17

Ottobre
17 Ottobre 2024

L’AL­TRO PIA­NE­TA

0 CommentI
423 visualizzazioni
27 min

Viag­gio nel­la neo­na­ta Rus­sia

 

Ci stia­mo con­ge­dan­do dall’epoca sovie­ti­ca. Che è come dire: dal­la nostra stes­sa vita. 

Alek­sie­vič 2013, 13.

 

La gior­na­li­sta del­la Nova­ja Gaze­ta è una ragaz­za allam­pa­na­ta, sor­ri­den­te e con un paio di gran­di occhia­li da vista. Nel foyer del Tea­tro del­la Gio­ven­tù di Vol­go­grad mi spin­ge sot­to il naso un pic­co­lo micro­fo­no col­le­ga­to ad un regi­stra­to­re a cas­set­te. Ci fis­sia­mo negli occhi, inca­pa­ci di par­la­re. Cosa pos­sia­mo dire in un momen­to così straor­di­na­rio per entram­bi?

Insie­me a Rober­ta, ave­vo cura­to la regia Gior­ni Feli­ci di Samuel Bec­kett. Nel­la nostra inter­pre­ta­zio­ne, Win­nie, la pro­ta­go­ni­sta, era sola e semi­se­pol­ta in una gon­na nuzia­le di sei metri di dia­me­tro sul­la qua­le il pub­bli­co era invi­ta­to a seder­si. Per cin­quan­ta minu­ti la straor­di­na­ria bra­vu­ra di Rober­ta face­va rivi­ve­re la biz­zar­ra crea­tu­ra per un pub­bli­co che le si sede­va pra­ti­ca­men­te in grem­bo.

È il ven­tot­to ago­sto del mil­le­no­ve­cen­to­no­van­ta­due. La Jugo­sla­via sci­vo­la nel­la guer­ra civi­le, a Mila­no scop­pia Mani Puli­te, in Sici­lia muo­io­no Fal­co­ne e Bor­sel­li­no, il pestag­gio di Rod­ney King a Los Ange­les pro­vo­ca una rivol­ta san­gui­no­sa. Al gover­no ci sono Geor­ge Bush padre, John Major, Yitz­hak Rabin, Boris El’cin, Giu­lia­no Ama­to e Gio­van­ni Pao­lo II. Il Web è nato sol­tan­to l’anno pri­ma.

Da poco più di sei mesi l’Unione Sovie­ti­ca, il pae­se più este­so al mon­do, non esi­ste più.

Il pri­mo impat­to con il gigan­te sovie­ti­co è il viso di un gio­va­ne poli­ziot­to. Por­ta il cap­pel­lo con lo stem­ma con fal­ce e mar­tel­lo sul­lo sfon­do ros­so rubi­no. Dal gab­biot­to del con­trol­lo pas­sa­por­ti ci guar­da e sor­ri­de. A metà ago­sto era­va­mo sbar­ca­ti in tre, all’aeroporto di Mosca Šeremet’evo, con un invi­to uffi­cia­le del­la cit­tà di Vol­go­grad per la mes­sa in sce­na del­lo spet­ta­co­lo nel loca­le Tea­tro del­la Gio­ven­tù. Il poli­ziot­to non fa doman­de, noi non chie­dia­mo nul­la ma la curio­si­tà è reci­pro­ca.

È dif­fi­ci­le capi­re oggi cosa signi­fi­cas­se var­ca­re quel­la fron­tie­ra. Una cor­ti­na di fer­ro ave­va nasco­sto per anni il para­di­so socia­li­sta, o l’inferno comu­ni­sta, a secon­da del­la pro­pria visio­ne pola­riz­za­ta del mon­do. I pochi che vi ave­va­no viag­gia­to ave­va­no ripor­ta­to impres­sio­ni con­tra­stan­ti. Per noi, la Rus­sia Sovie­ti­ca era un luo­go imma­gi­na­to, giu­di­ca­to, trat­ta­to con cau­te­la. Un mono­li­te appe­na scal­fi­to dal­la gla­sno­st, la tra­spa­ren­za, del gover­no Gor­bačëv.

Dei rus­si ave­va­mo un’idea vaga ma sem­pre ingom­bran­te: da Sta­lin a Tol­stoj, dal­la bel­lez­za di Nureyev allo sguar­do di pie­tra di Bréž­nev, men­tre Sting can­ta­va: I hope the rus­sians love their chil­dren too. 

