“E non sempre ciò che vien dopo è progresso”.
Alessandro Manzoni
Il vero dramma non è dimenticare, ma non avere nulla da ricordare.
La mia convocazione arrivò ad aprile del 2042 e non ne fui né lusingata e neppure sorpresa.
Ostentavo rassegnazione come tutti, anche se per un solo brevissimo istante provai a immaginare di essere esclusa da quell’obbligo servito e apparecchiato come un dovere.
E invece eccomi a sgomitare tra le belle parole della premessa, quella dove mi dicevano quanto fossi preziosa e importante per il futuro del genere umano e bla bla bla, per arrivare alla comunicazione della data del primo incontro.
A seguire pagine e pagine di raccomandazioni, che lessi molto velocemente, più con la speranza di trovare un motivo ostativo che per sincera curiosità.
Ero già stata ritenuta abile: dovevo solo presentarmi puntuale, senza aver assunto farmaci psicotropi, a digiuno da almeno 4 ore e senza accompagnatori.
E poi paragrafi sulla segretezza e sulla privacy, ma nulla sulle modalità dell’estrazione, che veniva comunque descritta come indolore, non invasiva, senza effetti collaterali e totalmente sicura.
Come riuscissero a mantenere discrezione riguardo alle procedure, non saprei dirlo.
Conoscevo alcune persone che avevano iniziato il percorso, ma nessuna riuscì a descrivermelo nei dettagli, se non quelli poco significativi.
Ambiente pulito, personale gentile, offrono perfino una tazza di tè con i biscotti e ti lasciano riposare una mezz’oretta prima di rispedirti a casa.
Ti chiamano per nome, sanno chi sei appena varchi la soglia, e ti dicono grazie e arrivederci quando esci.
Di più non riuscii a sapere.
Non credo fosse omertà.
Pensai a una forma molto più coercitiva, capace di superare qualsiasi tentazione tipicamente umana di fare di un evento così misterioso argomento di conversazione.
Mi sbagliai di poco.
All’appuntamento arrivai puntuale, come raccomandavano.
Non sarebbero stati tollerati ritardi ma nemmeno clamorosi anticipi.
Era chiaro: nessuno voleva assembramenti, occasioni per confrontarsi, chiacchiericcio.
Quella cosa che ti conoscono per nome risultò vera.
Non appena varcai l’ingresso del Centro di Estrazione Universale ebbi la sensazione di essere attesa con quell’allegria che si riserva ai vecchi amici che non vedi da un po’ di tempo:
“Benvenuta Giulia! Grazie di essere qui!”
La voce era femminile, senza inflessioni, diversa dalle solite voci registrate che si sentono nelle sale d’attesa degli uffici pubblici o degli ospedali.
Per un attimo mi sembrò addirittura di riconoscerla, ma non riuscii a darle un’identità ben precisa, come quando vedi un volto che senti familiare ma non capisci a chi appartenga.
La porta sul fondo di quella grande stanza blu si aprì con un leggero fruscìo e la voce mi invitò a proseguire.
Ascensore silenzioso, discesa liquida e senza sobbalzi, poi ad accogliermi il sorriso bianco hollywood dell’infermiera che si sarebbe occupata di me.
Ricordo di averla seguita ubbidiente e senza fare troppe domande, di aver percorso un breve corridoio e di aver sentito improvvisamente il profumo intenso dell’eucalipto.
Dove avevo messo giacca e borsa?
Quando, esattamente, mi ero tolta le scarpe e mi ero seduta sulla poltrona reclinata?
E cosa diamine stavo dicendo?
Per un attimo mi sentii parlare, ma come se non fossi proprio io a farlo, o meglio come se una parte di me fosse spettatrice di un’altra me impegnata in un racconto.
Quel veloce sdoppiamento mi fece provare una nausea che avevo dimenticato ma che conoscevo bene.
Era la stessa che mi aggrovigliava la bocca dello stomaco quando, seduta sui sedili posteriori della macchina di mio padre, si arrancava inarrestabili dondolando sui tornanti dell’Appennino, una curva dopo l’altra.
“Guarda la strada davanti a te e concentrati sulla linea bianca” mi diceva lui.
Per sfidare la mia resistenza ogni tanto mollavo la linea bianca e guardavo di lato il paesaggio correre dietro il finestrino, poi sentivo la nausea arrivare e tornavo con lo sguardo dritto davanti a me.
Feci la stessa cosa quel giorno.
Girai la testa ma la stanza era immersa in un’oscurità abissale.
