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Dicembre
5 Dicembre 2024

LA MINIE­RA

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“E non sem­pre ciò che vien dopo è pro­gres­so”.

Ales­san­dro Man­zo­ni 

 

Il vero dram­ma non è dimen­ti­ca­re, ma non ave­re nul­la da ricor­da­re.

La mia con­vo­ca­zio­ne arri­vò ad apri­le del 2042 e non ne fui né lusin­ga­ta e nep­pu­re sor­pre­sa.

Osten­ta­vo ras­se­gna­zio­ne come tut­ti, anche se per un solo bre­vis­si­mo istan­te pro­vai a imma­gi­na­re di esse­re esclu­sa da quell’obbligo ser­vi­to e appa­rec­chia­to come un dove­re.

E inve­ce ecco­mi a sgo­mi­ta­re tra le bel­le paro­le del­la pre­mes­sa, quel­la dove mi dice­va­no quan­to fos­si pre­zio­sa e impor­tan­te per il futu­ro del gene­re uma­no e bla bla bla, per arri­va­re alla comu­ni­ca­zio­ne del­la data del pri­mo incon­tro.

A segui­re pagi­ne e pagi­ne di rac­co­man­da­zio­ni, che les­si mol­to velo­ce­men­te, più con la spe­ran­za di tro­va­re un moti­vo osta­ti­vo che per sin­ce­ra curio­si­tà.

Ero già sta­ta rite­nu­ta abi­le: dove­vo solo pre­sen­tar­mi pun­tua­le, sen­za aver assun­to far­ma­ci psi­co­tro­pi, a digiu­no da alme­no 4 ore e sen­za accom­pa­gna­to­ri.

E poi para­gra­fi sul­la segre­tez­za e sul­la pri­va­cy, ma nul­la sul­le moda­li­tà dell’estrazione, che veni­va comun­que descrit­ta come indo­lo­re, non inva­si­va, sen­za effet­ti col­la­te­ra­li e total­men­te sicu­ra.

Come riu­scis­se­ro a man­te­ne­re discre­zio­ne riguar­do alle pro­ce­du­re, non saprei dir­lo.

Cono­sce­vo alcu­ne per­so­ne che ave­va­no ini­zia­to il per­cor­so, ma nes­su­na riu­scì a descri­ver­me­lo nei det­ta­gli, se non quel­li poco signi­fi­ca­ti­vi.

Ambien­te puli­to, per­so­na­le gen­ti­le, offro­no per­fi­no una taz­za di tè con i biscot­ti e ti lascia­no ripo­sa­re una mezz’oretta pri­ma di rispe­dir­ti a casa.

Ti chia­ma­no per nome, san­no chi sei appe­na var­chi la soglia, e ti dico­no gra­zie e arri­ve­der­ci quan­do esci.

Di più non riu­scii a sape­re.

Non cre­do fos­se omer­tà.

Pen­sai a una for­ma mol­to più coer­ci­ti­va, capa­ce di supe­ra­re qual­sia­si ten­ta­zio­ne tipi­ca­men­te uma­na di fare di un even­to così miste­rio­so argo­men­to di con­ver­sa­zio­ne.

Mi sba­gliai di poco.

All’appuntamento arri­vai pun­tua­le, come rac­co­man­da­va­no.

Non sareb­be­ro sta­ti tol­le­ra­ti ritar­di ma nem­me­no cla­mo­ro­si anti­ci­pi.

Era chia­ro: nes­su­no vole­va assem­bra­men­ti, occa­sio­ni per con­fron­tar­si, chiac­chie­ric­cio.

Quel­la cosa che ti cono­sco­no per nome risul­tò vera.

Non appe­na var­cai l’ingresso del Cen­tro di Estra­zio­ne Uni­ver­sa­le ebbi la sen­sa­zio­ne di esse­re atte­sa con quell’allegria che si riser­va ai vec­chi ami­ci che non vedi da un po’ di tem­po:

“Ben­ve­nu­ta Giu­lia! Gra­zie di esse­re qui!”

