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Ottobre
5 Ottobre 2023

IL NOME DEL­LA COSA

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Pulp Fic­tion e i dise­gni­ni

Ho diver­si cugi­ni più gran­di di me. Duran­te la puber­tà e l’adolescenza que­sti cugi­ni, chi più, chi meno, han­no rap­pre­sen­ta­to il mio stan­dard di ciò che fos­se con­si­de­ra­bi­le fico. Il cri­te­rio ado­pe­ra­to era mol­to sem­pli­ce: quel­lo che pia­ce­va loro era fico, quel­lo che non pia­ce­va loro era da sfi­ga­ti.

Alle vol­te i loro gusti, che pia­no pia­no con­tri­bui­va­no a for­ma­re i miei, ade­ri­va­no a una qual­che logi­ca e coe­ren­za, rispon­de­va­no alle carat­te­ri­sti­che di un deter­mi­na­to tipo uma­no: quin­di Emi­nem era da fichi, Justin Bie­ber da sfi­ga­ti; Brea­king Bad era da fichi, Grey’s Ana­to­my da sfi­ga­ti. Altre vol­te i giu­di­zi este­ti­ci dei miei cugi­ni ave­va­no a che fare più coi loro gusti per­so­na­li. Io non nota­vo più di tan­to la dif­fe­ren­za: quin­di il metal era da fichi, la vod­ka da sfi­ga­ti; gli scac­chi da fichi, i cap­pel­li inver­na­li da sfi­ga­ti.

Non vede­vo mol­to i miei cugi­ni, per­ché abi­ta­va­mo in regio­ni diver­se. Nata­le e il mese d’agosto, quin­di, rap­pre­sen­ta­va­no i due momen­ti dell’anno in cui ave­vo l’occasione di aggior­na­re i miei gusti emu­lan­do i loro, andan­do a for­ma­re un altro pez­zet­ti­no del­la mia fra­gi­le iden­ti­tà.

Un’estate rin­con­trai mio cugi­no dopo sei mesi. Indos­sa­va una t‑shirt la cui stam­pa ritrae­va la ver­sio­ne car­toon di John Tra­vol­ta e Samuel Lee Jack­son, con le pisto­le in mano e i com­ple­ti mac­chia­ti di san­gue. Un rife­ri­men­to all’iconica sce­na di Pulp Fic­tion. Se mio cugi­no indos­sa­va quel­la t‑shirt di sicu­ro dove­va rite­ner­la una cosa fica, quin­di gio­cai di anti­ci­po e gli feci i com­pli­men­ti per la sua magliet­ta.

“Bel­la vè? Pulp Fic­tion, lo cono­sci?”

Que­sta fu la sua rispo­sta. Il pro­ces­so per cui impa­ra­vo cosa fos­se fico osser­van­do i gusti dei miei cugi­ni era un pro­ces­so del tut­to inti­mo e per­so­na­le. All’esterno cer­ca­vo di dis­si­mu­lar­lo il più pos­si­bi­le, soprat­tut­to evi­tan­do di far nota­re la mia igno­ran­za su quel­le stes­se cose che i miei cugi­ni ado­ra­va­no o dete­sta­va­no. La pri­ma vol­ta che mio cugi­no mi fece ascol­ta­re Creep dei Radio­head, ad esem­pio, fin­si di can­tic­chiar­ne il ritor­nel­lo.

Così, quan­do mio cugi­no mi chie­se se cono­sces­si Pulp Fic­tion, mi limi­tai a rispon­de­re “Ovvio” anche se non ave­vo la ben­ché mini­ma idea di cosa stes­se par­lan­do. Pro­mi­si a me stes­so di col­ma­re le lacu­ne appe­na tor­na­to a casa, gra­zie alla pre­i­sto­ri­ca con­nes­sio­ne a inter­net di cui da poco la mia fami­glia dispo­ne­va.