Nel 1990, ero sta­to in quel­la che da poche set­ti­ma­ne non era più Ber­li­no Est. Lun­ghe por­zio­ni di Muro era­no anco­ra in pie­di insie­me alla lar­ga trin­cea, ter­ra di nes­su­no, che divi­de­va i due mon­di come una cica­tri­ce. Ave­vo visto i nego­zi Kon­sum, viag­gia­to su un’utilitaria Tra­bant, foto­gra­fa­to su pel­li­co­le ORWO in bian­co e nero gli squat­ter di Prenz­lauer­berg. Ma quel­li era­no tede­schi, un po’ diver­si ma comun­que euro­pei.

Dal pri­mo di gen­na­io del 1992 l’Unione Sovie­ti­ca, il cuo­re del socia­li­smo rea­le, si era dis­sol­ta. Ciò che ci si pre­sen­ta­va era un pae­se nuo­vo, aper­to, capi­ta­li­sta e par­te del cosid­det­to mon­do libe­ro. Ma nel san­gue, nel­le abi­tu­di­ni, nel modo di guar­da­re il mon­do, quel pae­se gigan­te­sco era anco­ra pro­fon­da­men­te sovie­ti­co.

La nostra gui­da è Andrej, figlio di un cosac­co di Vol­go­grad. Secon­do quan­to affer­ma lui stes­so, il suo cogno­me signi­fi­ca: uomo che non ha voglia di fare nul­la. È bion­do, fuma in con­ti­nua­zio­ne, è gen­ti­le e abi­tua­to ad arran­giar­si in qual­sia­si situa­zio­ne. Ha una moglie che fa la pit­tri­ce che ha comin­cia­to ad espor­re in Ita­lia.

Salia­mo su un affol­la­to auto­bus pub­bli­co per­ché le voci di tas­si­sti che assal­go­no i turi­sti sono sem­pre più insi­sten­ti. Lì ini­zia la costan­te lita­nia “Ita­lia­ni? Ah ita­lia­ni” che ci segui­rà per tut­to il viag­gio. Una for­mu­la pro­nun­cia­ta con un misto di sor­pre­sa, cau­te­la e curio­si­tà.

L’Arbat, da sem­pre via del com­mer­cio del­la capi­ta­le, è inva­sa da ban­chi di com­mer­cian­ti improv­vi­sa­ti. Sui tavo­li­ni da cam­peg­gio, sui pas­seg­gi­ni, sul­le sedie por­ta­te da casa, sca­to­lo­ni o sem­pli­ci len­zuo­la si ven­de di tut­to, soprat­tut­to memo­ra­bi­lia di archeo­lo­gia sovie­ti­ca per gli scar­si turi­sti. Scam­bia­mo un bigliet­to da cen­to dol­la­ri da un cam­bia­va­lu­te ille­ga­le che paga dodi­ci vol­te di più del cam­bio uffi­cia­le. Ci con­se­gna cin­que o sei roto­li di rubli, gran­di come roto­li di car­ta igie­ni­ca, che in tut­to il viag­gio non riu­sci­re­mo a spen­de­re.

Ora cosa vuoi vede­re? doman­da Andrej. Subi­to pen­so ai musei, come fos­si un sem­pli­ce turi­sta, ma Andrej insi­ste: “Qual­co­sa che vuoi vera­men­te vede­re”. Fac­cio un elen­co ambi­zio­sis­si­mo: il Tea­tro d’Arte di Sta­ni­sla­v­skij, lo stu­dio di ani­ma­zio­ne di Ale­xan­der Tatar­sky, la gal­le­ria Tret’jakov, gli stu­di del­la Mosfil’m, l’università sta­ta­le Lomo­no­sov, il mau­so­leo di Lenin, gli sta­gni Patria­ršie dove comin­cia il Mae­stro e Mar­ghe­ri­ta di Bul­ga­kov. “Al Mau­so­leo e agli sta­gni ci pos­so­no anda­re tut­ti”, dice Andrej.  Poi si attac­ca al tele­fo­no e con una serie di chia­ma­te risa­le la sca­la gerar­chi­ca dei luo­ghi che gli ho indi­ca­to e annun­cia: un ita­lia­no, gran­de regi­sta, famo­so dise­gna­to­re e arti­sta desi­de­ra visi­tar­vi. Sia­mo accol­ti a brac­cia aper­te dap­per­tut­to.  