La voce era fem­mi­ni­le, sen­za infles­sio­ni, diver­sa dal­le soli­te voci regi­stra­te che si sen­to­no nel­le sale d’attesa degli uffi­ci pub­bli­ci o degli ospe­da­li.

Per un atti­mo mi sem­brò addi­rit­tu­ra di rico­no­scer­la, ma non riu­scii a dar­le un’identità ben pre­ci­sa, come quan­do vedi un vol­to che sen­ti fami­lia­re ma non capi­sci a chi appar­ten­ga.

La por­ta sul fon­do di quel­la gran­de stan­za blu si aprì con un leg­ge­ro fru­scìo e la voce mi invi­tò a pro­se­gui­re.

Ascen­so­re silen­zio­so, disce­sa liqui­da e sen­za sob­bal­zi, poi ad acco­glier­mi il sor­ri­so bian­co hol­ly­wood dell’infermiera che si sareb­be occu­pa­ta di me.

Ricor­do di aver­la segui­ta ubbi­dien­te e sen­za fare trop­pe doman­de, di aver per­cor­so un bre­ve cor­ri­do­io e di aver sen­ti­to improv­vi­sa­men­te il pro­fu­mo inten­so dell’eucalipto.

Dove ave­vo mes­so giac­ca e bor­sa?

Quan­do, esat­ta­men­te, mi ero tol­ta le scar­pe e mi ero sedu­ta sul­la pol­tro­na recli­na­ta?

E cosa dia­mi­ne sta­vo dicen­do?

Per un atti­mo mi sen­tii par­la­re, ma come se non fos­si pro­prio io a far­lo, o meglio come se una par­te di me fos­se spet­ta­tri­ce di un’altra me impe­gna­ta in un rac­con­to.

Quel velo­ce sdop­pia­men­to mi fece pro­va­re una nau­sea che ave­vo dimen­ti­ca­to ma che cono­sce­vo bene.

Era la stes­sa che mi aggro­vi­glia­va la boc­ca del­lo sto­ma­co quan­do, sedu­ta sui sedi­li poste­rio­ri del­la mac­chi­na di mio padre, si arran­ca­va inar­re­sta­bi­li don­do­lan­do sui tor­nan­ti dell’Appennino, una cur­va dopo l’altra.

“Guar­da la stra­da davan­ti a te e con­cen­tra­ti sul­la linea bian­ca” mi dice­va lui.

Per sfi­da­re la mia resi­sten­za ogni tan­to mol­la­vo la linea bian­ca e guar­da­vo di lato il pae­sag­gio cor­re­re die­tro il fine­stri­no, poi sen­ti­vo la nau­sea arri­va­re e tor­na­vo con lo sguar­do drit­to davan­ti a me.

Feci la stes­sa cosa quel gior­no.

Girai la testa ma la stan­za era immer­sa in un’oscurità abis­sa­le.

L’altra me smi­se di par­la­re e io tor­nai a esse­re una sola quan­do l’infermiera si avvi­ci­nò, por­tan­do la luce dei suoi den­ti.

“Giu­lia, tut­to bene?”

Per pau­ra di tor­na­re di nuo­vo dop­pia mi limi­tai ad annui­re e fu lì che sen­tii che qual­co­sa mi avvol­ge­va la testa.

Dove­va esse­re una spe­cie di guai­na mor­bi­dis­si­ma, alme­no così mi sem­brò al tat­to, ma appe­na le mie dita toc­ca­ro­no quel copri­ca­po, che imma­gi­na­vo oltre­tut­to ridi­co­lo, una mano mi bloc­cò il pol­so, con gra­zia e deter­mi­na­zio­ne.

“Era­va­mo ai tuoi sei anni Giu­lia. Ti va se ripar­tia­mo da lì?”

Sei anni.

Incre­di­bi­le che io abbia dav­ve­ro avu­to sei anni.

