Viaggio nella neonata Russia
Ci stiamo congedando dall’epoca sovietica. Che è come dire: dalla nostra stessa vita.
Aleksievič 2013, 13.
La giornalista della Novaja Gazeta è una ragazza allampanata, sorridente e con un paio di grandi occhiali da vista. Nel foyer del Teatro della Gioventù di Volgograd mi spinge sotto il naso un piccolo microfono collegato ad un registratore a cassette. Ci fissiamo negli occhi, incapaci di parlare. Cosa possiamo dire in un momento così straordinario per entrambi?
Insieme a Roberta, avevo curato la regia Giorni Felici di Samuel Beckett. Nella nostra interpretazione, Winnie, la protagonista, era sola e semisepolta in una gonna nuziale di sei metri di diametro sulla quale il pubblico era invitato a sedersi. Per cinquanta minuti la straordinaria bravura di Roberta faceva rivivere la bizzarra creatura per un pubblico che le si sedeva praticamente in grembo.
È il ventotto agosto del millenovecentonovantadue. La Jugoslavia scivola nella guerra civile, a Milano scoppia Mani Pulite, in Sicilia muoiono Falcone e Borsellino, il pestaggio di Rodney King a Los Angeles provoca una rivolta sanguinosa. Al governo ci sono George Bush padre, John Major, Yitzhak Rabin, Boris El’cin, Giuliano Amato e Giovanni Paolo II. Il Web è nato soltanto l’anno prima.
Da poco più di sei mesi l’Unione Sovietica, il paese più esteso al mondo, non esiste più.
Il primo impatto con il gigante sovietico è il viso di un giovane poliziotto. Porta il cappello con lo stemma con falce e martello sullo sfondo rosso rubino. Dal gabbiotto del controllo passaporti ci guarda e sorride. A metà agosto eravamo sbarcati in tre, all’aeroporto di Mosca Šeremet’evo, con un invito ufficiale della città di Volgograd per la messa in scena dello spettacolo nel locale Teatro della Gioventù. Il poliziotto non fa domande, noi non chiediamo nulla ma la curiosità è reciproca.
È difficile capire oggi cosa significasse varcare quella frontiera. Una cortina di ferro aveva nascosto per anni il paradiso socialista, o l’inferno comunista, a seconda della propria visione polarizzata del mondo. I pochi che vi avevano viaggiato avevano riportato impressioni contrastanti. Per noi, la Russia Sovietica era un luogo immaginato, giudicato, trattato con cautela. Un monolite appena scalfito dalla glasnost, la trasparenza, del governo Gorbačëv.
Dei russi avevamo un’idea vaga ma sempre ingombrante: da Stalin a Tolstoj, dalla bellezza di Nureyev allo sguardo di pietra di Bréžnev, mentre Sting cantava: I hope the russians love their children too.
Nel 1990, ero stato in quella che da poche settimane non era più Berlino Est. Lunghe porzioni di Muro erano ancora in piedi insieme alla larga trincea, terra di nessuno, che divideva i due mondi come una cicatrice. Avevo visto i negozi Konsum, viaggiato su un’utilitaria Trabant, fotografato su pellicole ORWO in bianco e nero gli squatter di Prenzlauerberg. Ma quelli erano tedeschi, un po’ diversi ma comunque europei.
Dal primo di gennaio del 1992 l’Unione Sovietica, il cuore del socialismo reale, si era dissolta. Ciò che ci si presentava era un paese nuovo, aperto, capitalista e parte del cosiddetto mondo libero. Ma nel sangue, nelle abitudini, nel modo di guardare il mondo, quel paese gigantesco era ancora profondamente sovietico.
La nostra guida è Andrej, figlio di un cosacco di Volgograd. Secondo quanto afferma lui stesso, il suo cognome significa: uomo che non ha voglia di fare nulla. È biondo, fuma in continuazione, è gentile e abituato ad arrangiarsi in qualsiasi situazione. Ha una moglie che fa la pittrice che ha cominciato ad esporre in Italia.
Saliamo su un affollato autobus pubblico perché le voci di tassisti che assalgono i turisti sono sempre più insistenti. Lì inizia la costante litania “Italiani? Ah italiani” che ci seguirà per tutto il viaggio. Una formula pronunciata con un misto di sorpresa, cautela e curiosità.