Sono tut­ti feli­ci di veder­ci, anche colo­ro che per ragio­ni pro­fes­sio­na­li han­no fre­quen­ta­to l’Occidente e per cui non rap­pre­sen­tia­mo una novi­tà. È for­se veder­ci lì, a casa loro, pie­ni di curio­si­tà e ammi­ra­zio­ne, che li stu­pi­sce.

Dal­la sta­zio­ne flu­via­le sul­la Mosco­va salia­mo sul­la moto­na­ve Niko­laj Kara­m­zin. Può ospi­ta­re fino a 260 pas­seg­ge­ri ma non sia­mo più di una qua­ran­ti­na di viag­gia­to­ri. Noi tre sia­mo gli uni­ci stra­nie­ri, insie­me ad una fami­glia di alge­ri­ni.

Sul­la spia­na­ta del­la sta­zio­ne flu­via­le arri­va una Lin­coln Con­ti­nen­tal ros­sa decap­pot­ta­bi­le. Men­tre l’autista si occu­pa del­la vali­gia, il pas­seg­ge­ro ci rag­giun­ge. È un ami­co dei nostri ospi­ti, si chia­ma anche lui Andrej, subi­to ribat­tez­za­to Andrej Secon­do. Andrej Secon­do si pre­sen­ta come busi­ness­man.

Mol­te del­le per­so­ne che abbia­mo incon­tra­to si pre­sen­ta­no come busi­ness­man con tan­to di bigliet­to da visi­ta in carat­te­ri ciril­li­ci e lati­ni. Sono qua­si tut­ti inter­me­dia­ri, ven­di­to­ri di qual­sia­si cosa pos­sa esse­re appe­ti­bi­le all’Occidente. Legna­me, ambra, metal­li, arti­gia­na­to, argen­te­ria, armi, anche se di armi è meglio non par­la­re. In que­sto caso il busi­ness­man è il fra­tel­lo di Andrej Secon­do: ogni set­ti­ma­na spe­di­sce un tre­no di legna­me in Ger­ma­nia con pro­fit­ti da capo­gi­ro. Andrej Secon­do si gode i frut­ti. La Lin­coln ripar­te. La ritro­ve­re­mo al por­to del­la nostra desti­na­zio­ne, mil­le chi­lo­me­tri più a sud, in atte­sa del suo pro­prie­ta­rio.

Al tra­mon­to par­tia­mo. La rot­ta pre­ve­de di rag­giun­ge­re il Vol­ga attra­ver­so il cana­le di Mosca, scen­de­re a sud facen­do tap­pa a Uglich, Kostro­ma, Nizh­ny Nov­go­rod, Kazan, Sama­ra, Sara­tov fino rag­giun­ge­re il Mar Caspio, ad Astra­khan. La nostra meta è la penul­ti­ma fer­ma­ta: tra una deci­na di gior­ni sbar­che­re­mo a Vol­go­grad, la cit­tà che dal 1925 al 1961 ha por­ta­to il nome di Sta­lin­gra­do.

L’equipaggio del­la Kara­m­zin è divi­so tra mari­nai, tut­ti in divi­sa, e il per­so­na­le di ser­vi­zio, per lo più ragaz­ze.

La ragaz­za che ci ser­ve al tavo­lo sfog­gia una casca­ta di ric­cio­li neri e una col­la­ni­na  d’oro  dal­la qua­le pen­de una stel­la di Davi­de. Fino a pochi mesi fa l’ostentazione di una fede reli­gio­sa non sareb­be sta­ta cer­ta­men­te ben vista.

La mat­ti­na pre­sto qual­cu­no ci sve­glia bat­ten­do sul­la por­ta del­la cabi­na come per una per­qui­si­zio­ne. Non ci alzia­mo in tem­po e una came­rie­ra apre stril­lan­do “Ubor­ka! Ubor­ka!”. Ho la ten­ta­zio­ne di alzar­mi, pog­gia­re le mani con­tro la pare­te come duran­te le reta­te alle feste del­le supe­rio­ri. Ma la ragaz­za sta dicen­do sem­pli­ce­men­te: “Puli­zie”.

