Nessuno ci ha insegnato a giocare. Ma tutti i giochi che conosciamo ci sono stati insegnati da qualcuno. Questa semplice constatazione basta a dimostrare due cose: primo che ‘il giocare’ e ‘i giochi’ sono due cose distinte, secondo che il giocare può prescindere dai giochi, ovvero che si può giocare in assenza di giochi. Mi preme evidenziare fin da subito questa distinzione tra, da un lato, il giocare come attività spontanea e innata nell’essere umano e quindi pre-culturale e a suo modo pervasiva della nostra esistenza; e, dall’altro, il gioco-artefatto, cioè il gioco come prodotto culturale che qualcuno crea e che si tramanda attraverso le varie forme con cui si perpetuano tutti gli oggetti culturali, ad esempio per via orale — come è il caso dei giochi tradizionali -, per iscritto — nei manuali d’istruzioni — o digitalmente — nei codici dei videogiochi. Mi importa stabilire questa differenza, perché nelle righe che seguono vorrei indagare il rapporto tra queste due dimensioni. Se abbiamo detto che il giocare è innato mentre ogni gioco è una costruzione culturale, va da sé che il giocare precede i giochi. Ma com’è che dal giocare si passa ai giochi? Che tipo di operazione viene fatta quando viene creato un gioco-artefatto? In che relazione si pone con ciò che precede e resta esterno al gioco? E se possiamo giocare in assenza di giochi, cosa giochiamo quando non stiamo giocando un gioco?
Con una metafora si potrebbe dire che il rapporto tra il giocare e i giochi è lo stesso tra il vedere e le immagini, intendendo con ‘immagine’ qualunque cosa — un disegno o una fotografia ad esempio — che sia stata creata con lo scopo di trasmettere dell’informazione visiva, cioè di essere vista. Ovviamente noi non vediamo soltanto immagini. Possiamo chiamare realtà visibile tutto ciò che vediamo ma non è propriamente un’immagine. Il rapporto più frequente che si può stabilire tra la realtà e un’immagine è quello di rappresentazione: l’immagine allude alla realtà. Tale rapporto può essere più o meno stretto, facendosi meno evidente man mano che le immagini prese in considerazione si fanno più stilizzate o astratte, ma resto convinto che una minima relazione tra immagini e realtà visibile rimanga, se non altro perché entrambe coinvolgono comunque l’atto del vedere. Altro punto interessante: anche se vedere la realtà è una facoltà che precede, cronologicamente e logicamente, le immagini, la loro fruizione può cambiare il modo con cui vediamo la realtà.
Ora, se questa metafora è buona, viene da domandarsi cosa sta ai giochi come la realtà visibile sta alle immagini. Non si può dire che un gioco rappresenti qualcosa di esterno a sé nello stesso modo in cui lo fa un’immagine, ma certamente un rapporto tra il gioco e una realtà che lo precede — una realtà giocabile? — deve esistere. Ma se riusciamo facilmente a capire il rapporto tra immagini e realtà è anche perché intuitivamente ci è chiaro cosa significa ‘vedere qualcosa’. Cosa significa ‘giocare’, invece, è meno scontato. Sarà quindi bene cercare di capirlo prima di procedere.
Iniziamo dicendo che una definizione condivisa di ‘giocare’, così come di ‘gioco’, non esiste. Ma penso che un buon modo per iniziare a stabilirne gli aspetti essenziali sia partire da Roger Caillois che, con il suo I giochi e gli uomini (1958), ha scritto quello che rimane uno dei testi più importanti ed esaustivi sulla natura del giocare. Qui, in uno dei primi capitoli, Caillois definisce quelle che sono le caratteristiche fondamentali di ogni attività ludica, ovvero l’essere “libera”, “separata”, “incerta”, “improduttiva”, “regolata” e “fittizia” (Callois 1958, 26).