Me ne dimen­ti­cai. Così al posto di inter­net, fu il mio incon­scio, in manie­ra del tut­to auto­no­ma, a costrui­re pia­no pia­no per me una defi­ni­zio­ne di cosa fos­se Pulp Fic­tion. Fino a quan­do l’evidenza del­la vita non inter­ven­ne (cir­ca un anno dopo) a distrug­ge­re quel­la mia auto-gene­ra­ta defi­ni­zio­ne io rima­si con­vin­to che Pulp Fic­tion fos­se il pecu­lia­re sti­le di dise­gno con cui era­no sta­ti rap­pre­sen­ta­ti Vin­cent Vega e Jules Winn­field.

Nei mesi a segui­re avrei visto altre magliet­te su cui era­no sta­ti raf­fi­gu­ra­ti altri per­so­nag­gi del­la cul­tu­ra pop con quel­lo stes­so sti­le di dise­gno, che oggi cre­do non abbia nep­pu­re un nome. Nel veder­li, e maga­ri anche nel rico­no­scer­li come Fred­dy Krue­ger o Har­ry Pot­ter, io avrei pen­sa­to fra me e me che era­no sta­ti dise­gna­ti nel­lo sti­le Pulp Fic­tion.

Il ros­so e il cer­chio

Imma­gi­nia­mo un bam­bi­no mol­to pic­co­lo, che sta impa­ran­do a par­la­re. I suoi geni­to­ri s’impegnano mol­to ad inse­gnar­glie­lo. Di fron­te a sé il bam­bi­no ha tre figu­re: un cer­chio ros­so, un trian­go­lo ver­de e un qua­dra­to blu. I geni­to­ri del bam­bi­no indi­ca­no il cer­chio ros­so e gli dico­no “Que­sto è ros­so”, poi gli indi­ca­no il trian­go­lo ver­de e dico­no “Que­sto è ver­de”, fan­no lo stes­so con il qua­dra­to blu. Come fac­cia­mo a esse­re sicu­ri che il bam­bi­no col­le­ghe­rà il signi­fi­ca­to dei nomi che ha appe­na ascol­ta­to ai colo­ri del­le figu­re e non alle loro for­me?

Imma­gi­nia­mo che dopo un po’ di fati­ca, sul vol­to del bam­bi­no appa­ia un’espressione che lasci inten­de­re che abbia capi­to. I dili­gen­ti, ma a que­sto pun­to anche un po’ dia­bo­li­ci,  geni­to­ri potreb­be­ro indi­ca­re le stes­se tre figu­re, ma que­sta vol­ta escla­man­do: “Que­sto è un cer­chio”, “Que­sto è un trian­go­lo”, “Que­sto è un qua­dra­to”. Che espres­sio­ne appa­ri­rà que­sta vol­ta sul vol­to del bam­bi­no?

Una doman­da simi­le sel’è posta uno dei più genia­li auto­ri del­la sto­ria del­la filo­so­fia, Lud­wig Witt­gen­stein. Le sue rispo­ste sono con­te­nu­te ne Le ricer­che filo­so­fi­che, un clas­si­co del pen­sie­ro occi­den­ta­le. Per capi­re l’incredibile cara­tu­ra intel­let­tua­le di quest’opera si pen­si che, come spes­so è acca­du­to nel­la sto­ria del­la filo­so­fia, nel libro l’autore argo­men­ta le sue tesi in pole­mi­ca con auto­ri pre­ce­den­ti. Nell’argomentare le sue idee par­te insom­ma dal­le tesi di que­sti ulti­mi per ribal­tar­le. Fra que­sti ber­sa­gli pole­mi­ci ne spic­ca uno in par­ti­co­la­re: Witt­gen­stein stes­so.

Non più d’accordo con sé stes­so, e in par­ti­co­la­re con il sé stes­so del Trac­ta­tus logi­co-phi­lo­so­phi­cus, Witt­gen­stein deci­se di ela­bo­ra­re e argo­men­ta­re nuo­ve idee, che smen­tis­se­ro le pre­ce­den­ti. Il tut­to nel­la pie­na con­sa­pe­vo­lez­za che que­sta ope­ra­zio­ne avreb­be rap­pre­sen­ta­to un rischio enor­me per la sua rosea e avvia­ta car­rie­ra nel­l’o­lim­po del pen­sie­ro ana­li­ti­co dell’epoca, vale a dire l’Università di Oxford, affian­co a gen­te del cali­bro di Ber­trand Rus­sell e Got­tlob Fre­ge. Un’onestà intel­let­tua­le che, con l’unica ecce­zio­ne di Socra­te, non ha pari nel­la sto­ria del­la filo­so­fia.