L’altra me smise di parlare e io tornai a essere una sola quando l’infermiera si avvicinò, portando la luce dei suoi denti.
“Giulia, tutto bene?”
Per paura di tornare di nuovo doppia mi limitai ad annuire e fu lì che sentii che qualcosa mi avvolgeva la testa.
Doveva essere una specie di guaina morbidissima, almeno così mi sembrò al tatto, ma appena le mie dita toccarono quel copricapo, che immaginavo oltretutto ridicolo, una mano mi bloccò il polso, con grazia e determinazione.
“Eravamo ai tuoi sei anni Giulia. Ti va se ripartiamo da lì?”
Sei anni.
Incredibile che io abbia davvero avuto sei anni.
I miei ricordi arrivano da così lontano che risultano sbiaditi come le fotografie di quell’epoca.
Ma poi riprendo il filo del discorso, non riesco a contrappormi a quella forza che mi fa sputare un’immagine dopo l’altra, prigioniera di un’euforia disinibente e imperativa.
È il 1976, ho un astuccio di cuoio marrone scuro aperto sul banco, le matite sono ben temperate e allineate, il quaderno profuma di carta e paglia, e la maestra dietro la cattedra dice i nostri nomi leggendoli da un grande registro con la copertina verde telata.
Siamo tutti timidi, la mia vicina di banco ha un fiocco molto più vaporoso e rosa del mio, mentre la bambina seduta due file dietro ha i capelli arruffati e indossa un paio di pantofole in pannolenci bucate.
Qualcuno la prende in giro, la maestra ci zittisce e spiega che ci sono famiglie povere che non hanno i soldi per comprare le scarpe; da quel giorno nessuno riderà più di lei.
Il suono della campanella della ricreazione ci sgancia dai nostri banchi con un rumore scrosciante di sedie che si spostano e porte che si aprono; possiamo uscire in cortile, sfogare quell’energia mortificata sotto ai banchi, raccogliere margherite e farne collane, scappare dai maschi che vogliono tirarci le trecce.
Ho sei anni, e la vita mi sembra un’avventura bellissima.
Era cominciata l’estrazione, o almeno ne ebbi una parvenza di consapevolezza.
Se dovessi dire come iniziò e dove finì, ho ancora oggi la stessa sensazione che si prova al mattino quando si cerca di ricordare un sogno.
Ne percepivo l’intensità, ma non il contenuto.
Mi ritrovai a varcare l’uscita del Centro Estrazione Universale sentendo la voce salutarmi cordiale.
Provai un po’ di tristezza, quella che si respira per le cose che ci sono sfuggite e che non torneranno mai più.
Ma, del resto, il passato non era forse questo?
L’aria fresca di quell’aprile dal tepore ancora troppo acerbo mi fece bruciare gli occhi.
Pensai, rientrando a casa, che tutto sommato non era stata una brutta esperienza.
In una parte profondissima di me, sperai di essere chiamata di nuovo.
Sono passati quasi otto mesi dalla mia prima estrazione.
Dalla frequenza con cui hanno deciso di convocarmi, credo di essere un buon soggetto.
Vivo sola da diverso tempo, non ho contatti diretti con nessuno, sono puntuale agli appuntamenti, ma soprattutto ho molto materiale e una eccellente memoria.
Non sanno ovviamente di questo diario.
Dubito che ne abbiano mai visto veramente uno in carta e inchiostro.
Non mi sento nemmeno particolarmente in colpa: nel regolamento che ho dovuto accettare prima di iniziare qualsiasi procedura, c’è un lungo capitolo legato alla riservatezza, dove vengono elencati i mezzi vietati alla diffusione di quello che avviene al Centro Estrazione Universale.
Ma io faccio parte della vecchia scuola, ho attraversato lo spazio e il tempo partendo dal foglio di carta, dalla penna stilografica e dalla carta assorbente: le mie caravelle non sono contemplate da nessuna parte, nessuno si sognerebbe nemmeno di cercarle.
Eppure mi porteranno lontano, lo so.
Anzi, me lo auguro.
Spesso sono combattuta, mi convinco dell’inutilità di quello che sto scrivendo, immagino che non ci sarà nessuno, domani, a decifrare queste pagine.
Ma poi succede che al termine di ogni estrazione mi attraversi quella malinconica tristezza che mi fa tornare qui, su questo quaderno ammuffito, a lasciare una traccia.
Non sono un’illusa, ma nemmeno una che pensa di avere tutte le risposte.