Sono tutte e sei caratteristiche che vale la pena di tenere in considerazione, ma a mio avviso alcune sono più importanti di altre per afferrare il significato del giocare. Io, ad esempio, metterei particolarmente l’accento sull’incertezza che caratterizza le attività ludiche. Quando iniziamo a giocare significa che ci stiamo prestando a un’attività di cui non possiamo sapere con sicurezza come si concluderà né come si svilupperà. Del resto, capiamo anche intuitivamente che un gioco di cui si possa conoscere a priori l’esito non sarebbe interessante e quindi non varrebbe la pena di essere giocato.
Anche la libertà è assolutamente fondamentale per ogni attività ludica. E credo lo sia in almeno due sensi, uno esterno e l’altro interno al giocare, potremmo dire. Giocare è un’attività libera in senso esterno perché giochiamo sempre volontariamente: giochiamo perché scegliamo di farlo; se si sta facendo qualcosa per coercizione o necessità, allora non si sta giocando. Ma giocare prevede anche una libertà interna, perché comporta sempre di fare delle scelte che condizioneranno lo sviluppo dell’attività — e qui capiamo come la libertà sia anche una delle fonti dell’incertezza del giocare.
Un’altra caratteristica essenziale del giocare sembra entrare in contrasto con la libertà, cioè il fatto che si tratti di una attività regolata. Giocare significa sempre seguire delle regole, più o meno complesse e più o meno fisse, che definiscono l’attività e che insieme limitano quello che possiamo fare. Anche il semplice ‘facciamo che…’ dei giochi infantili, in fondo, è una regola. Ma come può un’attività essere contemporaneamente libera e limitata da regole? La risposta è facile: giocare significa attenersi a delle regole, ma poiché scegliamo sempre liberamente di giocare, tali regole sono sempre non necessarie. Non c’è nessun reale obbligo che ci impone quelle regole, le seguiamo perché decidiamo di farlo.
Tra l’altro, la non-necessità delle regole di qualunque attività ludica spiega anche un’altra caratteristica meno importante ma comunque presente nell’elenco di Caillois, ovvero la natura fittizia del gioco. Tutte le attività di gioco sono fittizie, questo può sembrare ovvio per alcuni giochi — come ad esempio i giochi di ruolo o i videogame simulativi — meno per altri. Ma a ben vedere vale per tutte: perché quando giochiamo accettiamo un patto finzionale simile a quello che stabilisce la sospensione dell’incredulità richiesta da un’opera narrativa di finzione. Infatti, se leggendo un romanzo o guardando un film, seguiamo delle storie come se fossero vere anche se sappiamo che non lo sono, allo stesso modo giocando rispettiamo delle regole come se fosse necessario farlo, anche se non è così.
In estrema sintesi, dunque, una definizione abbastanza ampia da poter includere tutta la grandissima varietà di attività ludiche potrebbe essere questa: giocare significa svolgere un’attività incerta, libera e definita da regole che non sono necessarie.
Partendo da questa definizione si possono fare immediatamente un paio di considerazioni. Innanzitutto, che ho ignorato due delle sei caratteristiche elencate da Caillois, cioè che giocare sarebbe anche una attività separata e improduttiva. Le ho lasciate da parte per ora perché credo che siano caratteristiche proprie del gioco piuttosto che del giocare: più avanti cercherò di spiegare perché. Ma il punto più importante è che tale definizione si potrebbe applicare anche ad attività che non definiremmo giochi: anche tra le nostre occupazioni ‘serie’ ci sono tantissime attività regolate che svolgiamo volontariamente — nel senso che non c’è nessuna necessità in senso stretto che ci obbliga a farle -, che ci lasciano un margine di scelta al loro interno e il cui esito o sviluppo non è completamente conoscibile a priori.
Per semplicità chiamerò attività regolate tutte queste attività che hanno le caratteristiche fondamentali del giocare ma che non sono giochi, o per lo meno che tendiamo a non considerare tali. Ora, la mia teoria è che le attività regolate stanno ai giochi come la realtà visibile sta alle immagini. Per sostenere questa teoria voglio appoggiarmi a un libro: Strani strumenti di Alva Noë (2015).
