Nel 1998 esce una commedia francese intitolata Le Dîner de cons di Francis Veber. Più che come Cena dei Cretini, bisognerebbe tradurlo con: Cena di Cretini, come se – come di fatto succede – il cretino fosse la pietanza principale. Lo spunto del film è molto semplice: cosa succederebbe se dei borghesi altolocati organizzassero delle cene in cui ciascuno porta uno scemo come suo campione, in una gara in cui la palma del vincitore viene assegnata a colui che ha invitato il più idiota fra i vari concorrenti?
La commedia, tuttavia, per quanto nell’ultimissima scena ribadisca l’idiozia del cretino in questione, ha anche tratti moralisticheggianti che sottolineano la cattiveria di un tale passatempo in cui ci si diverte a discapito dei più scemi. E, in effetti, la scemenza non è una colpa, per cui sarebbe effettivamente senza cuore organizzare una cena del genere. Esiste, però, una variante del cretino nei confronti della quale lo scherno sembra maggiormente legittimato: si tratta del poser (letteralmente: colui che posa). Per questi, in effetti, è difficile provare empatia. Se si volesse dunque organizzare una cena di posers, quali criteri dovremmo seguire per riconoscere il nostro “campione” e poterlo così invitare?
Per poter rispondere a questo quesito, dobbiamo innanzitutto domandarci: chi è il poser? Possiamo notare fenomenicamente che il poser ha un rapporto privilegiato con l’apparenza: il poser è colui che non si interessa di essere autenticamente in un certo modo, ma che concentra i suoi sforzi nell’apparire. Ma cosa, nello specifico, ci si preoccupa di far apparire?
Iniziamo dicendo che il poser cerca, come chiunque altro, di raggiungere un fine — telos/τέλος. Tuttavia, il fine di un’azione è raramente semplice, ma spesso si compone da un lato del fine proprio dell’azione o del processo, e dall’altro di un fine sopraggiungente - epiginomenon/ἐπιγινόμενον -, cioè un fine che si aggiunge a quello proprio come un di più (vd. Aristotele, EN, X, 1174b). Questa compresenza dei fini — propri e sopraggiungenti — vale per la maggior parte delle azioni. Prendiamo ad esempio la lettura. Leggere ha un fine proprio — l’appropriazione da parte del lettore del pensiero dello scrittore — e fini sopraggiungenti, tra cui il piacere stesso della lettura o il valore sociale che si trae dal fatto di essere una persona che legge.
Potremmo dire che, per un poser, l’importante non è il risultato in quanto fine proprio di un processo determinato: il risultato, proprio in quanto risultato, trova il proprio senso soltanto in seno al processo che lo ha prodotto — non si può ad esempio raggiungere il fine proprio della lettura senza aver letto il libro. Qualora invece il fine venga astratto dal processo che naturalmente lo produce, esso diventa soltanto il simulacro di un fine: il poser non ricerca i fini delle attività che finge di perseguire, ma soltanto il loro simulacro. Il processo viene trascurato perché troppo faticoso e, ipso facto, il risultato stesso non è apprezzato in quanto fine, – perché, se così fosse, il poser dovrebbe assumersi l’onere di investirsi anche nel processo che, solo, può produrlo –, ma soltanto nei fini sopraggiungenti che accompagnano il fine autentico di un’attività. Detto altrimenti, il poser non è interessato ai benefici reali e intrinseci dell’attività nella quale posa, ma ricerca quei benefici estrinseci che derivano, in seno ad una società, dall’apparire come un membro che la pratica. Per esempio, il poser-artista non ricerca nell’attività artistica i benefici che la creazione di un’opera d’arte può apportare al suo autore, bensì desidera quelli che all’artista derivano dal fatto stesso di essere artista, in una società in cui essere artisti costituisce un valore.