Di gior­no visi­tia­mo le cit­tà e i pae­si che si affac­cia­no sul fiu­me. Sul­le ban­chi­ne dove attrac­chia­mo com­pria­mo bir­ra, pic­co­le bot­ti­glie di Vod­ka e taran­ka, il pesce sec­co da sgra­noc­chia­re come uno snack. La sera, fino a not­te inol­tra­ta, la pas­sia­mo a par­la­re, a bere vod­ka e bir­ra, a man­gia­re pesce che com­pria­mo dove attrac­chia­mo. Intrec­cia­mo rus­so, ingle­se, qual­che paro­la di fran­ce­se, gesti, ver­si, espres­sio­ni del­la fac­cia. L’ultima not­te sono in gra­do di rac­con­ta­re vec­chie bar­zel­let­te che i rus­si apprez­za­no mol­to.

Andrej rac­con­ta del ser­vi­zio mili­ta­re in quel­la Cece­nia che tra due anni entre­rà in guer­ra con la Rus­sia. Rac­con­ta di quan­to l’Armata Ros­sa si tenes­se insie­me gra­zie a stra­ti di ver­ni­ce. Non essen­do­ci risor­se per le ripa­ra­zio­ni o le sosti­tu­zio­ni si river­ni­cia­va tut­to. I car­ri arma­ti, i camion, le caser­me. Gli stra­ti di ver­ni­ce sovrap­po­sti fini­va­no per bloc­ca­re por­tel­li, l’al­zo dei can­no­ni, i cin­go­li dei blin­da­ti. “Eppu­re sape­va­no che era­va­mo una poten­za. Da qual­che par­te ave­va­mo le armi vere. Non qui, ma da qual­che altra par­te sì”. Non è per nien­te entu­sia­sta del nuo­vo cor­so. “Gua­da­gna­vo poco”, dice, “ma tut­to quel che gua­da­gna­vo lo pote­vo dedi­ca­re agli ami­ci, all’amore, alle cose che mi pia­ce­va­no, per­ché al resto ci pen­sa­va lo Sta­to. Scom­met­to che alla fine del mese non resta nien­te”. Non ha tut­ti i tor­ti.

Le came­rie­re, i mari­nai, gli addet­ti alla sala mac­chi­ne con le tute blu si uni­sco­no al nostro grup­po. Si lascia­no offri­re un bic­chie­re, por­ta­no i dol­ci avan­za­ti dal­la cena. Tut­ti gio­va­ni, tut­ti han­no let­to i gran­di clas­si­ci del­la let­te­ra­tu­ra rus­sa, i fran­ce­si, Dic­kens e Jona­than Swift, ma di cosa acca­da nel resto del mon­do han­no solo una vaga idea.

La came­rie­ra ric­cia ci rac­con­ta che sta aspet­tan­do il per­mes­so di emi­gra­re in Israe­le. Vor­reb­be gira­re il mon­do. “Ubor­ka” beve e tie­ne gli occhi bas­si. Non ha più di sedi­ci anni, dice e ascol­ta tut­to quel che dicia­mo. Un ragaz­zo che lavo­ra in sala mac­chi­ne vuo­le sape­re come sia pos­si­bi­le che abbia­mo inven­ta­to sia l’opera liri­ca che il fasci­smo. Non so cosa rispon­de­re. Si imba­raz­za­no quan­do spie­ghia­mo l’arte tut­ta ita­lia­na di bestem­mia­re Dio. E poi bar­zel­let­te. Ci chie­do­no di can­ta­re e si stu­pi­sco­no che non cono­scia­mo le can­zo­ni ita­lia­ne. Quan­do un mari­na­io into­na Lascia­te­mi can­ta­re, come fos­se l’aria di un’opera, tut­ti applau­do­no.

Par­lia­mo di tut­to tran­ne che di tre cose. Čer­no­byl’, la guer­ra in Afgha­ni­stan, il putsch di ago­sto, quan­do ciò che resta­va del pote­re sovie­ti­co ave­va ten­ta­to di sov­ver­ti­re il pro­ces­so di dis­so­lu­zio­ne dell’Unione. “Non ne sap­pia­mo abba­stan­za”, rispon­do­no quan­do chie­dia­mo, “è roba che è acca­du­ta lon­ta­na da qui. Del putsch san­no qual­co­sa i mosco­vi­ti ma noi sta­va­mo lon­ta­ni, mil­le chi­lo­me­tri più a sud”. Nean­che Gor­bačëv è un argo­men­to gra­di­to.