L’Arbat, da sempre via del commercio della capitale, è invasa da banchi di commercianti improvvisati. Sui tavolini da campeggio, sui passeggini, sulle sedie portate da casa, scatoloni o semplici lenzuola si vende di tutto, soprattutto memorabilia di archeologia sovietica per gli scarsi turisti. Scambiamo un biglietto da cento dollari da un cambiavalute illegale che paga dodici volte di più del cambio ufficiale. Ci consegna cinque o sei rotoli di rubli, grandi come rotoli di carta igienica, che in tutto il viaggio non riusciremo a spendere.
Ora cosa vuoi vedere? domanda Andrej. Subito penso ai musei, come fossi un semplice turista, ma Andrej insiste: “Qualcosa che vuoi veramente vedere”. Faccio un elenco ambiziosissimo: il Teatro d’Arte di Stanislavskij, lo studio di animazione di Alexander Tatarsky, la galleria Tret’jakov, gli studi della Mosfil’m, l’università statale Lomonosov, il mausoleo di Lenin, gli stagni Patriaršie dove comincia il Maestro e Margherita di Bulgakov. “Al Mausoleo e agli stagni ci possono andare tutti”, dice Andrej. Poi si attacca al telefono e con una serie di chiamate risale la scala gerarchica dei luoghi che gli ho indicato e annuncia: un italiano, grande regista, famoso disegnatore e artista desidera visitarvi. Siamo accolti a braccia aperte dappertutto.
Sono tutti felici di vederci, anche coloro che per ragioni professionali hanno frequentato l’Occidente e per cui non rappresentiamo una novità. È forse vederci lì, a casa loro, pieni di curiosità e ammirazione, che li stupisce.
Dalla stazione fluviale sulla Moscova saliamo sulla motonave Nikolaj Karamzin. Può ospitare fino a 260 passeggeri ma non siamo più di una quarantina di viaggiatori. Noi tre siamo gli unici stranieri, insieme ad una famiglia di algerini.
Sulla spianata della stazione fluviale arriva una Lincoln Continental rossa decappottabile. Mentre l’autista si occupa della valigia, il passeggero ci raggiunge. È un amico dei nostri ospiti, si chiama anche lui Andrej, subito ribattezzato Andrej Secondo. Andrej Secondo si presenta come businessman.
Molte delle persone che abbiamo incontrato si presentano come businessman con tanto di biglietto da visita in caratteri cirillici e latini. Sono quasi tutti intermediari, venditori di qualsiasi cosa possa essere appetibile all’Occidente. Legname, ambra, metalli, artigianato, argenteria, armi, anche se di armi è meglio non parlare. In questo caso il businessman è il fratello di Andrej Secondo: ogni settimana spedisce un treno di legname in Germania con profitti da capogiro. Andrej Secondo si gode i frutti. La Lincoln riparte. La ritroveremo al porto della nostra destinazione, mille chilometri più a sud, in attesa del suo proprietario.
Al tramonto partiamo. La rotta prevede di raggiungere il Volga attraverso il canale di Mosca, scendere a sud facendo tappa a Uglich, Kostroma, Nizhny Novgorod, Kazan, Samara, Saratov fino raggiungere il Mar Caspio, ad Astrakhan. La nostra meta è la penultima fermata: tra una decina di giorni sbarcheremo a Volgograd, la città che dal 1925 al 1961 ha portato il nome di Stalingrado.
L’equipaggio della Karamzin è diviso tra marinai, tutti in divisa, e il personale di servizio, per lo più ragazze.
La ragazza che ci serve al tavolo sfoggia una cascata di riccioli neri e una collanina d’oro dalla quale pende una stella di Davide. Fino a pochi mesi fa l’ostentazione di una fede religiosa non sarebbe stata certamente ben vista.
La mattina presto qualcuno ci sveglia battendo sulla porta della cabina come per una perquisizione. Non ci alziamo in tempo e una cameriera apre strillando “Uborka! Uborka!”. Ho la tentazione di alzarmi, poggiare le mani contro la parete come durante le retate alle feste delle superiori. Ma la ragazza sta dicendo semplicemente: “Pulizie”.
Di giorno visitiamo le città e i paesi che si affacciano sul fiume. Sulle banchine dove attracchiamo compriamo birra, piccole bottiglie di Vodka e taranka, il pesce secco da sgranocchiare come uno snack. La sera, fino a notte inoltrata, la passiamo a parlare, a bere vodka e birra, a mangiare pesce che compriamo dove attracchiamo. Intrecciamo russo, inglese, qualche parola di francese, gesti, versi, espressioni della faccia. L’ultima notte sono in grado di raccontare vecchie barzellette che i russi apprezzano molto.