Quello che ho potuto vedere nel corso della mia sola esistenza, è la prova schiacciante della naturale tendenza di tutto il genere umano all’inconsapevole autodistruzione.
E in quell’inconsapevole voglio racchiudere l’arroganza, la cecità, il menefreghismo, il delirio di onnipotenza e una drammatica e desolante stupidità.
Stùpido, dal latino stupīdus, der. di stupēre «stupire» — preso da stupore, attonito, sbalordito, che è in una condizione d’incapacità o insensibilità indotta da meraviglia, sorpresa, o da altre cause fisiche o morali.
(Treccani)
Forse, quella del genere umano è solo una parabola, da osservare e comprendere nella sua traiettoria a una distanza per noi impossibile.
Ma se ancora ci fosse la possibilità di evitare di tornare nelle caverne, carponi nel fango, a emettere suoni gutturali, mi piacerebbe che la versione di me del futuro trovasse questo diario e fosse in grado di leggerlo.
Il decadimento iniziò in sordina, quando eravamo così distratti dalle lusinghe di una tecnologia completamente asservita all’uomo, da non renderci conto che ci stava sfuggendo qualcosa di sostanziale.
Non eravamo affatto dèi, ubbidivamo alle stesse leggi della Natura come tutti gli esseri viventi.
Nessun essere intelligente artificiale avrebbe preso il nostro posto.
A minacciarci, era la nostra versione più insospettabile, quella che era nata dall’annullamento progressivo di ciò che ci rendeva così unici e speciali.
Avevamo costruito una gabbia invisibile e ci avevamo chiuso dentro i più fragili, illudendoli che quello fosse l’unico mondo possibile.
Li avevamo resi dipendenti dalle loro fobie e dalle loro insicurezze, così che presto nessuno di loro avrebbe mai chiesto di uscire da quella prigione.
In realtà, nessuno ebbe il dubbio di esserci finito dentro.
Osservatori passivi di mondi virtuali, socialmente timidi e impacciati, incapaci di vivere relazioni di qualsiasi tipo, manipolabili fino al midollo e, alla fine, non più programmati geneticamente per provare emozioni.
Da quel traguardo pensavamo di comandare il mondo e le sue leggi fisiche, ma quando quelle stesse leggi capirono che era arrivato il momento di adattare l’essere umano a quella gabbia, iniziò una nuova era e non prometteva nulla di buono.
Intorno agli anni venti del 2000, aumentarono considerevolmente le patologie neurodegenerative, soprattutto quelle a danno dei processi mnemonici.
Ci stavamo trasformando in un popolo di vecchi senza passato, calati in un’amnesia senza confini, incapaci di sopravvivere a noi stessi con dignità.
Ma non avevamo ancora visto nulla.
A partire dal 2032, anno in cui ufficialmente vennero diffusi i primi inquietanti report, il problema si sdoppiò tragicamente: se i nuovi anziani non erano in grado di ricordare nemmeno chi fossero, i nuovi giovani non sapevano creare ricordi.
Qualcuno iniziò a parlare di un virus subdolo e sconosciuto, ma la verità era molto più banale e insieme terrificante: il corpo umano si stava adattando e lo stava facendo velocemente.
La spiegazione scientifica fu che quella porzione del cervello che permette il percorso sinaptico tra ippocampo e corteccia, il talamo, senza stimoli si era atrofizzato a tal punto da scomparire e diventare parte delle strutture vestigiali, come la coda.
Cose che non servono più, che non vengono utilizzate, e per questo sacrificabili.
A fregarci fu proprio la tecnologia, con le app, i devices, i mondi virtuali a discapito di quelli reali, che ci privò dell’empatia e ci rese gusci vuoti.
Ci stavamo giocando la storia della specie umana, ciò che la rende immortale, per colpa dell’incapacità di trasmettere il pathos.
Gli effetti sarebbero stati devastanti: meno amore, meno emozioni, meno nascite, più malati, la fine.
Chi apparteneva a generazioni passate come la mia, esseri umani che avevano vissuto, si erano sbucciati le ginocchia cadendo da un’altalena, avevano respirato il tanfo delle classi miste di una scuola, che avevano viaggiato aprendo il cuore ad altri mondi e conosciuto terre che poi sarebbero scomparse o rese inaccessibili, improvvisamente diventarono i custodi di quel soffio divino che si era perso.
È vero che i ricordi a volte mentono, ma è ciò di cui siamo fatti.
Non è importante chiedersi se la narrazione sia vera o costruita, ma cosa ci muove dentro.
