo­gi­che pre­se in con­si­de­ra­zio­ne — in par­ti­co­la­re, le sta­tuet­te antro­po­mor­fe -, avan­ze­rò un’ipotesi inter­pre­ta­ti­va sul signi­fi­ca­to del­la trec­cia del­le ste­le poi­ché il suo signi­fi­ca­to potrà, for­se, illu­mi­na­re e per­met­te­re di indi­vi­dua­re il col­le­ga­men­to tra il sostra­to cul­tu­ra­le indo­me­di­ter­ra­neo, i reper­ti archeo­lo­gi­ci e la cul­tu­ra dau­nia stes­sa. Ciò potrà per­met­ter­ci, in defi­ni­ti­va, di rico­no­sce­re un’unità, una coe­ren­za e per­si­sten­za cul­tu­ra­le, o “uni­tà di cul­tu­ra”, come la ebbe a defi­ni­re Vit­to­re Pisa­ni — nel suo sag­gio L’unità cul­tu­ra­le indo­me­di­ter­ra­nea ante­rio­re all’av­ven­to di Semi­ti e Indeu­ro­pei (1936, 199) -, che non avrà smes­so di far sen­ti­re la sua for­za nel cor­so dei seco­li, “sal­va­guar­da­ta” in par­ti­co­lar modo dal carat­te­re tra­di­zio­na­li­sta del­la Dau­nia.

Secon­do la testi­mo­nian­za dei mag­gio­ri sto­ri­ci anti­chi, come Ero­do­to ([440 a.C.] 1984, 170), Tuci­di­de ([V sec. a.C.] 1996, 33) e Poli­bio ([146 a.C.] 2002, 87), tut­ti i popo­li che abi­ta­va­no la Puglia nel pri­mo mil­len­nio a.C. — perio­do dal qua­le si fa comin­cia­re la sto­ria dell’Italia anti­ca, tra cui quel­la etru­sca pro­pria­men­te det­ta e quel­la roma­na (X — IX a.C) — era­no defi­ni­ti Iapi­gi, a loro vol­ta sud­di­vi­si in tre gran­di grup­pi, i Peu­ce­zi,  nell’area cor­ri­spon­den­te gros­so­mo­do all’attuale Puglia cen­tra­le, i Mes­sa­pi in Salen­to e i Dau­ni nel­la Puglia set­ten­trio­na­le. Ciò vuol dire che que­sti tre grup­pi era­no con­si­de­ra­ti par­te del­la stes­sa cul­tu­ra, e con­di­vi­de­va­no quin­di anche l’origine. In pas­sa­to, infat­ti, esi­ste­va­no due tra­di­zio­ni riguar­do l’origine degli Iapi­gi: una, atte­sta­ta per la pri­ma vol­ta in Ero­do­to, che a sua vol­ta l’avrebbe appre­sa da Anti­o­co di Sira­cu­sa (Ero­do­to 1984, 170),  li rite­ne­va di ascen­den­za elle­ni­ca, men­tre la secon­da, ripor­ta­ta in pri­mis da Nican­dro ([II seco­lo a.C.] 1903, 31), come indi­ca­to da De Juliis (1988, 9–15), li con­si­de­ra­va di ori­gi­ne illi­ri­ca. Dun­que, stan­do alle testi­mo­nian­ze degli sto­ri­ci anti­chi e a ciò che gli stu­dio­si moder­ni riten­go­no attual­men­te più pro­ba­bi­le, ver­so la fine dell’età del Bron­zo fina­le (XI – X seco­lo a.C), gli Iapi­gi sareb­be­ro giun­ti in Puglia dal­le spon­de dell’Adriatico, per poi dare vita alle tre cul­tu­re di cui sopra, unen­do­si a gen­ti pre­e­si­sten­ti e ad altri grup­pi di pro­ve­nien­za egea. Allo­ra è neces­sa­rio chie­der­si qua­le cul­tu­ra abbia­no incon­tra­to gli Iapi­gi nel­la nostra regio­ne sul fini­re dell’età del Bron­zo (XI – X seco­lo a.C.). Per rispon­de­re a que­sta doman­da dob­bia­mo ana­liz­za­re i pri­mi inse­dia­men­ti del Neo­li­ti­co, in par­ti­co­la­re quel­li del­la Puglia set­ten­trio­na­le.