Andrej racconta del servizio militare in quella Cecenia che tra due anni entrerà in guerra con la Russia. Racconta di quanto l’Armata Rossa si tenesse insieme grazie a strati di vernice. Non essendoci risorse per le riparazioni o le sostituzioni si riverniciava tutto. I carri armati, i camion, le caserme. Gli strati di vernice sovrapposti finivano per bloccare portelli, l’alzo dei cannoni, i cingoli dei blindati. “Eppure sapevano che eravamo una potenza. Da qualche parte avevamo le armi vere. Non qui, ma da qualche altra parte sì”. Non è per niente entusiasta del nuovo corso. “Guadagnavo poco”, dice, “ma tutto quel che guadagnavo lo potevo dedicare agli amici, all’amore, alle cose che mi piacevano, perché al resto ci pensava lo Stato. Scommetto che alla fine del mese non resta niente”. Non ha tutti i torti.
Le cameriere, i marinai, gli addetti alla sala macchine con le tute blu si uniscono al nostro gruppo. Si lasciano offrire un bicchiere, portano i dolci avanzati dalla cena. Tutti giovani, tutti hanno letto i grandi classici della letteratura russa, i francesi, Dickens e Jonathan Swift, ma di cosa accada nel resto del mondo hanno solo una vaga idea.
La cameriera riccia ci racconta che sta aspettando il permesso di emigrare in Israele. Vorrebbe girare il mondo. “Uborka” beve e tiene gli occhi bassi. Non ha più di sedici anni, dice e ascolta tutto quel che diciamo. Un ragazzo che lavora in sala macchine vuole sapere come sia possibile che abbiamo inventato sia l’opera lirica che il fascismo. Non so cosa rispondere. Si imbarazzano quando spieghiamo l’arte tutta italiana di bestemmiare Dio. E poi barzellette. Ci chiedono di cantare e si stupiscono che non conosciamo le canzoni italiane. Quando un marinaio intona Lasciatemi cantare, come fosse l’aria di un’opera, tutti applaudono.
Parliamo di tutto tranne che di tre cose. Černobyl’, la guerra in Afghanistan, il putsch di agosto, quando ciò che restava del potere sovietico aveva tentato di sovvertire il processo di dissoluzione dell’Unione. “Non ne sappiamo abbastanza”, rispondono quando chiediamo, “è roba che è accaduta lontana da qui. Del putsch sanno qualcosa i moscoviti ma noi stavamo lontani, mille chilometri più a sud”. Neanche Gorbačëv è un argomento gradito.
In quelle improvvisate comunità notturne non si crea nessun legame. L’indomani ci tratteranno con il consueto distacco professionale e Uborka strillerà “Uborka” con la stessa verve militare. Sono come sospesi nel nulla, tra le macerie di un passato inutile e un futuro che faticano a comprendere.
Nelle città dove attracchiamo si è fatta molta della storia russa, tuttavia ora sono quasi sempre deserte. I turisti, provenienti quasi solo dalla neonata Federazione Russa, ci riconoscono subito come stranieri.
La riva della città di Uglich pullula di edifici sacri dai nomi evocativi. Il Monastero della Resurrezione, la Chiesa di San Dimitri sul Sangue, la Chiesa Meravigliosa del Monastero Alexeevsky. Assistiamo ad una funzione religiosa celebrata da un numero di sacerdoti e suore che supera il numero di fedeli. Tra i pochi fedeli ci sono molte giovani. La tentazione di ipotizzare una rinascita della fede tra le generazioni più giovani, soprattutto tra le donne, è forte ma la visita delle pochissime chiese tornate in attività non ha valore statistico. Forse, quelle giovani erano solo lì per curiosità, come noi.
Al porto di Kostroma ci attende un vecchio furgone militare. Ci porta alla periferia della cittadina in un ufficio postale dotato di cabine telefoniche. Compilo un modulo con i dati del destinatario della chiamata. Alla cornetta sento la voce di mia madre. L’addetta, in russo, le chiede se accetta la chiamata a carico. “Devi solo dire “Da” le urlo. Lo devo ripetere più volte finché mio padre, che è stato deportato e ha conosciuto qualche russo, pronuncia la sillaba forte e chiara. Mia madre chiede: “Come va?” Provo ad elaborare una sintesi delle migliaia di impressioni, sguardi, incontri che ci hanno travolto nei pochi intensissimi giorni. Penso a come trasmetterle la sensazione di essere su un pianeta lontano e diverso che però, nelle cose essenziali, è del tutto simile a casa: le chiacchiere, la curiosità, la voglia di condividere. Voglio farle sapere che the russians do love their children too. Ma lo sguardo torvo della centralinista mi mette in soggezione e mi confonde. “Bene”, è tutto ciò che riesco a rispondere.