I miei ricor­di arri­va­no da così lon­ta­no che risul­ta­no sbia­di­ti come le foto­gra­fie di quell’epoca.

Ma poi ripren­do il filo del discor­so, non rie­sco a con­trap­por­mi a quel­la for­za che mi fa spu­ta­re un’immagine dopo l’altra, pri­gio­nie­ra di un’euforia disi­ni­ben­te e impe­ra­ti­va.

È il 1976, ho un astuc­cio di cuo­io mar­ro­ne scu­ro aper­to sul ban­co, le mati­te sono ben tem­pe­ra­te e alli­nea­te, il qua­der­no pro­fu­ma di car­ta e paglia, e la mae­stra die­tro la cat­te­dra dice i nostri nomi leg­gen­do­li da un gran­de regi­stro con la coper­ti­na ver­de tela­ta.

Sia­mo tut­ti timi­di, la mia vici­na di ban­co ha un fioc­co mol­to più vapo­ro­so e rosa del mio, men­tre la bam­bi­na sedu­ta due file die­tro ha i capel­li arruf­fa­ti e indos­sa un paio di pan­to­fo­le in pan­no­len­ci buca­te.

Qual­cu­no la pren­de in giro, la mae­stra ci zit­ti­sce e spie­ga che ci sono fami­glie pove­re che non han­no i sol­di per com­pra­re le scar­pe; da quel gior­no nes­su­no ride­rà più di lei.

Il suo­no del­la cam­pa­nel­la del­la ricrea­zio­ne ci sgan­cia dai nostri ban­chi con un rumo­re scro­scian­te di sedie che si spo­sta­no e por­te che si apro­no; pos­sia­mo usci­re in cor­ti­le, sfo­ga­re quell’energia mor­ti­fi­ca­ta sot­to ai ban­chi, rac­co­glie­re mar­ghe­ri­te e far­ne col­la­ne, scap­pa­re dai maschi che voglio­no tirar­ci le trec­ce.

Ho sei anni, e la vita mi sem­bra un’avventura bel­lis­si­ma.

Era comin­cia­ta l’estrazione, o alme­no ne ebbi una par­ven­za di con­sa­pe­vo­lez­za.

Se doves­si dire come ini­ziò e dove finì, ho anco­ra oggi la stes­sa sen­sa­zio­ne che si pro­va al mat­ti­no quan­do si cer­ca di ricor­da­re un sogno.

Ne per­ce­pi­vo l’intensità, ma non il con­te­nu­to.

Mi ritro­vai a var­ca­re l’uscita del Cen­tro Estra­zio­ne Uni­ver­sa­le sen­ten­do la voce salu­tar­mi cor­dia­le.

Pro­vai un po’ di tri­stez­za, quel­la che si respi­ra per le cose che ci sono sfug­gi­te e che non tor­ne­ran­no mai più.

Ma, del resto, il pas­sa­to non era for­se que­sto?

L’aria fre­sca di quell’aprile dal tepo­re anco­ra trop­po acer­bo mi fece bru­cia­re gli occhi.

Pen­sai, rien­tran­do a casa, che tut­to som­ma­to non era sta­ta una brut­ta espe­rien­za.

In una par­te pro­fon­dis­si­ma di me, spe­rai di esse­re chia­ma­ta di nuo­vo.

Sono pas­sa­ti qua­si otto mesi dal­la mia pri­ma estra­zio­ne.

Dal­la fre­quen­za con cui han­no deci­so di con­vo­car­mi, cre­do di esse­re un buon sog­get­to.

Vivo sola da diver­so tem­po, non ho con­tat­ti diret­ti con nes­su­no, sono pun­tua­le agli appun­ta­men­ti, ma soprat­tut­to ho mol­to mate­ria­le e una eccel­len­te memo­ria.

Non san­no ovvia­men­te di que­sto dia­rio.

Dubi­to che ne abbia­no mai visto vera­men­te uno in car­ta e inchio­stro.