Nel testo, Witt­gen­stein cer­ca di dimo­stra­re che l’apprendimento del lin­guag­gio, e il lin­guag­gio in gene­ra­le, non han­no a che fare esclu­si­va­men­te con l’uso descrit­ti­vo che se ne può fare. Per l’autore “Chi descri­ve in que­sto modo l’apprendimento del lin­guag­gio pen­sa […] anzi­tut­to a sostan­ti­vi come «tavo­lo», «sedia», «pane» e ai nomi di per­so­na, e solo in un secon­do tem­po ai nomi di cer­te atti­vi­tà e pro­prie­tà; e pen­sa ai rima­nen­ti tipi di paro­le come a qual­co­sa che si acco­mo­de­rà”.

Ma le atti­vi­tà e le pro­prie­tà non sono qual­co­sa che deve acco­mo­dar­si. Anzi, le atti­vi­tà in par­ti­co­la­re sono l’uso prin­ci­pa­le del lin­guag­gio. Non tan­to per­ché lo sco­po del lin­guag­gio è descri­ve­re que­sta atti­vi­tà, ma per­ché il lin­guag­gio stes­so è un’attività. Per Witt­gen­stein Il lin­guag­gio non è più una rap­pre­sen­ta­zio­ne dei fat­ti, ma è una for­ma del­la vita. Il lin­guag­gio vive nel­la plu­ra­li­tà del­la vita.

Per quan­to riguar­da inve­ce gli attri­bu­ti, Witt­gen­stein scri­ve:

colui al qua­le do una defi­ni­zio­ne osten­si­va del nome di una per­so­na potreb­be inter­pre­tar­lo come il nome di un colo­re, come la desi­gna­zio­ne di una raz­za o addi­rit­tu­ra come il nome di un pun­to car­di­na­le. Ciò vuol dire che la defi­ni­zio­ne osten­si­va può in ogni caso esse­re inter­pre­ta­ta in que­sto e in altri modi.

Cose come i colo­ri, le for­me o i nume­ri, pos­so­no esse­re defi­ni­te osten­si­va­men­te sol­tan­to se la per­so­na che dovreb­be rece­pi­re la defi­ni­zio­ne ha una cono­scen­za pre­gres­sa di cosa sia un colo­re, una for­ma o un nume­ro.

Il nostro bam­bi­no, che sta giu­stap­pun­to impa­ran­do a par­la­re, non pos­sie­de que­ste nozio­ni pre­li­mi­na­ri e si ritro­ve­rà ostag­gio dell’ambiguità.

Sia­mo con­vin­ti, in una qual­che manie­ra, che appren­de­re il lin­guag­gio con­si­sta nel “deno­mi­na­re le cose”. Ma, come fa nota­re giu­sta­men­te Witt­gen­stein, con il lin­guag­gio fac­cia­mo mol­tis­si­me cose diver­se dal sem­pli­ce nomi­na­re o deno­mi­na­re le cose. “Si pen­si sol­tan­to alle escla­ma­zio­ni. Con le loro fun­zio­ni diver­sis­si­me. Acqua! Via! Ahi! Aiu­to! Bel­lo! No! Ades­so sei anco­ra dispo­sto a chia­ma­re que­ste paro­le ‘deno­mi­na­zio­ni di ogget­ti’?”

Sia­mo dispo­sti a chia­ma­re “Pulp Fic­tion” “deno­mi­na­zio­ne di ogget­ti”?

Lo cono­sci?