Nel parco lungo il fiume, a Nizhny Novgorod, le coppie appena sposate ci chiedono di unirci a loro nelle foto ricordo del matrimonio. Siamo circondati da ragazzi e ragazze giovanissimi che vogliono esercitare l’inglese che hanno imparato a scuola. Sono molto precisi nella costruzione della frase, pignoli. È una conversazione bizzarra, svuotata di senso, proprio come nei libri di scuola.
Fino all’anno prima la città portava il nome di Gor’kij ed era stata una città chiusa in quanto uno dei principali centri sovietici di produzione di carri armati. Le città chiuse sono zone considerate “sensibili” per la presenza di impianti militari o nucleari. La circolazione dei cittadini dentro e fuori queste aree era controllata, alcune non figurano nelle mappe dell’Unione, altre neppure avevano un nome. Per contro gli abitanti godevano di un migliore tenore di vita, una migliore assistenza sanitaria e uno stipendio più alto. Ancora oggi in Russia ci sono circa 38 città chiuse. Dopo dieci giorni di navigazione, chiacchiere, barzellette e chiese la motonave attracca sotto il grande disco volante della stazione fluviale di Volgograd.
Quando ancora si chiamava Stalingrado, Hitler l’aveva considerata un obiettivo strategico nell’offensiva contro il nemico comunista. Non tanto per la presenza di qualche fabbrica di armamenti quanto per il nome che portava: quello di Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin, l’uomo d’acciaio. Schiacciare Stalingrado sarebbe stato, simbolicamente, umiliare il suo arcinemico. Nelle strade di questa città, dal luglio 1942 al febbraio del 1943, quasi due milioni e mezzo di soldati si sono scannati in una battaglia leggendaria. Come dagli assedi di Troia, Costantinopoli e Vienna, da Stalingrado è nata un’epica che ha segnato l’inizio di un nuovo periodo storico.
Ci assegnano un appartamento abbastanza grande in Ulitsa Lenina, via Lenin come ancora si chiama. Andiamo a fare la spesa in un mercato aperto dove gli espositori da macelleria sono spenti, il miele si vende in giare da tre chili e le buste di plastica sono un lusso quasi introvabile. Qui, si può comprare il caviale fatto in casa e illegale. I migliori commercianti, ci dicono, sono ceceni, georgiani, azeri che arrivano in treno o in macchina con le loro mercanzie.
Ci sono uomini vestiti di nero, accucciati ai bordi della strada. Viaggiano su Mercedes o Volga nere, con una targa facile da ricordare. È la nuova mafia: la polizia sa che le targhe “facili” non si devono fermare. Andrej ci suggerisce di tenere sempre un biglietto da 10 rubli tra le pagine del passaporto, per i poliziotti.
Il tassista osseto ci promette il miglior giro della città per soli dieci dollari americani. Partiamo dal mulino di Gerhardt. L’edificio, del quale non restano che le mura perimetrali martoriate dai combattimenti, è stato conservato nello stato in cui si trovava alla liberazione della città e trasformato in monumento. Poco lontano sfiliamo davanti al monumento della casa di Pavlov, luogo di un eroico assedio. L’auto costruita negli anni sessanta sfreccia a una velocità preoccupante mentre Giorgio, così si è presentato, tenta di raccontare ciò che vediamo gesticolando. Per fortuna le strade sono ampie e il traffico quasi inesistente.
Costeggiamo la Fabbrica di Trattori, la fabbrica Ottobre rosso, la collina Mamaev, tutti nomi evocativi della grande battaglia di Stalingrado. La collina è diventata un memoriale dello scontro, un percorso scolpito nel cemento armato che porta alla cupola che custodisce una fiamma perenne. Sulle pareti sono incisi i nomi di tutti i caduti. Quando visitiamo il memoriale è deserto, ma il cambio della guardia è solenne come sempre.
Sopra di noi incombe la Madre Patria chiama! una statua alta 85 metri di una giovane donna, allegoria della Madre Russia, che brandisce una spada. È tutto solenne e malinconico, eroico ma lontano nel tempo come Stonehenge, solitario e grigio come un monumento di periferia.
In città, nuovi incontri ci mostrano quanto il tempo stia correndo. Peter non è un businessman, ci tiene a sottolinearlo, ma possiede un canale televisivo che ha messo su in fretta e furia con un gruppo di amici, tutti ventenni. Lavorano con batterie di videoregistratori VHS e telecamere amatoriali. La qualità tecnica delle immagini non è eccelsa ma la voglia di fare qualcosa di nuovo è tanta.