Noë è un filosofo americano che si è occupato principalmente di questioni legate alla percezione e alla coscienza. Con Strani strumenti ha elaborato una sua personale teoria dell’arte. Nel libro non si parla mai di giochi, eppure trovo che la sua teoria si presti particolarmente bene per descrivere il rapporto tra giochi e attività regolate. Inoltre, se consideriamo la creazione di giochi una forma d’arte — e nel momento in cui ammettiamo che un gioco sia un oggetto culturale non c’è nessun motivo per cui non dovremmo farlo — allora siamo autorizzati ad applicarci sopra una teoria estetica.
Per spiegare cos’è l’arte, Noë parla di due livelli delle attività che compongono la nostra vita. Nel primo livello stanno tutte quelle che il filosofo chiama “attività organizzate”, intendendo tutte quelle attività che in qualche modo ‘ci organizzano’, cioè determinano la nostra natura diventando abitudini. “Guardare, leggere, camminare, parlare, ballare”, sono esempi di attività organizzate. Anche tutte quelle che io ho chiamato ‘attività regolate’ possono essere fatte rientrare tra le attività organizzate (Noë 2015, 17). Il secondo livello è, invece, quello dell’arte, che ha lo scopo di indagare consapevolmente le attività del primo livello.
Noë per spiegare meglio come funziona l’arte prende come esempio la coreografia. Ballare è una attività di primo livello, la coreografia, invece, è una attività artistica — quindi di secondo livello che “mette in scena” il ballare. Insomma:
“La coreografia ha a che fare con le modalità attraverso le quali siamo organizzati dal ballo. Ballare ci viene naturale, ed essere assorbiti in attività organizzate ci è connaturato […] Siamo ballerini inconsapevoli, e lo siamo per natura; la coreografia ci dà l’opportunità di riflettere su questo aspetto della nostra natura” (Noë 2015, 19).
Lo stesso discorso lo si può fare per le arti visive: vedere è un’attività che ci organizza su cui normalmente non riflettiamo. La creazione e la fruizione di un’immagine artistica comporta sempre una riflessione su quello che si vede, portando quindi consapevolezza su un’attività che normalmente è automatica.
In questo senso l’arte è sempre filosofica, perché finalizzata a indagare degli aspetti della natura umana, a farci conoscere parti di noi che altrimenti ci resterebbero nascoste, occultate dall’abitudine. L’arte è una sorta di cartografia: crea mappe delle attività organizzate. Ma le mappe servono per orientarci laddove altrimenti ci perderemmo. Le attività organizzate strutturano la nostra vita, ma siamo talmente assorbiti in esse che ci perdiamo al loro interno: agiamo per abitudine ma per lo più non abbiamo consapevolezza di come e perché lo facciamo. Arte e filosofia esistono per tentare di ritrovarsi dopo che ci si è persi, per questo l’arte può suscitare emozioni tanto intense.
Lo stesso fanno i giochi. Se l’attività di primo livello a cui fa riferimento la coreografia è il ballare e quella delle arti è il vedere, per i giochi sono quelle che ho definito approssimativamente ‘attività regolate’ e che costituiscono buona parte di quello che facciamo ogni giorno. Il gioco-artefatto, inteso come oggetto culturale, crea possibilità di riflettere consapevolmente sui nostri modi di agire.
Come lo fa? Secondo Noë, lo straniamento è il meccanismo base su cui si fonda la creazione artistica. Le attività organizzate usano certi strumenti (anche in senso lato) per i loro scopi: l’arte riprende quegli strumenti, li rimuove dai loro contesti, li priva dei loro scopi e in questo modo “li rende strani, e rendendoli strani porta allo scoperto ciò che era nascosto, le modalità e le striature del loro essere integrati. Un’opera d’arte è uno strano strumento, un attrezzo alieno” (Noë 2015, 37). Prendiamo di nuovo come esempio le immagini. Nella vita quotidiana le immagini non-artistiche sono strumenti con una funzione precisa: trasmettere informazioni visive che in un certo contesto hanno un certo scopo. L’immagine artistica, invece, è priva di un contesto e di uno scopo preciso: è uno strumento che non possiamo usare, per questo porta la nostra attenzione su come funziona.