I pri­mi inse­dia­men­ti del­la civil­tà neo­li­ti­ca, loca­liz­za­ti lun­go le coste del Tavo­lie­re, risa­len­ti a cir­ca 2,7 milio­ni di anni fa, fan­no pen­sa­re all’approdo di popo­la­zio­ni pro­ve­nien­ti dal Medi­ter­ra­neo orien­ta­le. Non solo la tipo­lo­gia di cera­mi­ca rin­ve­nu­ta lì, rite­nu­ta la più anti­ca cera­mi­ca ritro­va­ta nel Medi­ter­ra­neo cen­tro (Tinè e Simo­ne 1984, 75–100) — occi­den­ta­le, ma il fat­to stes­so di aver ritro­va­to nume­ro­si inse­dia­men­ti pro­prio lun­go le coste ce lo fa cre­de­re: mol­to pro­ba­bil­men­te i colo­niz­za­to­ri giun­se­ro via mare e for­se, come riten­go­no Tinè e Simo­ne (1984, 75–100), con imbar­ca­zio­ni capa­ci di tra­spor­ta­re esem­pla­ri di ovi­ni, bovi­ni dome­sti­ci e vasi ricol­mi di semi. Tut­to ciò che pro­ba­bil­men­te sape­va­no di non poter tro­va­re nel­le regio­ni in cui si accin­ge­va­no a sta­bi­lir­si. 

E anco­ra, pro­prio nel­la regio­ne siro-ana­to­li­ca, in loca­li­tà costie­re come Mer­sin (Tur­chia), Uga­rit (Siria), Byblos (Liba­no) e Hazo­rea (Pale­sti­na), sono sta­ti ritro­va­ti i pro­to­ti­pi del­le più anti­che cera­mi­che puglie­si impres­se. Ma il fat­to­re for­se più diri­men­te in que­sto sen­so sta pro­prio nel nuo­vo modus viven­di dell’uomo del Neo­li­ti­co: sap­pia­mo che furo­no pro­prio le popo­la­zio­ni del­le regio­ni medio­rien­ta­li — Iraq, Tur­chia, Pale­sti­na, Siria — le pri­me a rag­giun­ge­re que­sta tap­pa fon­da­men­ta­le del­la sto­ria dell’uomo e ad esse­re anche in note­vo­le van­tag­gio tem­po­ra­le rispet­to alle regio­ni dell’Occidente euro­peo al qua­le in segui­to furo­no este­se que­ste inno­va­zio­ni. In par­ti­co­la­re, la Puglia rag­giun­se que­sta impor­tan­te tap­pa del­lo svi­lup­po uma­no con un con­si­de­re­vo­le ritar­do: alme­no due mil­len­ni dopo rispet­to alle regio­ni medio­rien­ta­li. Infat­ti, solo nel VI mil­len­nio a.C. si pas­sò dal­la fase in cui l’essere uma­no dipen­de­va per la pro­pria soprav­vi­ven­za non più dal­la natu­ra, essen­do cac­cia­to­re-rac­co­gli­to­re, ma dal lavo­ro agri­co­lo, dall’addomesticazione di pian­te e ani­ma­li, con­du­cen­do sostan­zial­men­te uno sti­le di vita seden­ta­rio. Infat­ti le data­zio­ni otte­nu­te con il meto­do al car­bo­nio radioat­ti­vo C14 per i pri­mi stan­zia­men­ti agri­co­li nel Tavo­lie­re risal­go­no al VI mil­len­nio a.C, e anche le cera­mi­che impres­se più simi­li alle nostre con­te­nu­te negli stra­ti più pro­fon­di di Uga­rit risal­go­no allo stes­so perio­do (San­to e Simo­ne 1984, 75–100).