In quel­le improv­vi­sa­te comu­ni­tà not­tur­ne non si crea nes­sun lega­me. L’indomani ci trat­te­ran­no con il con­sue­to distac­co pro­fes­sio­na­le e Ubor­ka stril­le­rà “Ubor­ka” con la stes­sa ver­ve mili­ta­re. Sono come sospe­si nel nul­la, tra le mace­rie di un pas­sa­to inu­ti­le e un futu­ro che fati­ca­no a com­pren­de­re.

Nel­le cit­tà dove attrac­chia­mo si è fat­ta mol­ta del­la sto­ria rus­sa, tut­ta­via ora sono qua­si sem­pre deser­te. I turi­sti, pro­ve­nien­ti qua­si solo dal­la neo­na­ta Fede­ra­zio­ne Rus­sa, ci rico­no­sco­no subi­to come stra­nie­ri.

La riva del­la cit­tà di Uglich pul­lu­la di edi­fi­ci sacri dai nomi evo­ca­ti­vi. Il Mona­ste­ro del­la Resur­re­zio­ne, la Chie­sa di San Dimi­tri sul San­gue, la Chie­sa Mera­vi­glio­sa del Mona­ste­ro Ale­xee­v­sky. Assi­stia­mo ad una fun­zio­ne reli­gio­sa cele­bra­ta da un nume­ro di sacer­do­ti e suo­re che supe­ra il nume­ro di fede­li. Tra i pochi fede­li ci sono mol­te gio­va­ni. La ten­ta­zio­ne di ipo­tiz­za­re una rina­sci­ta del­la fede tra le gene­ra­zio­ni più gio­va­ni, soprat­tut­to tra le don­ne, è for­te ma la visi­ta del­le pochis­si­me chie­se tor­na­te in atti­vi­tà non ha valo­re sta­ti­sti­co. For­se, quel­le gio­va­ni era­no solo lì per curio­si­tà, come noi. 

Al por­to di Kostro­ma ci atten­de un vec­chio fur­go­ne mili­ta­re. Ci por­ta alla peri­fe­ria del­la cit­ta­di­na in un uffi­cio posta­le dota­to di cabi­ne tele­fo­ni­che. Com­pi­lo un modu­lo con i dati del desti­na­ta­rio del­la chia­ma­ta. Alla cor­net­ta sen­to la voce di mia madre. L’addetta, in rus­so, le chie­de se accet­ta la chia­ma­ta a cari­co. “Devi solo dire “Da” le urlo. Lo devo ripe­te­re più vol­te fin­ché mio padre, che è sta­to depor­ta­to e ha cono­sciu­to qual­che rus­so, pro­nun­cia la sil­la­ba for­te e chia­ra. Mia madre chie­de: “Come va?” Pro­vo ad ela­bo­ra­re una sin­te­si del­le miglia­ia di impres­sio­ni, sguar­di, incon­tri che ci han­no tra­vol­to nei pochi inten­sis­si­mi gior­ni. Pen­so a come tra­smet­ter­le la sen­sa­zio­ne di esse­re su un pia­ne­ta lon­ta­no e diver­so che però, nel­le cose essen­zia­li, è del tut­to simi­le a casa: le chiac­chie­re, la curio­si­tà, la voglia di con­di­vi­de­re. Voglio far­le sape­re che the rus­sians do love their chil­dren too. Ma lo sguar­do tor­vo del­la cen­tra­li­ni­sta mi met­te in sog­ge­zio­ne e mi con­fon­de. “Bene”, è tut­to ciò che rie­sco a rispon­de­re.

Nel par­co lun­go il fiu­me, a Nizh­ny Nov­go­rod, le cop­pie appe­na spo­sa­te ci chie­do­no di unir­ci a loro nel­le foto ricor­do del matri­mo­nio. Sia­mo cir­con­da­ti da ragaz­zi e ragaz­ze gio­va­nis­si­mi che voglio­no eser­ci­ta­re l’inglese che han­no impa­ra­to a scuo­la. Sono mol­to pre­ci­si nel­la costru­zio­ne del­la fra­se, pigno­li. È una con­ver­sa­zio­ne biz­zar­ra, svuo­ta­ta di sen­so, pro­prio come nei libri di scuo­la.