Nei giochi ci troviamo ad agire in maniera sostanzialmente simile rispetto alle attività regolate della vita seria. Ugualmente, ci troviamo a compiere azioni e a prendere delle decisioni nei limiti di regole che abbiamo accettato. Solo che a differenza delle altre attività pratiche il gioco è — proprio come gli ‘strani strumenti’ artistici — isolato rispetto al contesto della vita quotidiana, in quanto è una attività separata, ed è privo di uno scopo esterno a sé stesso, ovverosia è improduttivo - e così abbiamo recuperato tutte le caratteristiche fondamentali individuate da Caillois.
Nelle occupazioni della vita le attività che facciamo vanno spesso a formare un groviglio confuso di intenzioni e automatismi, regole e scopi eterogenei e talvolta in conflitto; un groviglio nel quale è difficile raccapezzarsi — siamo persi in esso, direbbe Noë. I giochi, invece, all’interno del loro ‘cerchio magico’ che li separa dal resto della nostra vita, forniscono la possibilità di agire con una lucidità e una autoconsapevolezza che normalmente non è affatto scontata: ci permettono di porre maggiore attenzione su noi stessi come individui che agiscono liberamente.
Ma nel libro di Noë c’è un ulteriore grado di complessità: tra attività di primo e secondo livello il rapporto va in due sensi, creando una sorta di loop: l’arte ci fa capire come siamo organizzati dalle attività di primo livello e facendo questo ci dà la possibilità di ‘riorganizzarci’. In altre parole, le attività di secondo livello retroagiscono su quelle del primo. Possiamo così ritrovarci a ballare imitando delle mosse che abbiamo visto in una coreografia. O a guardare la realtà con lo stesso tipo di attenzione che abbiamo sviluppato contemplando dei dipinti.
Cosa succede se facessimo lo stesso per i giochi? Se iniziassimo a comportarci fuori dai giochi come se stessimo giocando? È una domanda a cui prova esplicitamente a rispondere la gamification, che consiste appunto nel portare elementi ludici in attività che non sono giochi. Ma la gamification è soltanto un espediente per rendere più gratificanti e invitanti attività che altrimenti non lo sarebbero, è un uso strumentale del valore dei giochi.
Applicare nella vita ciò che implicitamente apprendiamo giocando potrebbe significare molto di più. Ritornando alle caratteristiche essenziali delle attività ludiche, ripetiamo che giocare significa essere liberi e aperti all’inaspettato. Significa tenere presente che le regole che seguiamo sono non necessarie, quindi sempre suscettibili a essere rifiutate o rinegoziate.
Secondo James Carse, autore del bellissimo saggio Giochi finiti e infiniti (1987), la serietà è qualcosa che ha a che fare con la tendenza a seguire un “copione”, è dunque ciò che nega spazio alla libertà e all’incertezza tipica del giocare. Il contrario della serietà è appunto l’“inclinazione al gioco”, che è precisamente la piena accettazione di libertà e incertezza, l’apertura alla scelta e alla sorpresa. ‘Perderci’ nelle attività regolate che danno forma alla nostra vita ci conduce fatalmente a irrigidire la nostra vita nella serietà, cioè alla continua e automatica ripetizione di qualcosa che è più subìto che scelto, finendo per credere necessario ciò che non lo è davvero. ‘Ritrovarci’ giocando significa poter iniettare anche nella nostra quotidianità almeno un po’ della fluidità dell’inclinazione al gioco, capire che possiamo sempre rimettere in discussione le regole e aprirci a possibilità diverse e non programmabili a priori. In quest’ottica giocare significa prendere consapevolezza della propria libertà.
Fotografia di Greta Valente
Bibliografia
Caillois, R. [1958] 2017, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano
Carse, J. 1987, Giochi finiti e infiniti. La vita come gioco e possibilità, Mondadori, Milano
Noë, A. [2015] 2022, Strani strumenti. L’arte e la natura umana, Einaudi, Torino