Ma perché il poser preferisce l’apparenza alla realtà, avere l’aria dell’artista, senza esserlo veramente? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo cercare di cogliere i tratti fondamentali della natura del poser. Abbiamo iniziato dicendo che il poser è una variante del cretino. Qual è, però, la differenza specifica del poser rispetto al resto dei cretini? I cretini, in generale, sono persone mediocri. In che modo specifico, quindi, i posers sono mediocri? Un poser-artista, per esempio, è colui che non è sufficientemente (o niente affatto) capace di fare arte, cioè di desiderare il fine che l’attività artistica può fornire e, in virtù di questa mediocrità, rivolge il proprio desiderio, come un second best, non già sull’attività stessa, ma sulla parvenza di questa attività. La sua mediocrità, insomma, non gli fa desiderare l’arte, ma l’apparenza dell’arte. Si desidera, infatti, ciò che si può; come il pittore naturalista che “finisce per dipingere soltanto quello che piace a lui. E cosa gli piace? Quel che dipingere sa” (Nietzsche 1967, 46). Non dunque volere è potere, ma piuttosto potere è volere.
Né i cretini né i posers sono capaci di raggiungere dei risultati importanti. Ciò che li distingue, tuttavia, è che il poser, nonostante la sua mediocrità, è ambizioso, poiché vuole avere quei benefici di cui parlavo sopra, mentre il cretino sta bene così. Nel Dîner de cons, il cretino protagonista passa il suo tempo libero a ricostruire dei monumenti importanti con dei fiammiferi. È un’attività da cretino – ci dice il film –, ma il cretino la fa perché gli piace e non perché spera, da questa attività, di trarre un vantaggio di immagine. Il poser, invece, è colui che, pur essendo mediocre, riesce nondimeno a cogliere lo spirito del tempo, ovvero ciò che, nel luogo e nel tempo in cui vive, rende una persona attraente, e cerca quindi di appropriarsi della parvenza di questo carattere.
Questi insegue l’apparenza perché da un lato è incapace di appropriarsi della realtà, ma dall’altro desidera avere i benefici che l’appartenenza ad una determinata categoria sociale può dare. La mediocrità – la quale può essere il frutto di un coacervo di elementi: il dato biologico, l’educazione, la pigrizia caratteriale, l’assenza di metodo… – unita all’ambizione è dunque la miscela che produce il poser: egli non coglie i reali benefici per cui l’essere umano ha iniziato e ha continuato a praticare certe attività, però nota i vantaggi apparenti e secondari che queste attività portano a chi le pratica. Bisogna allora che anch’egli le pratichi.
Adesso che abbiamo enucleato gli elementi principali che compongono la figura del poser, dobbiamo cogliere il meccanismo attraverso cui tali persone mettono in opera il loro personaggio. Detto altrimenti, qual è la legge che regola la formazione di un poser? Come avviene che, data la sua mediocrità e ambizione, il poser si comporti come tale?
Chiunque aspira al meglio, per cui anche il poser tenta di imitare delle grandi figure e non già dei mediocri come lui. Ma come avviene questa imitazione? La legge che domina questo processo può essere colta in una certa inversione del rapporto di causalità. In breve, il poser scambia la causa con l’effetto. Chiariamo questa idea con qualche esempio.
Abbiamo detto che il poser vuole assumere le sembianze di un grande personaggio. Ora capita talvolta che i grandi geni siano, in virtù del loro genio stesso, pazzi – il termine pazzo non ha qui né un’accezione clinica né tantomeno dispregiativa, ma piuttosto il senso neutro di eccentrico. Prendiamo ad esempio personaggi come Eraclito, Diogene il Cane, Michelangelo, Caravaggio, Mozart, Beethoven, Hölderlin, Nietzsche, Wittgenstein… È comprensibile come il genio possa portare i nervi di taluni – ma, e ci ritorneremo, non di tutti – ad impazzire. Ecco, il poser è colui che inverte il rapporto di causa-effetto e, in mancanza del genio (causa), si procura arbitrariamente e artificialmente l’effetto (pazzia): fa dunque il pazzo o l’eccentrico, cercando così di persuadere, soprattutto e innanzitutto sé stesso, di esser fuori dalla norma, un’eccezione.