Ora, ponen­do l’attenzione su uno dei più anti­chi inse­dia­men­ti del­la cul­tu­ra Neo­li­ti­ca del Tavo­lie­re, quel­lo nei pres­si del lago Ren­di­na, a sud dell’Ofanto, sco­pria­mo come qui sono sta­ti ritro­va­ti, oltre a resti di sol­chi di capan­ne e varie­tà di cera­mi­che, i più anti­chi docu­men­ti riguar­dan­ti la sfe­ra reli­gio­sa. Par­lia­mo di straor­di­na­rie sta­tuet­te antro­po­mor­fe che raf­fi­gu­ra­no mol­to pro­ba­bil­men­te la Dea Madre o Gran­de Madre, una dea medi­ter­ra­nea da attri­bui­re al sostra­to cul­tu­ra­le indo­me­di­ter­ra­neo di cui sopra, dif­fe­ren­te da quel­lo indoeu­ro­peo che è mol­to più di discus­so e inda­ga­to. E, sep­pur abi­tua­ti a sen­tir par­la­re di indoeu­ro­pei, in mol­ti cam­pi, da quel­lo del­la lin­gui­sti­ca sto­ri­ca, a quel­lo let­te­ra­rio, a quel­lo archeo­lo­gi­co, è bene deli­nea­re, sep­pur bre­ve­men­te, le loro carat­te­ri­sti­che prin­ci­pa­li così da poter­ne apprez­za­re le dif­fe­ren­ze rispet­to a quel­lo indo­me­di­ter­ra­neo, che è quel­lo che in que­sta sede ci inte­res­sa.

Gli indoeu­ro­pei sono con­si­de­ra­ti il popo­lo che ipo­te­ti­ca­men­te ha costi­tui­to il baci­no lin­gui­sti­co e cul­tu­ra­le del­la civil­tà Occi­den­ta­le tut­ta, cioè quel popo­lo ricon­du­ci­bi­le a quel siste­ma lin­gui­sti­co alla base del­le moder­ne lin­gue euro­pee. Que­sti sareb­be­ro ori­gi­na­ri, pro­ba­bil­men­te, non dell’Europa, quan­to meno, non “dell’Europa più marit­ti­ma”, come scri­ve Fan­ciul­lo (2013, 215–218), ma del­le gran­di step­pe dell’Eurasia, poi­ché pare non cono­sces­se­ro il mare. Infat­ti, ter­mi­ni come “θάλασσα”, “mare” in gre­co e neo­gre­co, pre­sen­ta­no un’etimologia del tut­to miste­rio­sa e quin­di non ricon­du­ci­bi­le al sostra­to lin­gui­sti­co. Ne con­se­gue che, se le lin­gue id est d’Europa non con­ser­va­no trac­ce di una ori­gi­na­ria deno­mi­na­zio­ne comu­ne del ter­mi­ne “mare”, allo­ra vuol dire che gli indoeu­ro­pei, sem­pli­ce­men­te, non cono­sce­va­no il mare. Per­ciò, gra­zie all’analisi di que­sto e di altri ter­mi­ni (Fan­ciul­lo 2013; Sil­ve­stri 1974; Pisa­ni 1962), pos­sia­mo rite­ne­re che le stes­se gen­ti indoeu­ro­pee — ori­gi­na­rie di un luo­go distan­te dal mare, cioè le step­pe dell’Eurasia — abbia­no tro­va­to e intes­su­to rela­zio­ni, al loro arri­vo in Euro­pa, una popo­la­zio­ne seden­ta­ria, quel­la indo­me­di­ter­ra­nea, risa­len­te al quar­to mil­len­nio a.C. (Pisa­ni 1936, 199–200; Sil­ve­stri 1974, 21–22) e che ne abbia­no poi assor­bi­to pas­si­va­men­te mol­ti ter­mi­ni. Que­gli stes­si ter­mi­ni che han­no per noi una radi­ce non a caso oscu­ra e che a loro vol­ta era­no nuo­vi e neces­sa­ri agli indoeu­ro­pei per indi­ca­re ciò che anco­ra non cono­sce­va­no — come ter­mi­ni pro­pri di pian­te tipi­ca­men­te medi­ter­ra­nee e del rela­ti­vo cli­ma (Fan­ciul­lo 2013, 215–221) — e che era­no pecu­lia­ri di quel­la cul­tu­ra con­qui­sta­ta dal­la qua­le, ovvia­men­te, assor­bi­ro­no poi anche aspet­ti cul­tu­ra­li. 