Non mi sen­to nem­me­no par­ti­co­lar­men­te in col­pa: nel rego­la­men­to che ho dovu­to accet­ta­re pri­ma di ini­zia­re qual­sia­si pro­ce­du­ra, c’è un lun­go capi­to­lo lega­to alla riser­va­tez­za, dove ven­go­no elen­ca­ti i mez­zi vie­ta­ti alla dif­fu­sio­ne di quel­lo che avvie­ne al Cen­tro Estra­zio­ne Uni­ver­sa­le.

Ma io fac­cio par­te del­la vec­chia scuo­la, ho attra­ver­sa­to lo spa­zio e il tem­po par­ten­do dal foglio di car­ta, dal­la pen­na sti­lo­gra­fi­ca e dal­la car­ta assor­ben­te: le mie cara­vel­le non sono con­tem­pla­te da nes­su­na par­te, nes­su­no si sogne­reb­be nem­me­no di cer­car­le.

Eppu­re mi por­te­ran­no lon­ta­no, lo so.

Anzi, me lo augu­ro.

Spes­so sono com­bat­tu­ta, mi con­vin­co dell’inutilità di quel­lo che sto scri­ven­do, imma­gi­no che non ci sarà nes­su­no, doma­ni, a deci­fra­re que­ste pagi­ne.

Ma poi suc­ce­de che al ter­mi­ne di ogni estra­zio­ne mi attra­ver­si quel­la malin­co­ni­ca tri­stez­za che mi fa tor­na­re qui, su que­sto qua­der­no ammuf­fi­to, a lascia­re una trac­cia.

Non sono un’illusa, ma nem­me­no una che pen­sa di ave­re tut­te le rispo­ste.

Quel­lo che ho potu­to vede­re nel cor­so del­la mia sola esi­sten­za, è la pro­va schiac­cian­te del­la natu­ra­le ten­den­za di tut­to il gene­re uma­no all’inconsapevole auto­di­stru­zio­ne. 

E in quell’inconsapevole voglio rac­chiu­de­re l’arroganza, la ceci­tà, il mene­fre­ghi­smo, il deli­rio di onni­po­ten­za e una dram­ma­ti­ca e deso­lan­te stu­pi­di­tà.

 

Stù­pi­do, dal lati­no stu­pī­dus, der. di stu­pē­re «stu­pi­re» — pre­so da stu­po­re, atto­ni­to, sba­lor­di­to, che è in una con­di­zio­ne d’incapacità o insen­si­bi­li­tà indot­ta da mera­vi­glia, sor­pre­sa, o da altre cau­se fisi­che o mora­li.

(Trec­ca­ni)

 

For­se, quel­la del gene­re uma­no è solo una para­bo­la, da osser­va­re e com­pren­de­re nel­la sua tra­iet­to­ria a una distan­za per noi impos­si­bi­le.

Ma se anco­ra ci fos­se la pos­si­bi­li­tà di evi­ta­re di tor­na­re nel­le caver­ne, car­po­ni nel fan­go, a emet­te­re suo­ni gut­tu­ra­li, mi pia­ce­reb­be che la ver­sio­ne di me del futu­ro tro­vas­se que­sto dia­rio e fos­se in gra­do di leg­ger­lo.

Il deca­di­men­to ini­ziò in sor­di­na, quan­do era­va­mo così distrat­ti dal­le lusin­ghe di una tec­no­lo­gia com­ple­ta­men­te asser­vi­ta all’uomo, da non ren­der­ci con­to che ci sta­va sfug­gen­do qual­co­sa di sostan­zia­le.

Non era­va­mo affat­to dèi, ubbi­di­va­mo alle stes­se leg­gi del­la Natu­ra come tut­ti gli esse­ri viven­ti.

Nes­sun esse­re intel­li­gen­te arti­fi­cia­le avreb­be pre­so il nostro posto.

A minac­ciar­ci, era la nostra ver­sio­ne più inso­spet­ta­bi­le, quel­la che era nata dall’annullamento pro­gres­si­vo di ciò che ci ren­de­va così uni­ci e spe­cia­li.