Cosa vole­va chie­der­mi mio cugi­no con quel­la doman­da? Spo­glian­do­la di un po’ dell’ambiguità che si por­ta die­tro sareb­be appar­sa più come un “lo ha visto?” For­ma abbre­via­ta del più espli­ci­to “lo hai visto que­sto film?” Chie­den­do­mi se lo cono­sces­si, eli­mi­nan­do il rife­ri­men­to alla natu­ra di quel pro­dot­to cul­tu­ra­le, mio cugi­no pote­va star sot­tin­ten­den­do mol­tis­si­me cose: pote­va star spe­ran­do in una mia rispo­sta affer­ma­ti­va, la qua­le mi avreb­be por­ta­to anco­ra una vol­ta dal­la sua par­te del­la bar­ri­ca­ta, quel­la di chi cono­sce e apprez­za le cose fiche; pote­va star spe­ran­do in una mia rispo­sta nega­ti­va (e ave­va di che spe­ra­re) così da sfrut­ta­re l’occasione per esi­bir­si in un lun­go e super­fluo spie­go­ne di cri­ti­ca cine­ma­to­gra­fi­ca, tipi­co di cer­te ado­le­scen­ze; pote­va esse­re una sem­pli­ce espres­sio­ne sor­pre­sa, o reto­ri­ca.

In ogni caso, in quell’occasione mio cugi­no ado­pe­rò il lin­guag­gio per quel­lo che è il suo uso prin­ci­pa­le: quel­lo stru­men­ta­le. Chie­den­do­mi se cono­sces­si quel­la cosa, piut­to­sto che se l’avessi vista, ave­va aggiun­to una cer­ta dose di ambi­gui­tà, con­sa­pe­vol­men­te o meno, per per­se­gui­re uno sco­po. Per dir­la con Witt­gen­stein, mio cugi­no ave­va usa­to una sfu­ma­tu­ra di una for­ma lin­gui­sti­ca per agi­re all’interno del­la sua for­ma di vita.

Quell’ambiguità, però, non è un det­ta­glio. Scri­ve Witt­gen­stein:

“I pro­ble­mi che sor­go­no a cau­sa di un frain­ten­di­men­to del­le nostre for­me lin­gui­sti­che han­no il carat­te­re del­la pro­fon­di­tà. Sono inquie­tu­di­ni pro­fon­de; sono radi­ca­te così pro­fon­da­men­te in noi, come le for­me del nostro lin­guag­gio.”

È pro­prio nel­la frat­tu­ra del­la con­ver­sa­zio­ne, nell’incomprensione, che emer­ge la vera natu­ra del lin­guag­gio. E se a que­sta incom­pren­sio­ne se ne aggiun­go­no altre, che si stra­ti­fi­ca­no fra di loro, il risul­ta­to che emer­ge è una devia­zio­ne non sol­tan­to del lin­guag­gio ma anche del pen­sie­ro. Que­sto vale tan­to per le mie cre­den­ze sul signi­fi­ca­to dell’espressione “pulp fic­tion” quan­to per le que­stio­ni filo­so­fi­che, che, non a caso, il filo­so­fo vien­ne­se defi­ni­va “frain­ten­di­men­ti del lin­guag­gio”. Scri­ve anco­ra Witt­gen­stein:

“Quan­do i filo­so­fi usa­no una paro­la — ‘sape­re’, ‘esse­re’, ‘ogget­to’, ‘io’, ‘pro­po­si­zio­ne’, ‘nome’ — e ten­ta­no di coglie­re l’essenza del­la cosa, ci si deve sem­pre chie­de­re: Que­sta paro­la vie­ne mai effet­ti­va­men­te usa­ta così nel lin­guag­gio, nel qua­le ha la sua patria? Noi ripor­tia­mo le paro­le, dal loro impie­go meta­fi­si­co, indie­tro al loro impie­go quo­ti­dia­no.”

Il signi­fi­ca­to di una paro­la o di un’espressione, quin­di, risie­de più nel suo uso quo­ti­dia­no che in quel­lo meta­fi­si­co, in una sor­ta di essen­za tra­scen­den­te. A secon­da del­le cir­co­stan­ze, l’espressione “Pulp Fic­tion” può signi­fi­ca­re tan­to “film del ‘98 diret­to da Quen­tin Taran­ti­no”, quan­to “pro­dot­to cul­tu­ra­le gene­ri­co, stam­pa­bi­le su t‑shirt, che se cono­sciu­to ha il pote­re di ren­de­re  «un fico» il cono­scen­te.”

