Sei.
L’erba mi sfiora le caviglie.
Si piega, si rialza. A stento supera i miei calzini.
Il vento prova a raddrizzarla, ridarle la forma di un tempo, quando ancora i fili luccicavano come pietruzze d’agata.
Come se potesse bastare. Chissà quante scarpe ci sono passate sopra.
Su questo prato ci devo essere caduto anch’io. Giocavamo a palla, aspettando che qualcuno venisse a prenderci.
Che scivoloni. Quanti passaggi sbagliati.
E quanti Super Tele baciati dalla spuma del mare.
Ridevamo senza sapere perché.
Come se tutto, anche cadere, anche perdersi, fosse un modo per restare ancorati.
Mezzi nudi, con l’aria gelida a rizzare i peli delle braccia.
Mamma si arrabbiava quando tornavo a casa tutto tremolante. Perlomeno ci provava.
Nonno rideva:
— Sapessi quante volte ci hai fatto stare in pensiero te.
Lei scuoteva la testa. Cambiava argomento:
— Preso qualcosa oggi?
— Qualcosa.
I lecci si piegano un altro po’.
La strada verso la riva riecheggia mesta ma incessante, come un respiro notturno.
Se stesse zitta, potrei contare le onde.
Una alla volta. Arrivano, si presentano e si spengono per sempre.
Sette.
Nonno e il suo amico pescavano con la balanza, una sera sì e due no.
Più di una volta ha provato a insegnarmi.
Lui in barchino. Io sulla riva.
La rete tra le mani. Stretta.
Un giorno forse ci saremmo scambiati di posto.
Quando le sue ginocchia non avrebbero più retto l’umidità degli stivali.
Un testamento che avrei dovuto passare a qualcun altro dopo di me.
Quel primo tentativo me lo ricordo.
Non si parlava da giorni. Nemmeno a tavola.
Il suo amico aveva tossito per l’ultima volta.
Mai lo vidi piangere.
Mai. Solo lunghi silenzi, guardando la via che porta alla darsena.
Un film proiettato nei suoi occhi cerulei. Risate, litigi, ore in barca schiena contro schiena.
Foto mai sviluppate, chiuse a chiave dentro a quel respiro mai arrivato in gola.
Quella sera al largo portò me.
Parlava e parlava. Senza fermarsi. Ogni dettaglio.
Come se il silenzio ora all’improvviso gli facesse paura.
Mi tremavano le mani. La rete si contorceva come se non volesse farsi prendere.
Sorrideva, diceva che non importava.
A tavola si siede sempre nello stesso posto.
Perpendicolare alla viottola. Accanto a lui, la sedia vuota. Quella dell’ amico.
Lì dove stava il compagno di mille tramonti.
Otto.
I tiranti metallici sbattono sui pochi alberi rimasti a galleggiare. Regolari, ma rispettosi.
Sempre meno barche attraccano qui. Senza fare grande baccano se ne sono andati quasi tutti. Un ultimo esodo di ottobre, lapidario.
Uno alla volta.
Prima quelli che parlavano troppo. Poi quelli che parlavano poco.
Qualcuno è sparito d’inverno, qualcuno non ha fatto in tempo a salutare.
Il bar è ancora in piedi, ma non ha più nessuno da ascoltare.
Resta solo l’insegna, rosicchiata dai balani.
L’odore di fumo si è fermato sul pavimento. Si è unito alla nebbia della laguna.
Le crepe del bancone hanno inghiottito centinaia di parole, mani ruvide, storie raccontate a voce troppo alta.
La prima sigaretta l’ho fumata dietro quel bar.
Ferragosto.
Con i più grandi. Figli di nessuno, qualche turista del vero nord spennato dall’ affittacamere della pineta.
Era impossibile camminare tra le vie del paese in quelle settimane.
Finché le vetrine si spegnevano, i ristoranti si ammutolivano e tutti correvano verso la riva.
Un unico calore. Stretti nel buio.
Poi i botti.
Le luci.
I visi a intermittenza, quasi ad applaudire il cielo.
Noi un po’ più in là. Appoggiati al muro.
Contavamo i volti nuovi. Con la sigaretta tra le dita.
Ogni agosto aspettavamo che qualcosa cambiasse.