Se gli indoeu­ro­pei si carat­te­riz­za­ro­no per una cul­tu­ra di tipo patriar­ca­le, mono­ga­ma, con divi­ni­tà cele­sti e cre­den­ze in una dimo­ra ultra­ter­re­na per i mor­ti e per l’utilizzo di un siste­ma nume­ri­co deci­ma­le, gli indo­me­di­terr­ra­nei, inve­ce, uti­liz­za­va­no un siste­ma matriar­ca­le, pra­ti­ca­va­no la polian­dria e una reli­gio­ne di tipo cto­nio (Sil­ve­stri 1974, 31–37), cre­de­va­no nel­la metem­psi­co­si e uti­liz­za­va­no un siste­ma nume­ri­co vige­si­ma­le; ma soprat­tut­to pra­ti­ca­va­no il cul­to del­la Gran­de Madre (Sil­ve­stri 1974, 31–37). Fu Vit­to­re Pisa­ni, esi­mio glot­to­lo­go, in un sag­gio del 1936, sul­la base di indi­zi archeo­lo­gi­ci, ad indi­vi­dua­re sul­lo scor­cio del quar­to mil­len­nio, una sostan­zia­le uni­tà di cul­tu­ra nel­lo spa­zio appun­to indo­me­di­ter­ra­neo. A con­clu­sio­ne di que­sto sag­gio, il Pisa­ni scri­ve:

“Nel quar­to mil­len­nio a.C. una vasta zona di ter­ri­to­rio, esten­den­te­si dall’Egitto, attra­ver­so la Pale­sti­na, l’Asia Mino­re, la Meso­po­ta­mia e la Per­sia meri­dio­na­le, fino all’India set­ten­trio­na­le, e che ave­va pro­pag­gi­ni per tut­to il Medi­ter­ra­neo, si tro­va in pos­ses­so di una civil­tà fio­ren­te i cui cen­tri più impor­tan­ti si sono svi­lup­pa­ti, alme­no per quel che oggi ci è dato sape­re, attor­no ai gran­di fiu­mi Nilo, Tigri ed Eufra­te, Indo” (Pisa­ni 1938, 202–203)

Dun­que par­lia­mo di una cul­tu­ra indi­ge­na autoc­to­na, che “è sta­ta rile­va­ta, con­ti­nua­ta e dif­fe­ren­zia­ta dai popo­li soprav­ve­nu­ti nei suoi ter­ri­to­ri, da Sume­ri, Semi­ti e Indeu­ro­pei” (Pisa­ni 1938, 200).

Le sta­tuet­te antro­po­mor­fe ritro­va­te in uno dei più anti­chi stan­zia­men­ti neo­li­ti­ci più anti­chi del Tavo­lie­re, nei pres­si del Lago Ren­di­na, pare rap­pre­sen­ti­no pro­prio la Gran­de Madre del­la cul­tu­ra indo­me­di­ter­ra­nea, con i carat­te­ri­sti­ci seni e la for­ma allar­ga­ta del ven­tre. Un’origine medio­rien­ta­le del­la “civil­tà dau­nia” pro­pria­men­te det­ta è alta­men­te ipo­tiz­za­bi­le anche sul­la base di que­sti ritro­va­men­ti archeo­lo­gi­ci. E se già le ori­gi­ni di que­sto popo­lo paio­no esse­re carat­te­riz­za­te da un sostra­to cul­tu­ra­le altro, diver­so da quel­lo indoeu­ro­peo, le espres­sio­ni arti­sti­che e cul­tu­ra­li del­la Dau­nia suc­ces­si­ve alla fase neo­li­ti­ca, sem­bra­no con­fer­ma­re la per­ma­nen­za flo­ri­da di que­sto sostra­to cul­tu­ra­le. Sostra­to cul­tu­ra­le che pare per­si­ste­re anco­ra nel­la fase fina­le dell’età del Bron­zo, perio­do al qua­le risal­go­no le pri­me scul­tu­re in pie­tra del­la Dau­nia anti­ca. 