Quando Natalie si presenta alla porta di casa fa un inchino e pronuncia il suo nome alla francese, con l’accento sull’ultima sillaba. È la sorella minore di Sveta, moglie della nostra guida. È di una bellezza struggente e si prepara ad andare a Milano, la capitale della moda.
La prima dello spettacolo che abbiamo portato dall’Italia è appena finita. Nel Teatro della Gioventù di Volgograd siamo circondati da un pubblico curioso, affamato. Quasi tutti giovani, stanno in fila ad omaggiarci con ceste di frutta fresca. Molti di loro torneranno ad ogni replica. Mi sento un animale esotico, un piccolo Gulliver circondato da ospiti incuriositi e meravigliati. Devo ammettere che, malgrado anni di interesse verso l’Unione Sovietica, ci siamo trovati impreparati a ciò che abbiamo vissuto. Una delle cose che più ci ha sorpreso è stata l’attenzione che è stata riservata allo spettacolo. Roberta ha recitato in italiano, un testo non semplice, pieno di significati complessi. Eppure tornano. Qualcuno ha trovato il testo, se l’è letto. Vogliono capire, indagare, entrare in connessione con quel mondo alieno che li sta invadendo e che li spaventa.
Sono sorridenti, gentili, ma sanno di essere una generazione perduta. Una generazione di mezzo che si è laureata con almeno un esame di cultura leninista. Cresciuti in un mondo recluso ma anche solidale, si sono visti sgretolare tra le dita l’idea di potenza e di condivisione con il quale sono stati educati. Sparati in un altro pianeta che orbita secondo regole diverse, dovranno adattarsi il più rapidamente possibile. È una legge naturale: solo chi si adatta in fretta sopravvive.
In quei giorni posso già affermare che a sopravvivere sarà la generazione di businessman aggressivi, spesso spietati, che formeranno la base della società di oligarchi che governerà la nuova Russia. Gli altri, spinti ai margini, saranno considerati nostalgici, sovok, irragionevoli idealisti dimentichi degli orrori dello stalinismo, del totalitarismo proletario, delle code per il pane.
Quando la storia procede per salti non c’è posto per le sfumature.
Sulla Novaja Gazeta, l’articolo che racconterà del nostro passaggio concluderà: Sono venuti in Russia per la prima volta sognando di trovare qui amici e persone che la pensassero allo stesso modo. E forse, riflettendoci nel loro sbigottimento e nella voglia di capire, quelle persone le abbiamo trovate. Non riesco a farmi un’idea precisa di quale direzione sta prendendo quel paese gigantesco, non riesco ad averne una visione dall’alto perché mi sono mischiato tra la gente, in mezzo ai loro pensieri quotidiani che alla fine non sono diversi dai miei, con un’unica eccezione. Il loro passato si è dissanguato, pietrificato. In quella condizione non riesce più a dare loro una base solida sulla quale costruire. Sono orfani senza peso.
Andrej ci aspetta fuori accanto al taxi di Giorgio. “Ora?” chiede. Ora vorrei che il viaggio non finisse. C’è ancora così tanto da vedere, da capire. Non tanto i monumenti, per quello c’è tempo. Ho voglia di incontrare altri russi, altre persone che stanno tentando di sopravvivere a questo lancio in avanti nel tempo. Vorrei immergermi in altri paesaggi umani brulicanti di idee e ansie, di ricordi e rimpianti. La Siberia, il Caucaso, l’Ucraina. E l’estremo est? Vladivostok, nella quale i poderosi sommergibili nucleari stanno affondando? È qui che si sta facendo la storia, e la stanno facendo loro: gli Andrej, Sveta, Peter, i marinai, le cameriere, le telefoniste accigliate.
“Vuoi vedere casa mia?” Dimitri, che chiamano Dima, è un ballerino dal fisico scultoreo e minuto, glabro come una statua di marmo. Per tutto il tempo dello spettacolo ha improvvisato danzando sulle parole di Roberta. Nelle foto si vede appena. “Casa mia è un altro pianeta rispetto a qui”. E poi aggiunge il nome della città, il vecchio nome, il nome con la quale la chiamavano fino ad un anno fa. Leningrado.
Il giorno dopo siamo sul treno, ci aspettano più di duemila chilometri di Russia, verso nord.
Fotografie di Paolo Rapalino
Bibliografia
Aleksievič, Svetlana. 2013. Il tempo di seconda mano, La vita in Russia dopo il crollo del Comunismo. Bompiani Editore, Milano.