Ave­va­mo costrui­to una gab­bia invi­si­bi­le e ci ave­va­mo chiu­so den­tro i più fra­gi­li, illu­den­do­li che quel­lo fos­se l’unico mon­do pos­si­bi­le.

Li ave­va­mo resi dipen­den­ti dal­le loro fobie e dal­le loro insi­cu­rez­ze, così che pre­sto nes­su­no di loro avreb­be mai chie­sto di usci­re da quel­la pri­gio­ne.

In real­tà, nes­su­no ebbe il dub­bio di esser­ci fini­to den­tro.

Osser­va­to­ri pas­si­vi di mon­di vir­tua­li, social­men­te timi­di e impac­cia­ti, inca­pa­ci di vive­re rela­zio­ni di qual­sia­si tipo, mani­po­la­bi­li fino al midol­lo e, alla fine, non più pro­gram­ma­ti gene­ti­ca­men­te per pro­va­re emo­zio­ni.

Da quel tra­guar­do pen­sa­va­mo di coman­da­re il mon­do e le sue leg­gi fisi­che, ma quan­do quel­le stes­se leg­gi capi­ro­no che era arri­va­to il momen­to di adat­ta­re l’essere uma­no a quel­la gab­bia, ini­ziò una nuo­va era e non pro­met­te­va nul­la di buo­no.

Intor­no agli anni ven­ti del 2000, aumen­ta­ro­no con­si­de­re­vol­men­te le pato­lo­gie neu­ro­de­ge­ne­ra­ti­ve, soprat­tut­to quel­le a dan­no dei pro­ces­si mne­mo­ni­ci.

Ci sta­va­mo tra­sfor­man­do in un popo­lo di vec­chi sen­za pas­sa­to, cala­ti in un’amnesia sen­za con­fi­ni, inca­pa­ci di soprav­vi­ve­re a noi stes­si con digni­tà.

Ma non ave­va­mo anco­ra visto nul­la.

A par­ti­re dal 2032, anno in cui uffi­cial­men­te ven­ne­ro dif­fu­si i pri­mi inquie­tan­ti report, il pro­ble­ma si sdop­piò tra­gi­ca­men­te: se i nuo­vi anzia­ni non era­no in gra­do di ricor­da­re nem­me­no chi fos­se­ro, i nuo­vi gio­va­ni non sape­va­no crea­re ricor­di.

Qual­cu­no ini­ziò a par­la­re di un virus sub­do­lo e sco­no­sciu­to, ma la veri­tà era mol­to più bana­le e insie­me ter­ri­fi­can­te: il cor­po uma­no si sta­va adat­tan­do e lo sta­va facen­do velo­ce­men­te.

La spie­ga­zio­ne scien­ti­fi­ca fu che quel­la por­zio­ne del cer­vel­lo che per­met­te il per­cor­so sinap­ti­co tra ippo­cam­po e cor­tec­cia, il tala­mo, sen­za sti­mo­li si era atro­fiz­za­to a tal pun­to da scom­pa­ri­re e diven­ta­re par­te del­le strut­tu­re vesti­gia­li, come la coda.

Cose che non ser­vo­no più, che non ven­go­no uti­liz­za­te, e per que­sto sacri­fi­ca­bi­li.

A fre­gar­ci fu pro­prio la tec­no­lo­gia, con le app, i devi­ces, i mon­di vir­tua­li a disca­pi­to di quel­li rea­li, che ci pri­vò dell’empatia e ci rese gusci vuo­ti.

Ci sta­va­mo gio­can­do la sto­ria del­la spe­cie uma­na, ciò che la ren­de immor­ta­le, per col­pa dell’incapacità di tra­smet­te­re il pathos.

Gli effet­ti sareb­be­ro sta­ti deva­stan­ti: meno amo­re, meno emo­zio­ni, meno nasci­te, più mala­ti, la fine.