“ovve­ro”, ovve­ro sul­la cor­ret­tez­za

Il pun­to è che que­sto feno­me­no acca­de di con­ti­nuo con il lin­guag­gio. È in base a que­sto feno­me­no che il lin­guag­gio evol­ve e si modi­fi­ca. Per dir­la anco­ra una vol­ta con le paro­le di Witt­gen­stein:

“Il fat­to fon­da­men­ta­le, qui, è che noi fis­sia­mo cer­te rego­le, una tec­ni­ca per un giuo­co, e poi, quan­do seguia­mo rego­le le cose non van­no come ave­va­mo sup­po­sto. Che dun­que ci impi­glia­mo, per così dire, nel­le nostre pro­prie rego­le.”

“Impi­gliar­si nel­le rego­le del lin­guag­gio” è una del­le pra­ti­che fon­da­men­ta­li dell’essere uma­no. Per tor­na­re all’esempio che mi coin­vol­ge in pri­ma per­so­na, sul­la base di que­sti inciam­pi il me stes­so ado­le­scen­te anda­va costruen­do la sua iden­ti­tà, anda­va affi­nan­do il suo sguar­do sul mon­do.

Allo stes­so tem­po, il bam­bi­no che impa­ra a par­la­re, supe­ran­do gli osta­co­li del lin­guag­gio, non inglo­ba sol­tan­to den­tro di sé un nuo­vo nome, come se fos­se una spe­cie di voca­bo­la­rio viven­te, ma insie­me al nome appren­de anche un signi­fi­ca­to, o, meglio anco­ra, una mol­te­pli­ci­tà di signi­fi­ca­ti poten­zia­li. Inse­dian­do­si nel­le pie­ghe del lin­guag­gio, il bam­bi­no impa­ra, pia­no pia­no, a destreg­giar­si fra le sfu­ma­tu­re del ros­so o del blu; nomi­nan­do le for­me dà vita di fat­to agli ogget­ti, che altri­men­ti non esi­ste­reb­be­ro nep­pu­re in quan­to tali. Come si potreb­be distin­gue­re un qua­dra­to blu da un cer­chio ros­so se non nomi­nan­do­li come “qua­dra­to blu” e “cer­chio ros­so”?

Un esem­pio per­fet­to di come que­sta ambi­gui­tà s’insinua di con­ti­nuo nel lin­guag­gio quo­ti­dia­no può esse­re la paro­la ita­lia­na “ovve­ro”. Stan­do al suo signi­fi­ca­to “cor­ret­to”, ovve­ro a quel­lo rico­no­sciu­to dai voca­bo­la­ri e dal­le acca­de­mie, la paro­la non è altro che un raf­for­za­ti­vo del­la disgiun­zio­ne “o”. Dal pun­to di vista for­ma­le ha lo stes­so iden­ti­co valo­re dell’espressione “oppu­re”. Uno dei suoi usi più dif­fu­si nel­la sto­ria, al pari dell’espressione “ossia” è sta­to quel­lo di intro­dur­re un sot­to­ti­to­lo. Tut­ta­via, cre­do sia espe­rien­za di mol­ti un uso piut­to­sto dif­fe­ren­te dell’espressione, spes­so uti­liz­za­ta nel lin­guag­gio quo­ti­dia­no in fun­zio­ne espli­ca­ti­va, al pari di “cioè”. Quest’ultimo uso evi­den­te­men­te con­fi­na la natu­ra disgiun­ti­va dell’ovvero ad alcu­ni casi pecu­lia­ri, quel­li in cui gli ele­men­ti da disgiun­ge­re sono equi­va­len­ti non sol­tan­to nel valo­re ai fini di una scel­ta, ma anche nel signi­fi­ca­to.