Fino all’anno pri­ma la cit­tà por­ta­va il nome di Gor’kij ed era sta­ta una cit­tà chiu­sa in quan­to uno dei prin­ci­pa­li cen­tri sovie­ti­ci di pro­du­zio­ne di car­ri arma­ti. Le cit­tà chiu­se sono zone con­si­de­ra­te “sen­si­bi­li” per la pre­sen­za di impian­ti mili­ta­ri o nuclea­ri. La cir­co­la­zio­ne dei cit­ta­di­ni den­tro e fuo­ri que­ste aree era con­trol­la­ta, alcu­ne non figu­ra­no nel­le map­pe dell’Unione, altre nep­pu­re ave­va­no un nome. Per con­tro gli abi­tan­ti gode­va­no di un miglio­re teno­re di vita, una miglio­re assi­sten­za sani­ta­ria e uno sti­pen­dio più alto. Anco­ra oggi in Rus­sia ci sono cir­ca 38 cit­tà chiu­se. Dopo die­ci gior­ni di navi­ga­zio­ne, chiac­chie­re, bar­zel­let­te e chie­se la moto­na­ve attrac­ca sot­to il gran­de disco volan­te del­la sta­zio­ne flu­via­le di Vol­go­grad.

Quan­do anco­ra si chia­ma­va Sta­lin­gra­do, Hitler l’aveva con­si­de­ra­ta un obiet­ti­vo stra­te­gi­co nel­l’of­fen­si­va con­tro il nemi­co comu­ni­sta. Non tan­to per la pre­sen­za di qual­che fab­bri­ca di arma­men­ti quan­to per il nome che por­ta­va: quel­lo di Iosif Vis­sa­rio­no­vič Džu­gaš­vi­li, det­to Sta­lin, l’uomo d’acciaio. Schiac­cia­re Sta­lin­gra­do sareb­be sta­to, sim­bo­li­ca­men­te, umi­lia­re il suo arci­ne­mi­co. Nel­le stra­de di que­sta cit­tà, dal luglio 1942 al feb­bra­io del 1943, qua­si due milio­ni e mez­zo di sol­da­ti si sono scan­na­ti in una bat­ta­glia leg­gen­da­ria. Come dagli asse­di di Tro­ia, Costan­ti­no­po­li e Vien­na, da Sta­lin­gra­do è nata un’epica che ha segna­to l’inizio di un nuo­vo perio­do sto­ri­co.

Ci asse­gna­no un appar­ta­men­to abba­stan­za gran­de in Uli­tsa Leni­na, via Lenin come anco­ra si chia­ma. Andia­mo a fare la spe­sa in un mer­ca­to aper­to dove gli espo­si­to­ri da macel­le­ria sono spen­ti, il mie­le si ven­de in gia­re da tre chi­li e le buste di pla­sti­ca sono un lus­so qua­si intro­va­bi­le. Qui, si può com­pra­re il cavia­le fat­to in casa e ille­ga­le. I miglio­ri com­mer­cian­ti, ci dico­no, sono cece­ni, geor­gia­ni, aze­ri che arri­va­no in tre­no o in mac­chi­na con le loro mer­can­zie.

Ci sono uomi­ni vesti­ti di nero, accuc­cia­ti ai bor­di del­la stra­da. Viag­gia­no su Mer­ce­des o Vol­ga nere, con una tar­ga faci­le da ricor­da­re. È la nuo­va mafia: la poli­zia sa che le tar­ghe “faci­li” non si devo­no fer­ma­re. Andrej ci sug­ge­ri­sce di tene­re sem­pre un bigliet­to da 10 rubli tra le pagi­ne del pas­sa­por­to, per i poli­ziot­ti.

Il tas­si­sta osse­to ci pro­met­te il miglior giro del­la cit­tà per soli die­ci dol­la­ri ame­ri­ca­ni. Par­tia­mo dal muli­no di Gerhardt. L’edificio, del qua­le non resta­no che le mura peri­me­tra­li mar­to­ria­te dai com­bat­ti­men­ti, è sta­to con­ser­va­to nel­lo sta­to in cui si tro­va­va alla libe­ra­zio­ne del­la cit­tà e tra­sfor­ma­to in monu­men­to. Poco lon­ta­no sfi­lia­mo davan­ti al monu­men­to del­la casa di Pavlov, luo­go di un eroi­co asse­dio. L’auto costrui­ta negli anni ses­san­ta sfrec­cia a una velo­ci­tà pre­oc­cu­pan­te men­tre Gior­gio, così si è pre­sen­ta­to, ten­ta di rac­con­ta­re ciò che vedia­mo gesti­co­lan­do. Per for­tu­na le stra­de sono ampie e il traf­fi­co qua­si ine­si­sten­te.