L’esempio di Eraclito è interessante e può fare da ponte per un’altra esemplificazione. Eraclito era detto l’oscuro, in virtù della difficile sintassi delle sue frasi. Questa sintassi era intrinsecamente determinata dall’ambiguità che – nella sua filosofia – travaglia il reale e che egli, da genio qual era, voleva trasferire allo stile della sua opera. Questo rapporto tra sintassi e filosofema, tra forma e contenuto, lo ritroviamo, esplicitato, in Heidegger, il quale all’inizio di Essere e Tempo (1971, 55) scrive :
“Per quanto concerne la goffaggine e la “ineleganza” di espressione delle analisi che seguono, si può aggiungere che un conto è informare sull’ente raccontando, e un altro è cogliere l’ente nel suo essere. Per questa seconda impresa mancano non solo la maggior parte delle parole, ma, prima di tutto, la “grammatica”. Se ci è lecito richiamare precedenti analisi sull’essere, impareggiabili quanto al loro livello, si paragonino le sezioni ontologiche del Parmenide di Platone o il quarto capitolo del settimo libro della Metafisica di Aristotele con qualche passo narrativo di Tucidide, e si vedrà quale sforzo inaudito fu richiesto ai greci dai loro filosofi in fatto di formulazioni linguistiche. Quando le forze siano essenzialmente inferiori e, per di più, l’ambito ontologico da esplorare assai più arduo di quello che fu presentato ai greci, è inevitabile che crescano anche la prolissità della elaborazione concettuale e la durezza dell’espressione.”
Lo stile, insomma, deve adeguarsi all’oggetto di cui si deve trattare. È dunque questo che causa e determina un certo stile, talvolta oscuro quando l’oggetto di indagine è esso stesso oscuro. Ma una persona mediocre, che non può affatto avventurarsi in una tale gigantomachia, invertirà il rapporto di causalità, cercando di spacciare il proprio brutto stile per profondità intellettuale: “e poi per me non sono neppure abbastanza puliti: essi tutti intorbidano le proprie acque per farle sembrare profonde” (Nietzsche 1968, 148).
I posers cercano, insomma, di comprare a buon mercato il genio con la moneta della cattiva sintassi e, perché no, talvolta anche della cattiva ortografia – o, più generalmente, della cattiva forma.
Altra caratteristica del genio – trasversale a qualsiasi genio – è una certa originalità. Si può essere originali, cioè uscire dalla visione comune delle cose, per dar vita, se non ad un nuovo paradigma – come Newton, Einstein, Bohr –, quantomeno a nuove idee. L’originalità è, forse, la cifra più essenziale del genio: il genio, ci pare, è proprio colui che è originale par excellence. Ma, ancora una volta, l’originalità dipende dal genio e non, viceversa, il genio dall’originalità: non si è geniali perché si è originali, ma si è originali perché geniali. Allora, il nostro piccolo poser, che vuole essere un genio ma non lo è, prova ad acquisirne la parvenza cercando di essere originale. Questo si traduce nel comportamento più fastidioso del poser, ovvero l’anticonformismo. Non riuscendo, in mancanza di intelligenza, a cogliere idee o a creare costumi nuovi, nel dubbio il poser nega tutti quelli correnti. Così facendo, il poser non solo manca di intelligenza, ma perde anche il buonsenso necessario per essere tollerato dalla società. La sua parola d’ordine è: no! E il suo comportamento stravagante. Ovviamente poi, quando gli viene chiesto di rendere conto del suo essere sempre contro, egli può rifugiarsi nell’oscurità di cui sopra, e propinare spiegazioni e teorie incomprensibili che, ai suoi occhi e anche a quelli delle persone meno attente, non solo non lo confutano, ma lo fortificano nella sua idea di essere un genio.
Una postilla all’esempio precedente è costituita dal concetto di posterità. Una minima parte dei grandi geni dell’umanità furono, in effetti, postumi. Ragione del loro successo postumo fu la loro inattualità; e ragione della loro inattualità fu, appunto, il loro genio che, proprio in quanto eccezionale, non poteva essere compreso dalla mentalità corrente, o almeno non dalla maggior parte di essa. Il loro pensiero aveva bisogno, insomma, di tempo per essere digerito. Cosa fa il poser quando, in virtù del suo andare sempre contro, del suo atteggiamento eccentrico e della sua espressione oscura, viene criticato da tutti coloro che lo circondano e che gli dicono esplicitamente che è nel torto, se non nell’assurdo? Ebbene costui risponderà, parafrasando Nietzsche: non ho torto, sono postumo: sono giunto troppo presto, ma le generazioni future mi capiranno.