Fac­cia­mo un esem­pio: “Quel tipo lag­giù è Mario, o Il Signor Ros­si, oppu­re il figlio di Lui­gi, ovve­ro il padre di Ales­sia. Insom­ma, chia­ma­lo come ti pare!” Solo alla fine del­la fra­se sco­pria­mo che le disgiun­zio­ni non ser­vi­va­no a distin­gue­re per­so­ne diver­se, ma sol­tan­to nomi diver­si per la stes­sa per­so­na. Se la fra­se fos­se sta­ta sol­tan­to: “Quel tipo lag­giù è Mario, o Il signor Ros­si, oppu­re il figlio di Lui­gi”, pro­ba­bil­men­te avrem­mo pen­sa­to a qual­cu­no che non rie­sce a deci­der­si fra tre sog­get­ti, maga­ri per­ché la per­so­na in que­stio­ne è trop­po distan­te e non rie­sce a rico­no­scer­la del tut­to. Ma se inve­ce la fra­se fos­se sta­ta: “Quel tipo lag­giù è Mario, ovve­ro il signor Ros­si, ovve­ro il padre di Ales­sia, ovve­ro il figlio di Lui­gi”. Cre­do che qua­si nes­su­no avreb­be avu­to dif­fi­col­tà nel capi­re che si stes­se par­lan­do del­la stes­sa per­so­na.

Qua­si nes­su­no. Potreb­be­ro infat­ti ave­re una cer­ta dif­fi­col­tà gli avvo­ca­ti, o in gene­ra­le tut­ti quel­li che han­no quo­ti­dia­na­men­te a che fare con il lin­guag­gio giu­ri­di­co. In que­sto spe­ci­fi­co con­te­sto, infat­ti, l’espressione “ovve­ro” con­ser­va la sua natu­ra disgiun­ti­va.

Tut­ta­via, imma­gi­nia­mo un nota­io che, al bar con gli ami­ci, chie­des­se a uno di que­sti: “Tu pren­di una bir­ra ovve­ro una coca cola?”. Sia­mo dispo­sti ad affer­ma­re che sta usan­do cor­ret­ta­men­te il lin­guag­gio?

In que­sto spe­ci­fi­co caso, la “cor­ret­tez­za” aggiun­ge ambi­gui­tà, piut­to­sto che toglier­la.

Capi­ta che, quan­do l’ambiguità del lin­guag­gio crea gros­si pro­ble­mi, ad esem­pio di natu­ra poli­ti­ca, o addi­rit­tu­ra mili­ta­re, ci sia chi si appel­li alla cor­ret­tez­za per diri­me­re i con­flit­ti. Ma, evi­den­te­men­te, la cor­ret­tez­za da sola non basta. Anzi, come abbia­mo visto, in alcu­ni casi rischia di per­se­gui­re obiet­ti­vi oppo­sti alle inten­zio­ni.

Per quan­to, insom­ma, “sesqui­pe­da­le” e “idio­sin­cra­ti­co” pos­sa­no a vol­te ren­de­re esat­ta­men­te la sfu­ma­tu­ra di signi­fi­ca­to che si vuo­le tra­smet­te­re, se l’interlocutore non pos­sie­de il poten­zia­le di quel signi­fi­ca­to la paro­la non può che giun­ger­gli come un suo­no con­fu­so e insen­sa­to. Una peri­fra­si, o un sino­ni­mo un po’ meno “cor­ret­to” svol­go­no deci­sa­men­te meglio il lavo­ro.

Par­la come man­gi

Tut­te que­ste spe­cu­la­zio­ni teo­ri­che, che sem­bra­no risie­de­re esclu­si­va­men­te nell’iperuranica for­ma del discor­so filo­so­fi­co, han­no del­le con­se­guen­ze immen­sa­men­te pra­ti­che. Il fat­to che i nomi non pos­sie­da­no in sé i pro­pri signi­fi­ca­ti, ma che anzi si com­por­ti­no da cata­liz­za­to­ri di signi­fi­ca­to del tut­to dipen­den­ti dall’uso, com­por­ta tut­ta una sor­ta di dove­ri per chi quei nomi li uti­liz­za. Più che il ricer­ca­re la cor­ret­tez­za, ogni per­so­na ha innan­zi­tut­to il dove­re di cer­ca­re di capi­re fino a che pun­to si esten­da il cam­po seman­ti­co del­le paro­le che sta uti­liz­zan­do, e, in caso di pos­si­bi­li ambi­gui­tà, di ripor­ta­re quel cam­po stes­so su un ter­re­no più soli­do e acces­si­bi­le.

Cosa influi­sce sul­la soli­di­tà o acces­si­bi­li­tà di que­sto ter­re­no è pre­sto det­to: per pri­ma cosa gli altri par­te­ci­pan­ti alla con­ver­sa­zio­ne, attua­li o poten­zia­li che sia­no.