Ma l’estate tornava uguale. Sempre uguale.
Stessa luce bianca sul molo. Stesse canzoni dalle finestre.
La gente cambiava, l’attesa no.
Arrivavano e se ne andavano. Lasciandoci di tanto in tanto qualche bacio.
Finché me ne sono andato pure io.
Nove.
— Aspettami qui. Non ci vorrà molto.
Lo diceva sempre. Una sera sì e due no.
Prima di incamminarsi sulla via del mare.
— Sette e dieci. Massimo sette e un quarto.
E tornava sempre.
Tranne quella volta.
La barca si era fermata in mezzo alla secca.
Li ripresero i carabinieri.
Mamma non ci vedeva tornare. Quasi svenne dalla paura.
— Mi aveva detto di aspettare qui.
Questo devo aver detto, quando mi trovarono.
Seduto nell’ erba. Le gambe divorate dalle zanzare.
Anche quella sera, alla fine, è tornato.
In ritardo. Ma è tornato.
Dieci.
Non mi piacciono le reti a bilancia.
Sono scomode. Inefficienti. Ingovernabili.
— Le usano da trecento anni, ci sarà un motivo.
Le giustificava Nonno. Ogni volta.
— Davano da mangiare a mio padre. E ora anche a te. Perché cambiarle?
Io intanto leggevo e imparavo nuove tecniche.
Fibre di carbonio. Reti a trama fitta.
Invenzioni più o meno legali che si tramutavano in sofismi ingarbugliati.
Niente. Tempo perso.
Balanza in settimana. Lenza il sabato.
Pranzo a mezzogiorno. Film di Giuliano Gemma alle tre e mezza.
Cena alle otto. Un bacio in fronte a Nonna.
E tutto da capo.
Nel paese accanto c’era un negozio specializzato, tra il panificio e il campanile.
Ami. Canne. Esche. Un caleidoscopio di lustrini e opportunità.
Avevo otto anni. Mi lasciò scegliere tutto. Spese un patrimonio.
Quel pomeriggio aggrappai all’amo un subacqueo, che si portò a riva ogni singolo centesimo.
Piansi per ore.
Lui si teneva la pancia dalle risate:
— Almeno novanta chili alla prima pescata!
Dodici.
Le ombre si allungano.
Tredici.
In fondo alla via le onde leggere si infilano tra gli alberi.
Fra poco lo vedrò. Arriverà tra i lecci.
Lo scricchiolio dei rami. Il passo pesante. Le dita sporche.
Camminerà lento. Col peso della fatica riversata sulle spalle.
La schiena curva. I pochi capelli spettinati.
Tra le dita ciò che resta della rete a maglia grossa.
Un groviglio sbrecciato da rincalzare una volta tornati a casa. Un labirinto per la memoria.
Quattordici.
Quindici.
Non ricordo cosa ci siamo detti, l’ultima volta.
Forse gli ho parlato del nuovo lavoro.
Forse stavo solo per andarmene.
Via dalla laguna.
Lui ha guardato me.
Poi l’orizzonte.
Faceva sempre così, quando non trovava le parole.
Fissava qualcosa per un attimo solo, giusto il tempo di capirne i bordi, il colore.
Poi gli occhi scivolavano altrove.
Abbiamo smesso di parlarci. Poco a poco.
Una volta l’anno. Qualche augurio di Natale.
Mai un litigio. Solo distanza.
Non c’era più tempo neanche per i silenzi.
Sì, deve avermelo chiesto.
Se era davvero quello che volevo.
Ma non ricordo la sua voce.
E nemmeno la mia.
Sedici.
I fiori di glicine hanno coperto completamente la via.
Galleggiano nell’etere senza un principio o una fine. Come neve, volteggiano
prima verso il basso, poi di nuovo all’insù. Sembrano lottare, fanno di tutto per non toccare
terra. Il vento li accompagna alla fine della via, dove credo ci sia ancora il mare.
Porta con sé l’odore umido dell’acqua e lo strascichìo delle reti da pesca.
Si tornava a casa, e tutto era pronto a ricominciare.
Ora, solamente gli echi.
Qualcosa che ancora c’è.
E vorrei non ci fosse più.
Diciassette.
Diciotto.
Fotografia di Giacomo Bianco