Va detto che il caso della posterità, a differenza dei tre precedenti, non vuole essere performativo: essi non vogliono, con la posterità, produrre il genio – come avveniva, invece, per la follia, l’oscurità e l’originalità –, bensì interpretano sintomaticamente la loro inattualità come segno del loro genio, non vedendo, però, che la posterità è l’eccezione alla regola.
Un altro tratto caratteriale che talvolta si riscontra nei grandi uomini della storia è la loro presunzione. Essi sono capaci non solo di grandi pensieri e azioni, ma anche, riflessivamente, dell’autocoscienza di tale grandezza. Si potrebbero sicuramente fare svariati nomi a riguardo, in ambito teorico – Schopenhauer, Nietzsche, Cartesio, Parmenide – ma anche pratico – Alessandro e Napoleone ad esempio, o potremmo citare i titoli dei capitoli 2, 3, 4, 15 di Ecce Homo di Nietzsche, che sono intitolati rispettivamente: Perché sono così saggio; Perché sono così accorto; Perché scrivo libri così buoni; Perché sono un destino.
Ma per variare i nostri esempi, è possibile volgersi al padre della nostra lingua, Dante, che nel canto quarto della Commedia (Inferno, IV, vv. 85–93), scrive:
“Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ‘l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene»”.
Così facendo, Dante si paragona ai cinque grandi poeti precristiani “ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera, /sì ch’io fui sesto tra cotanto senno” (Commedia, Inferno, IV, vv. 101–2). Ora una tale presunzione è giustificata e accettata nei confronti di un grande poeta come Dante. Perché? Perché il suo genio fu tale da produrre un’opera così grande da legittimare un’auto-riconoscenza del genere. Tuttavia il poser, vedendo come un genio sia, in quanto genio, cosciente della propria grandezza, cerca di emulare egli stesso una tale autocoscienza, divenendo così altrettanto arrogante. Ma, ancora una volta, egli si interessa dell’effetto, e non della causa, e tenta, con quello, di raggiungere questa.
È per questa ragione – in aggiunta al suo carattere illusorio – che il poser è una figura così spregevole: non solo vive nell’apparenza, ma ha l’arroganza dei grandi. Oltre il danno, insomma, la beffa.
Questi esempi servono ad illustrare la meccanica del processo con cui il poser si appropria dell’apparenza di un carattere geniale. Allo stesso tempo, egli manifesta anche un altro aspetto. Il poser non può prendere come modelli geni il cui temperamento fu però moderato e stabile. Aristotele fu sicuramente un genio ma la sua logica algida e ferrea non può attrarre un poser, perché essa, pur permeando tutto il sistema filosofico dello Stagirita – e sicuramente anche il suo stile di vita – non ha tratti apparenti. In altre parole, essa produce un reale beneficio se e solo se la si possiede veramente, ma non è possibile imitarla per inseguire un feticcio. Nessuno vuole essere G. Frege – il fondatore della logica matematica contemporanea –, ma tutti vogliono essere Wittgenstein, e questo non per ragioni filosofiche, ma semplicemente perché Wittgenstein, scritto il Tractatus Logico-philosophicus, pensava di aver risolto tutti i problemi della filosofia, e poté così ritirarsi a fare il giardiniere in un monastero. Questo è un comportamento imitabile, col quale il poser può sperare di comprarsi l’etichetta di genio. Ciò può servire come ulteriore chiave per interpretare l’attitudine del poser: per riconoscerlo, un ulteriore consiglio è sbirciare le sue letture. Difficilmente sarà appassionato di autori come Anselmo, Tommaso, Hume, Leibniz, Frege, Russell. Ma preferirà autori i cui tratti stilistico-caratteriali sono maggiormente spumeggianti. Il poser ha bisogno di prendere in giro innanzitutto se stesso, per questo non può scegliere figure troppo diverse da un folle genio incompreso nella sua generazione; il confronto deve reggersi innanzitutto nella sua testa. E per questo motivo, se invece di immaginare una cena dei cretini immaginassimo una cena di posers, quest’ultima avrebbe una probabilità minore di essere scoperta come tale dagli invitati. I cretini possono comunque riuscire a identificare altri cretini, come succede nel Dîner de cons, mentre il poser avrebbe particolare difficoltà nel riconoscere i suoi simili. Avendo fatto lo sforzo di scegliere come modelli delle figure particolarmente uniche, non possono loro stessi trovarsi in una categoria che contenga più di una persona.