Così come l’avvocato a cena con gli ami­ci non può per­met­ter­si di usa­re “ovve­ro” nel­la sua for­ma “cor­ret­ta”, allo stes­so modo chiun­que par­la, o scri­ve, deve sem­pre ave­re bene a men­te le orec­chie o gli occhi ai qua­li si sta rivol­gen­do.

Per inten­der­ci: mi ha sem­pre affa­sci­na­to il modo di dire “par­la come man­gi”. Si trat­ta di un rim­pro­ve­ro rivol­to in gene­ra­le a una per­so­na comu­ne, un ami­co o un cono­scen­te, che si pre­su­me man­gi gene­ral­men­te in modo comu­ne, una cuci­na sem­pli­ce e casa­lin­ga, e che per que­sta ragio­ne dovreb­be accor­da­re il modo in cui par­la a que­sta stes­sa sem­pli­ci­tà, lascian­do le finez­ze del lin­guag­gio a chi vive una vita raf­fi­na­ta in toto, testi­mo­nia­ta in que­sto sen­so da un modo di man­gia­re altret­tan­to raf­fi­na­to.

Ma oltre a que­sta pri­ma e intui­ti­va inter­pre­ta­zio­ne cre­do che l’espressione “par­la come man­gi” sia pas­si­bi­le di alme­no un’altra let­tu­ra, non per for­za imme­dia­ta. Man­gia­re è una pra­ti­ca straor­di­na­ria­men­te comu­ni­ta­ria, pas­si­bi­le di gran­di dif­fe­ren­ze socia­li e cul­tu­ra­li, ma carat­te­riz­za­ta da un mini­mo comu­ne mul­ti­plo: la tavo­la. Che sia effet­ti­va­men­te un tavo­lo attor­no a cui si riu­ni­sco­no i com­men­sa­li o che si trat­ti più alle­go­ri­ca­men­te del con­cet­to di “pasto con­di­vi­so”, la tavo­la è un incre­di­bi­le aggre­ga­to­re socia­le. Que­sto aggre­ga­to­re è carat­te­riz­za­to dal fat­to che chi par­te­ci­pa alla pra­ti­ca con­di­vi­de lo stes­so cibo, o quan­to meno lo stes­so tipo di cibo. Per quan­to uno pos­sa esse­re abi­tua­to ai risto­ran­ti raf­fi­na­ti, se va in piz­ze­ria con gli ami­ci, ten­den­zial­men­te man­ge­rà una piz­za. In que­sto sen­so “par­la come man­gi” può signi­fi­ca­re “tie­ni con­to del con­te­sto, rego­la il tuo lin­guag­gio al teno­re del­la con­ver­sa­zio­ne”.

Sia chia­ro, non mi sto rife­ren­do esclu­si­va­men­te a una bana­le que­stio­ne di regi­stri lin­gui­sti­ci, ma, anco­ra una vol­ta, ai signi­fi­ca­ti pro­pri del­le paro­le. Alla con­tra­zio­ne o espan­sio­ne che il cam­po seman­ti­co di quest’ultime subi­sce ad ogni con­ver­sa­zio­ne, pro­prio in base al con­te­sto.

La pros­si­ma vol­ta che sei a cena con gli ami­ci, insom­ma, ricor­da­ti che “natu­ra” pro­ba­bil­men­te signi­fi­che­rà “fore­ste, albe­ri e ani­ma­li sel­va­ti­ci” e “cul­tu­ra” evo­ca “libri, film d’autore, musei e mostre d’arte”. Non pre­ten­de­re che le que­stio­ni filo­so­fi­che e meta­fi­si­che entri­no nel lin­guag­gio quo­ti­dia­no e ricor­da­ti che, sem­mai, come ci ha inse­gna­to lo zio Witt­gen­stein, è pro­prio il lin­guag­gio quo­ti­dia­no, quel­lo del­la cena con gli ami­ci, che ha gene­ra­to le que­stio­ni filo­so­fi­che e meta­fi­si­che, a via di con­ti­nui frain­ten­di­men­ti.

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