Chi appar­te­ne­va a gene­ra­zio­ni pas­sa­te come la mia, esse­ri uma­ni che ave­va­no vis­su­to, si era­no sbuc­cia­ti le ginoc­chia caden­do da un’altalena, ave­va­no respi­ra­to il tan­fo del­le clas­si miste di una scuo­la, che ave­va­no viag­gia­to apren­do il cuo­re ad altri mon­di e cono­sciu­to ter­re che poi sareb­be­ro scom­par­se o rese inac­ces­si­bi­li, improv­vi­sa­men­te diven­ta­ro­no i custo­di di quel sof­fio divi­no che si era per­so.

È vero che i ricor­di a vol­te men­to­no, ma è ciò di cui sia­mo fat­ti.

Non è impor­tan­te chie­der­si se la nar­ra­zio­ne sia vera o costrui­ta, ma cosa ci muo­ve den­tro.

Inven­ta­ro­no dei siste­mi per sti­mo­la­re lo svi­lup­po del­le aree cere­bra­li nei neo­na­ti, ma per­ché fos­se­ro effi­ca­ci dove­va­no ruba­re quel sof­fio divi­no da chi ne pos­se­de­va anco­ra tan­to.

 

“Nel­la natu­ra nul­la si crea, nul­la si distrug­ge, tut­to si tra­sfor­ma”.

Antoi­ne-Lau­rent de Lavoi­sier, 1789

 

I pri­mi Cen­tri di Estra­zio­ne Uni­ver­sa­le furo­no accol­ti mol­to timi­da­men­te e con scet­ti­ci­smo.

Nes­su­no vole­va far­si scan­da­glia­re il cer­vel­lo bla­te­ran­do dei pro­pri ricor­di.

Poi qual­cu­no ini­ziò a par­la­re di sal­va­guar­dia del­la nuo­va spe­cie a rischio, l’essere uma­no, e di come fos­se pos­si­bi­le, sem­pli­ce­men­te rac­con­tan­do la pro­pria sto­ria, gene­ra­re spe­ran­ze per il futu­ro dell’umanità tut­ta.

Chi era­va­mo, noi del­la vec­chia guar­dia, per decre­ta­re la fine del mon­do?

Ci cari­ca­ro­no di una tale respon­sa­bi­li­tà che in mol­ti ini­zia­ro­no a pre­sen­tar­si ai cen­tri di rac­col­ta del con­sen­so, anche solo per saper­ne qual­co­sa di più.

Seguì un pro­gram­ma di comu­ni­ca­zio­ne mar­tel­lan­te, ven­ne­ro chia­ma­ti i guru del mar­ke­ting per stu­dia­re cam­pa­gne ras­si­cu­ran­ti, con­vin­cen­ti, effi­ca­ci.

Il biz­zar­ro logo del Cen­tro di Estra­zio­ne Uni­ver­sa­le — che a tut­ti sem­brò una chioc­cio­la sti­liz­za­ta ma che poi sco­prim­mo esse­re la tra­du­zio­ne gra­fi­ca del tala­mo — ini­ziò ad appa­ri­re ovun­que, peg­gio del baf­fo del­la Nike, del­la M di McDonald’s, del­la mela di Apple, e di ogni altro sim­bo­lo pas­sa­to alla sto­ria come il tor­men­to­ne del seco­lo.

Ma per noi gen­te comu­ne, il Cen­tro di Estra­zio­ne Uni­ver­sa­le era la minie­ra.

Noi, ovvia­men­te, era­va­mo i mina­to­ri.

L’immagine reg­ge­va, ci cala­va­no nei buchi pro­fon­di e oscu­ri del pas­sa­to e quan­do ci ripor­ta­va­no in super­fi­cie ci sen­ti­va­mo anco­ra addos­so la pol­ve­re acre degli anni che furo­no.

In tan­ti ci sia­mo chie­sti dove fos­se la fre­ga­tu­ra.

Nes­sun dolo­re, nes­sun segno visi­bi­le sul cor­po, nes­sun deces­so miste­rio­so: pos­si­bi­le che tut­to fos­se sta­to stu­dia­to così bene?