Costeg­gia­mo la Fab­bri­ca di Trat­to­ri, la fab­bri­ca Otto­bre ros­so, la col­li­na Mamaev, tut­ti nomi evo­ca­ti­vi del­la gran­de bat­ta­glia di Sta­lin­gra­do. La col­li­na è diven­ta­ta un memo­ria­le del­lo scon­tro, un per­cor­so scol­pi­to nel cemen­to arma­to che por­ta alla cupo­la che custo­di­sce una fiam­ma peren­ne. Sul­le pare­ti sono inci­si i nomi di tut­ti i cadu­ti. Quan­do visi­tia­mo il memo­ria­le è deser­to, ma il cam­bio del­la guar­dia è solen­ne come sem­pre.

Sopra di noi incom­be la Madre Patria chia­ma! una sta­tua alta 85 metri di una gio­va­ne don­na, alle­go­ria del­la Madre Rus­sia, che bran­di­sce una spa­da. È tut­to solen­ne e malin­co­ni­co, eroi­co ma lon­ta­no nel tem­po come Sto­ne­hen­ge, soli­ta­rio e gri­gio come un monu­men­to di peri­fe­ria.

In cit­tà, nuo­vi incon­tri ci mostra­no quan­to il tem­po stia cor­ren­do. Peter non è un busi­ness­man, ci tie­ne a sot­to­li­near­lo, ma pos­sie­de un cana­le tele­vi­si­vo che ha mes­so su in fret­ta e furia con un grup­po di ami­ci, tut­ti ven­ten­ni. Lavo­ra­no con bat­te­rie di video­re­gi­stra­to­ri VHS e tele­ca­me­re ama­to­ria­li. La qua­li­tà tec­ni­ca del­le imma­gi­ni non è eccel­sa ma la voglia di fare qual­co­sa di nuo­vo è tan­ta.

Quan­do Nata­lie si pre­sen­ta alla por­ta di casa fa un inchi­no e pro­nun­cia il suo nome alla fran­ce­se, con l’accento sull’ultima sil­la­ba. È la sorel­la mino­re di Sve­ta, moglie del­la nostra gui­da. È di una bel­lez­za strug­gen­te e si pre­pa­ra ad anda­re a Mila­no, la capi­ta­le del­la moda.

La pri­ma del­lo spet­ta­co­lo che abbia­mo por­ta­to dall’Italia è appe­na fini­ta. Nel Tea­tro del­la Gio­ven­tù di Vol­go­grad sia­mo cir­con­da­ti da un pub­bli­co curio­so, affa­ma­to. Qua­si tut­ti gio­va­ni, stan­no in fila ad omag­giar­ci con ceste di frut­ta fre­sca. Mol­ti di loro tor­ne­ran­no ad ogni repli­ca. Mi sen­to un ani­ma­le eso­ti­co, un pic­co­lo Gul­li­ver cir­con­da­to da ospi­ti incu­rio­si­ti e mera­vi­glia­ti. Devo ammet­te­re che, mal­gra­do anni di inte­res­se ver­so l’Unione Sovie­ti­ca, ci sia­mo tro­va­ti impre­pa­ra­ti a ciò che abbia­mo vis­su­to. Una del­le cose che più ci ha sor­pre­so è sta­ta l’attenzione che è sta­ta riser­va­ta allo spet­ta­co­lo. Rober­ta ha reci­ta­to in ita­lia­no, un testo non sem­pli­ce, pie­no di signi­fi­ca­ti com­ples­si. Eppu­re tor­na­no. Qual­cu­no ha tro­va­to il testo, se l’è let­to. Voglio­no capi­re, inda­ga­re, entra­re in con­nes­sio­ne con quel mon­do alie­no che li sta inva­den­do e che li spa­ven­ta.

Sono sor­ri­den­ti, gen­ti­li, ma san­no di esse­re una gene­ra­zio­ne per­du­ta. Una gene­ra­zio­ne di mez­zo che si è lau­rea­ta con alme­no un esa­me di cul­tu­ra leni­ni­sta. Cre­sciu­ti in un mon­do reclu­so ma anche soli­da­le, si sono visti sgre­to­la­re tra le dita l’idea di poten­za e di con­di­vi­sio­ne con il qua­le sono sta­ti edu­ca­ti. Spa­ra­ti in un altro pia­ne­ta che orbi­ta secon­do rego­le diver­se, dovran­no adat­tar­si il più rapi­da­men­te pos­si­bi­le. È una leg­ge natu­ra­le: solo chi si adat­ta in fret­ta soprav­vi­ve. 