A Mon­te Sara­ce­no, infat­ti, sono sta­te recu­pe­ra­te mol­te scul­tu­re in pie­tra antro­po­mor­fe che rap­pre­sen­ta­no teste uma­ne in uno sti­le roz­zo ma estre­ma­men­te effi­ca­ce, come ritie­ne De Juliis (1988, 26). Teste in pie­tra che pre­sen­ta­no i carat­te­ri rudi­men­ta­li del vol­to e non solo: sono rap­pre­sen­ta­te anche del­le orec­chie e degli orec­chi­ni ad anel­lo. Già que­sti pri­mi ele­men­ti ci fan­no pen­sa­re a raf­fi­gu­ra­zio­ni di tipo fem­mi­ni­le, e infat­ti la mag­gior par­te del­le teste ritro­va­te sono iden­ti­fi­ca­bi­li come fem­mi­ni­li, soprat­tut­to gra­zie all’elemento più carat­te­ri­sti­co di que­sti ritro­va­men­ti, che è quel­lo su cui mag­gior­men­te mi sof­fer­me­rò, e cioè la gros­sa trec­cia poste­rio­re. È pro­prio la trec­cia ad aver per­mes­so, infat­ti, il col­le­ga­men­to — sep­pur fino­ra in soli due casi data la dif­fi­col­tà di rico­no­sce­re i carat­te­ri rudi­men­ta­li del­la rap­pre­sen­ta­zio­ne del­la trec­cia nei pila­stri sui qua­li ade­ri­va la testa — fra due teste a due busti paral­le­le­pi­pe­di ritro­va­ti nel­la vasta Necro­po­li di Mon­te Sara­ce­no (De Juliis 1988, 25–26), uno ico­ni­co e l’altro ani­co­ni­co.

Ma la tra­di­zio­ne del­la scul­tu­ra in pie­tra del­la pri­ma età del Fer­ro con­ti­nua duran­te tut­ta l’età arcai­ca, dan­do vita alla fio­ri­tu­ra del­le “ste­le dau­nie”. Que­sti impor­tan­ti monu­men­ti dau­ni sono costi­tui­ti da una ste­le di cal­ca­re tene­ro loca­le, sot­ti­le e ampia, di for­ma ret­tan­go­la­re sor­mon­ta­ta da una testa o giu­stap­po­sta ad essa con un per­no, o rica­va­ta dal­la lastra stes­sa. La ste­le era deco­ra­ta con sce­ne di vita quo­ti­dia­na all’aperto — cac­cia, pesca, navi­ga­zio­ne — o sce­ne di vita dome­sti­ca — moli­tu­ra del gra­no e fila­tu­ra. Inol­tre di estre­mo inte­res­se sono le rap­pre­sen­ta­zio­ni di miti spes­so diver­si da quel­li del­la tra­di­zio­ne gre­ca, o le imma­gi­ni di riti magi­ci-reli­gio­si di tipo “ero­ti­co” o  indi­can­ti il cul­to dei mor­ti e con­nes­se a cre­den­ze di tipo esca­to­lo­gi­co, o  anco­ra le rap­pre­sen­ta­zio­ni di figu­re mostruo­se. Que­ste ulti­me carat­te­ri­sti­che riman­da­no, anco­ra una vol­ta, alla cul­tu­ra indo­me­di­ter­ra­nea. E in que­sto sen­so pre­zio­si sono gli stu­di di Vit­to­re Pisa­ni (1938, 1941, 1962) e quel­li di Dome­ni­co Sil­ve­stri (1974, 1977).

Tut­ta­via le ste­li non rap­pre­sen­ta­no solo sog­get­ti fem­mi­ni­li ma anche maschi­li, sep­pur in nume­ro net­ta­men­te infe­rio­re. Le due tipo­lo­gie di ste­le si dif­fe­ren­zia­no per alcu­ne carat­te­ri­sti­che: quel­le di tipo fem­mi­ni­le pre­sen­ta­no un inca­vo al cen­tro del­le spal­le, nel qua­le si inne­sta il col­lo orna­to di col­la­ne o pen­da­gli e fibu­le sul pet­to. Inol­tre, le spal­le del­la ste­le di tipo fem­mi­ni­le pos­so­no esse­re rap­pre­sen­ta­te for­te­men­te rial­za­te. Le ste­le “maschi­li”, inve­ce, si rico­no­sco­no per la pre­sen­za di armi, come spa­de o pugna­li e per la pre­sen­za del pet­to­ra­le o kar­dio­phy­lax sul­la par­te ante­rio­re del­la ste­le, men­tre sul retro si tro­va spes­so raf­fi­gu­ra­to lo scu­do. Quel­le maschi­li si carat­te­riz­za­no anche per la man­can­za dell’incavo cen­tra­le sul qua­le si sovrap­po­ne il col­lo inor­na­to. Infi­ne, anche la rap­pre­sen­ta­zio­ne del­le brac­cia è carat­te­ri­sti­ca dei due tipi. Le brac­cia “maschi­li” sono infat­ti rap­pre­sen­ta­te nude, pri­ve di orna­men­ti, men­tre quel­le “fem­mi­ni­li” si distin­guo­no per la pre­sen­za di lun­ghi guan­ti. 