Inventarono dei sistemi per stimolare lo sviluppo delle aree cerebrali nei neonati, ma perché fossero efficaci dovevano rubare quel soffio divino da chi ne possedeva ancora tanto.
“Nella natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Antoine-Laurent de Lavoisier, 1789
I primi Centri di Estrazione Universale furono accolti molto timidamente e con scetticismo.
Nessuno voleva farsi scandagliare il cervello blaterando dei propri ricordi.
Poi qualcuno iniziò a parlare di salvaguardia della nuova specie a rischio, l’essere umano, e di come fosse possibile, semplicemente raccontando la propria storia, generare speranze per il futuro dell’umanità tutta.
Chi eravamo, noi della vecchia guardia, per decretare la fine del mondo?
Ci caricarono di una tale responsabilità che in molti iniziarono a presentarsi ai centri di raccolta del consenso, anche solo per saperne qualcosa di più.
Seguì un programma di comunicazione martellante, vennero chiamati i guru del marketing per studiare campagne rassicuranti, convincenti, efficaci.
Il bizzarro logo del Centro di Estrazione Universale — che a tutti sembrò una chiocciola stilizzata ma che poi scoprimmo essere la traduzione grafica del talamo — iniziò ad apparire ovunque, peggio del baffo della Nike, della M di McDonald’s, della mela di Apple, e di ogni altro simbolo passato alla storia come il tormentone del secolo.
Ma per noi gente comune, il Centro di Estrazione Universale era la miniera.
Noi, ovviamente, eravamo i minatori.
L’immagine reggeva, ci calavano nei buchi profondi e oscuri del passato e quando ci riportavano in superficie ci sentivamo ancora addosso la polvere acre degli anni che furono.
In tanti ci siamo chiesti dove fosse la fregatura.
Nessun dolore, nessun segno visibile sul corpo, nessun decesso misterioso: possibile che tutto fosse stato studiato così bene?
Eppure di quell’oblio di cui tutti soffrivamo, in pochi ne parlavano.
Come me, altri si accorsero di indossare una calotta in testa, tutti provavano un vago senso di nausea, fortunatamente brevissimo, e diversi avvertivano al termine dell’estrazione una sensazione simile a una leggera ubriacatura.
Probabilmente non avremo il tempo anagrafico di sapere cosa hanno fatto dentro ai meandri del nostro cervello, e forse questo è uno dei motivi per cui ho iniziato questo diario.
Se mai l’oblio dovesse annientarmi completamente, queste pagine forse potrebbero aiutare anche me, non solo chi verrà dopo.
“Giulia, oggi è stata la tua ultima estrazione, grazie a nome di tutto il genere umano per il tuo contributo!”
Estrazione numero 25, sono tornata a casa da poco.
Mi sento le mani intorpidite, uscendo dal CEU ho avvertito uno strappo tra la clavicola e il petto, come se mi avesse colpita una freccia.
Sto scrivendo a fatica, vedo danzare le lettere sulla carta, escono dalla punta della penna per scivolare sulle righe sottili del foglio.
Oggi ho avuto di nuovo 40 anni, la mia età d’oro.
Una delle tante in verità, ma la più importante.
Sto scendendo di corsa le scale, indosso un soprabito color ruggine sopra il mio corpo nudo che profuma di quella crema buonissima con il tappo viola, e viola sono le mie scarpe su cui volo, divorando minuti e marciapiedi.
Sono di nuovo innamorata e il tempo e lo spazio sono concetti morbidi come la mia pelle sotto le sue mani.
Quegli anni sono luce che fa spalancare gli occhi per assorbirla tutta, il battito inarrestabile di un cuore affamato, l’assoluta certezza che non potrà succedere nulla di brutto e la profonda convinzione di essere viva.
Il mio ciclo è finito, forse insieme a quello di tutto il genere umano, che ancora caparbiamente e con arroganza cerca di sfuggire all’inesorabile.
“… grazie a nome di tutto il genere umano per il tuo contributo”.
Sorrido e scuoto la testa.
Immagino la morte come un grande silenzio che zittisce i miei pensieri e restituisce gli atomi del mio corpo all’Universo.
Dei miei ricordi non resterà forse nulla, ma senza la consapevolezza di quella meraviglia che mi ha riempito gli occhi, la mia vita non avrebbe avuto significato alcuno.
Bibliografia:
Manzoni Alessandro. 1845. Opere varie, Redaelli, Milano.
Lavoisier Antoine-Laurent. 1789. Traité Élémentaire de Chimie, citazione apocrifa