In quei gior­ni pos­so già affer­ma­re che a soprav­vi­ve­re sarà la gene­ra­zio­ne di busi­ness­man aggres­si­vi, spes­so spie­ta­ti, che for­me­ran­no la base del­la socie­tà di oli­gar­chi che gover­ne­rà la nuo­va Rus­sia. Gli altri, spin­ti ai mar­gi­ni, saran­no con­si­de­ra­ti nostal­gi­ci, sovok, irra­gio­ne­vo­li idea­li­sti dimen­ti­chi degli orro­ri del­lo sta­li­ni­smo, del tota­li­ta­ri­smo pro­le­ta­rio, del­le code per il pane.

Quan­do la sto­ria pro­ce­de per sal­ti non c’è posto per le sfu­ma­tu­re.

Sul­la Nova­ja Gaze­ta, l’articolo che rac­con­te­rà del nostro pas­sag­gio con­clu­de­rà: Sono venu­ti in Rus­sia per la pri­ma vol­ta sognan­do di tro­va­re qui ami­ci e per­so­ne che la pen­sas­se­ro allo stes­so modo. E for­se, riflet­ten­do­ci nel loro sbi­got­ti­men­to e nel­la voglia di capi­re, quel­le per­so­ne le abbia­mo tro­va­te. Non rie­sco a far­mi un’idea pre­ci­sa di qua­le dire­zio­ne sta pren­den­do quel pae­se gigan­te­sco, non rie­sco ad aver­ne una visio­ne dall’alto per­ché mi sono mischia­to tra la gen­te, in mez­zo ai loro pen­sie­ri quo­ti­dia­ni che alla fine non sono diver­si dai miei, con un’u­ni­ca ecce­zio­ne. Il loro pas­sa­to si è dis­san­gua­to, pie­tri­fi­ca­to. In quel­la con­di­zio­ne non rie­sce più a dare loro una base soli­da sul­la qua­le costrui­re. Sono orfa­ni sen­za peso. 

Andrej ci aspet­ta fuo­ri accan­to al taxi di Gior­gio. “Ora?” chie­de. Ora vor­rei che il viag­gio non finis­se. C’è anco­ra così tan­to da vede­re, da capi­re. Non tan­to i monu­men­ti, per quel­lo c’è tem­po. Ho voglia di incon­tra­re altri rus­si, altre per­so­ne che stan­no ten­tan­do di soprav­vi­ve­re a que­sto lan­cio in avan­ti nel tem­po. Vor­rei immer­ger­mi in altri pae­sag­gi uma­ni bru­li­can­ti di idee e ansie, di ricor­di e rim­pian­ti. La Sibe­ria, il Cau­ca­so, l’Ucraina. E l’estremo est? Vla­di­vo­stok, nel­la qua­le i pode­ro­si som­mer­gi­bi­li nuclea­ri stan­no affon­dan­do? È qui che si sta facen­do la sto­ria, e la stan­no facen­do loro: gli Andrej, Sve­ta, Peter, i mari­nai, le came­rie­re, le tele­fo­ni­ste acci­glia­te.

“Vuoi vede­re casa mia?” Dimi­tri, che chia­ma­no Dima, è un bal­le­ri­no dal fisi­co scul­to­reo e minu­to, gla­bro come una sta­tua di mar­mo. Per tut­to il tem­po del­lo spet­ta­co­lo ha improv­vi­sa­to dan­zan­do sul­le paro­le di Rober­ta. Nel­le foto si vede appe­na. “Casa mia è un altro pia­ne­ta rispet­to a qui”. E poi aggiun­ge il nome del­la cit­tà, il vec­chio nome, il nome con la qua­le la chia­ma­va­no fino ad un anno fa. Lenin­gra­do.

Il gior­no dopo sia­mo sul tre­no, ci aspet­ta­no più di due­mi­la chi­lo­me­tri di Rus­sia, ver­so nord. 

Foto­gra­fie di Pao­lo Rapa­li­no

Biblio­gra­fia

Alek­sie­vič, Sve­tla­na. 2013. Il tem­po di secon­da mano, La vita in Rus­sia dopo il crol­lo del Comu­ni­smo. Bom­pia­ni Edi­to­re, Mila­no.

Con­di­vi­di:
I commenti sono chiusi