Le ste­li di tipo fem­mi­ni­le ritro­va­te sono in nume­ro supe­rio­re rispet­to a quel­le maschi­li e que­sto fat­to ha indot­to l’archeologa Nava (1979, 136–137) ad ipo­tiz­za­re — ipo­te­si al tem­po riget­ta­ta dal De Juliis (1984, 137–184) — che le ste­li “fem­mi­ni­li” rap­pre­sen­tas­se­ro indi­vi­dui ugua­li, e quin­di tut­ta la comu­ni­tà, ad esclu­sio­ne degli indi­vi­dui maschi­li, inve­ce, che sareb­be­ro deter­mi­na­ti in modo ine­qui­vo­ca­bi­le dal­la rap­pre­sen­ta­zio­ne del­le armi. Ma su que­sta inter­pre­ta­zio­ne, che ripor­tia­mo per rigo­re scien­ti­fi­co, non ci sof­fer­me­re­mo dato che anche nel­le ste­li di tipo fem­mi­ni­le sono pre­sen­ti ele­men­ti che ine­qui­vo­ca­bil­men­te ricon­du­co­no alla sfe­ra fem­mi­ni­le. In que­sta sede, inve­ce, ci sof­fer­me­re­mo su quell’elemento par­ti­co­la­re pri­ma sot­to­li­nea­to: la gros­sa trec­cia che carat­te­riz­za le scul­tu­re in pie­tra, anche quel­le pre­ce­den­ti alle cosid­det­te “ste­le dau­nie” del perio­do arcai­co.

Riten­go che le fon­ti da pren­de­re in con­si­de­ra­zio­ne per com­pren­de­re qual­co­sa in più di que­sta gros­sa trec­cia rien­tri­no nel cam­po di stu­di del­la lin­gui­sti­ca sto­ri­ca. In par­ti­co­la­re, voglio par­ti­re dall’analisi del les­si­co lati­no, andan­do a ritro­so nel tem­po attra­ver­so alcu­ni ter­mi­ni, pri­mo fra tut­ti “capil­lus”. In “Sto­ria del­la lin­gua lati­na” (Pisa­ni 1962, 126 — 127) notia­mo come  “capil­lus”, capel­lo e anche pelo o capel­li, chio­ma, sia dal lin­gui­sta posto in rela­zio­ne con il ter­mi­ne pri­mi­ti­vo ario “kapar­da”, che indi­che­reb­be una trec­cia di capel­li avvol­ta come una con­chi­glia. Il ter­mi­ne ario “kapar­da” vie­ne poi dal­lo stes­so Pisa­ni asso­cia­to alla sup­po­sta for­ma san­scri­ta *kapel­do — */ *kapal­do dal­la qua­le poi, for­se, “capil­lus”. L’origine del ter­mi­ne lati­no che è, appun­to, oscu­ra ren­de que­sta rico­stru­zio­ne del Pisa­ni oltre­mo­do inte­res­san­tis­si­ma. Diri­men­te, poi, anche lo stu­dio di Giu­lio Pau­lis del ter­mi­ne gre­co σκαπερδα, fune intrec­cia­ta: secon­do la sua rico­stru­zio­ne il gre­co σκαπερδα signi­fi­che­reb­be anch’esso “fune intrec­cia­ta” (Σκαπέρδα 1969, 213–214) .