Eppu­re di quell’oblio di cui tut­ti sof­fri­va­mo, in pochi ne par­la­va­no.

Come me, altri si accor­se­ro di indos­sa­re una calot­ta in testa, tut­ti pro­va­va­no un vago sen­so di nau­sea, for­tu­na­ta­men­te bre­vis­si­mo, e diver­si avver­ti­va­no al ter­mi­ne dell’estrazione una sen­sa­zio­ne simi­le a una leg­ge­ra ubria­ca­tu­ra.

Pro­ba­bil­men­te non avre­mo il tem­po ana­gra­fi­co di sape­re cosa han­no fat­to den­tro ai mean­dri del nostro cer­vel­lo, e for­se que­sto è uno dei moti­vi per cui ho ini­zia­to que­sto dia­rio.

Se mai l’oblio doves­se annien­tar­mi com­ple­ta­men­te, que­ste pagi­ne for­se potreb­be­ro aiu­ta­re anche me, non solo chi ver­rà dopo.

“Giu­lia, oggi è sta­ta la tua ulti­ma estra­zio­ne, gra­zie a nome di tut­to il gene­re uma­no per il tuo con­tri­bu­to!”

Estra­zio­ne nume­ro 25, sono tor­na­ta a casa da poco.

Mi sen­to le mani intor­pi­di­te, uscen­do dal CEU ho avver­ti­to uno strap­po tra la cla­vi­co­la e il pet­to, come se mi aves­se col­pi­ta una frec­cia.

Sto scri­ven­do a fati­ca, vedo dan­za­re le let­te­re sul­la car­ta, esco­no dal­la pun­ta del­la pen­na per sci­vo­la­re sul­le righe sot­ti­li del foglio.

Oggi ho avu­to di nuo­vo 40 anni, la mia età d’oro.

Una del­le tan­te in veri­tà, ma la più impor­tan­te.

Sto scen­den­do di cor­sa le sca­le, indos­so un sopra­bi­to color rug­gi­ne sopra il mio cor­po nudo che pro­fu­ma di quel­la cre­ma buo­nis­si­ma con il tap­po vio­la, e vio­la sono le mie scar­pe su cui volo, divo­ran­do minu­ti e mar­cia­pie­di.

Sono di nuo­vo inna­mo­ra­ta e il tem­po e lo spa­zio sono con­cet­ti mor­bi­di come la mia pel­le sot­to le sue mani.

Que­gli anni sono luce che fa spa­lan­ca­re gli occhi per assor­bir­la tut­ta, il bat­ti­to inar­re­sta­bi­le di un cuo­re affa­ma­to, l’assoluta cer­tez­za che non potrà suc­ce­de­re nul­la di brut­to e la pro­fon­da con­vin­zio­ne di esse­re viva.

Il mio ciclo è fini­to, for­se insie­me a quel­lo di tut­to il gene­re uma­no, che anco­ra capar­bia­men­te e con arro­gan­za cer­ca di sfug­gi­re all’inesorabile.

“… gra­zie a nome di tut­to il gene­re uma­no per il tuo con­tri­bu­to”.

Sor­ri­do e scuo­to la testa.

Imma­gi­no la mor­te come un gran­de silen­zio che zit­ti­sce i miei pen­sie­ri e resti­tui­sce gli ato­mi del mio cor­po all’Universo.

Dei miei ricor­di non reste­rà for­se nul­la, ma sen­za la con­sa­pe­vo­lez­za di quel­la mera­vi­glia che mi ha riem­pi­to gli occhi, la mia vita non avreb­be avu­to signi­fi­ca­to alcu­no.

Biblio­gra­fia:

Man­zo­ni Ales­san­dro. 1845. Ope­re varie, Redael­li, Mila­no. 

Lavoi­sier Antoi­ne-Lau­rent. 1789. Trai­té Élé­men­tai­re de Chi­mie, cita­zio­ne apo­cri­fa 

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