La cena dei cretini non si vede mai nel film, si rimane perennemente in un pre serata. Un pre serata con un poser sarebbe comunque molto più stancante dell’avere a che fare con un cretino, in quanto il poser richiede la tua completa attenzione. Non perché riescano a catturare il nostro interesse, quanto a suscitare in noi il timore di poter essere come loro. Ognuna di queste discussioni ci rende più cinici, meno capaci di apprezzare molti di quei piaceri a cui si può accedere solo se non si sono mai conosciute persone che apprezzano la stessa cosa per i motivi sbagliati. Gli organizzatori della cena avrebbero, a turno ovviamente, un momento in cui interiormente avrebbero bisogno di convincersi di non essere un poser. Il divertimento della serata non varrebbe la spiacevole conseguenza di non poter più andare assieme ad una lettura di poesia senza sentirsi irrimediabilmente sporchi e bisognosi di assistere a qualcosa su cui nessuno ha mai posato. Brevemente, il poser logora chi non lo è.
Anche il poser non tollera del tutto la compagnia dei propri simili. Se infatti questo pseudo-intellettuale si circondasse di questi ultimi, sarebbe particolarmente improbabile che ci siano cinque geni – che nascono una volta ogni cento anni – tutti nello stesso gruppo e tutti ingiustamente non riconosciuti. Il poser a quel punto avrà un sentimento di inadeguatezza, ma avrà difficoltà a definire gli altri come tali, a meno che non stiano applicando un feticcio di una figura diametralmente opposta alla loro. Infine, il poser riuscirà comunque a riconoscere gli altri come tali, ma non se stesso, banalmente perché lui può contare sul fatto che ha una rappresentazione mentale del proprio sentire maggiore di quella degli altri. Come spiega Hobbes (Leviatano, I, 13), ciascuno si reputa più saggio degli altri per il semplice fatto che vede la propria intelligenza da vicino, e quella degli altri da lontano. Il poser potrà sempre sentirsi come il viandante davanti al mare con nebbia poiché relativamente al sentimento degli altri – che lui non riesce a percepire – il suo sentimento, anche se minuscolo, risulta enorme, e quindi lo mette in una posizione di grandezza di fronte agli altri posers. Inoltre, come per il cretino, è sempre possibile trovare uno genuinamente più poser di te, “da Olimpiadi” come si dice nel Dîner de cons. In una eventuale cena di posers, quindi, si potrebbero persino avere delle discussioni agitate, ma nessuno degli ospiti avrà modo di capire di essere parte di una categoria, essendo il loro obiettivo quello di essere UNICI.
Giorgio Andreoni (giorgiondr)
Bibliografia
Aristotele, 1999. Etica Nicomachea, trad., introd. e note di C. Natali, Laterza, Roma-Bari.
Alighieri, D. [1314] 2016. Divina Commedia. Inferno, commento di A. M. Chiavacci Leonardi, Mondadori, Milano.
Heidegger, M. [1927] 1971. Essere e Tempo, Introduzione: §7, a cura di F. Volpi, trad. P.
Chiodi, Longanesi & C., Milano.
Nietzsche, F. [1882; 1887] 1967. La Gaia Scienza e Idilli di Messina, intr. G. Colli, trad. F. Masini, Adelphi, Milano.
Nietzsche, F. [1885]1968. Così parlò Zarathustra, II, Dei Poeti, Adelphi, Milano.