Dun­que il lati­no “capil­lus” potreb­be affon­da­re le sue radi­ci in una del­le più impor­tan­ti iso­glos­se — ovve­ro una linea imma­gi­na­ria trac­cia­bi­le in un ter­ri­to­rio nel qua­le si rico­no­sce uno stes­so feno­me­no lin­gui­sti­co - indo­me­di­ter­ra­nee pre­se in ana­li­si anche da Sil­ve­stri (1974,  89–118) . Ciò pare avva­lo­ra­to dal fat­to che uno dei nomi di un dio noto­ria­men­te pre­a­rio, Çiva, fos­se pro­prio kapar­di, deri­va­to di kapar­da e indi­can­te anco­ra “capi­glia­tu­ra intrec­cia­ta”. Çiva, è bene sot­to­li­near­lo, era una divi­ni­tà mem­bro di una tria­de divi­na, la Tri­mūr­ti —  asso­cia­zio­ne del­le tre figu­re divi­ne Brah­ma, Visnù e Çiva nel­le reli­gio­ni dell’Indo. Will­bald Kir­fel (1948), dimo­stra che le figu­ra­zio­ni occi­den­ta­li del­la Tri­ni­tà pre­sen­ta­no non solo note­vo­li ana­lo­gie con la Tri­mūr­ti, ma che que­ste abbia­no le pro­prie radi­ci nell’antica cul­tu­ra indo­me­di­terr­ra­nea. Infat­ti, raf­fi­gu­ra­zio­ni del­la divi­ni­tà com­pa­io­no già su alcu­ni sigil­li del­la civil­tà pre­a­ria — quin­di pre­in­doeu­ro­pea — dell’alto Indo per poi con­flui­re nell’induismo, pro­prio attra­ver­so la figu­ra di Çiva.

Pos­sia­mo quin­di, in con­clu­sio­ne di que­sto pri­mo lavo­ro inter­pre­ta­ti­vo, pro­va­re ad ipo­tiz­za­re che per la civil­tà svi­lup­pa­ta­si lun­go tut­to il Medi­ter­ra­neo intrec­cia­re i capel­li fos­se d’uso comu­ne. Uso, dun­que, pro­ba­bil­men­te ere­di­ta­to dal­la stes­sa popo­la­zio­ne che abi­tò, fin dal Neo­li­ti­co, l’antica Dau­nia e che rima­se inval­so alme­no fino al VI a.C, seco­lo di gran­de pro­du­zio­ne di ste­le dau­nie. Inol­tre, potrem­mo anche comin­cia­re a pen­sa­re che per gli indo­me­di­ter­ra­nei que­sto uso fos­se asso­cia­to a divi­ni­tà lega­te alla figu­ra del­la Gran­de Madre. Ma, per cor­ro­bo­ra­re ulte­rior­men­te que­sta tesi, sarà neces­sa­rio ana­liz­za­re ulte­rio­ri reper­ti archeo­lo­gi­ci e l’iconografia del­le stes­se ste­le dau­nie, che mol­to spes­so costi­tui­sce l’unico vei­co­lo di com­pren­sio­ne degli usi e dei costu­mi del­la socie­tà dau­nia e, a que­sto pun­to pos­sia­mo dir­lo, spun­to di com­pren­sio­ne ulte­rio­re di quel­la che Pisa­ni defi­ni­sce “uni­tà cul­tu­ra­le Indo­me­di­ter­ra­nea” (1938, 199–213). È impor­tan­te, a pare­re di chi scri­ve, aggiun­ge­re che la dif­fi­col­tà del­la rico­stru­zio­ne lin­gui­sti­ca, che per­met­te di spo­sta­re la lan­cet­ta del tem­po a perio­di come il IV mil­len­nio a.C., non deve sco­rag­gia­re lo stu­dio di una civil­tà tan­to anti­ca come quel­la indo­me­di­ter­ra­nea quan­to piut­to­sto l’archiviazione sem­pli­ci­sti­ca di inter­pre­ta­zio­ni super­fi­cia­li e poco avvez­ze all’approfondimento. For­se solo con l’arditezza del­lo sca­vo del­le fon­ti è pos­si­bi­le otte­ne­re ipo­te­si sen­sa­te e forie­re di ulte­rio­ri dub­bi e pos­si­bi­li­tà.


Biblio­gra­fia

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