“Vorrei chiedere alla guardia se c’è il sole in prigione.
Ma se poi mi risponde di no?”
Emmy Hennings
Prigione
Siamo abituati a pensare al carcere come a un’istituzione immutabile, che è sempre esistita e che per sempre esisterà, di cui perciò non possiamo fare a meno. L’abitudine di rinchiudere uomini e donne — poche, come vedremo poi – come punizione per aver commesso un reato è relativamente recente. Nel primo Medioevo venivano utilizzate prevalentemente le pene pecuniarie, gradualmente sostituite da pene corporali e dalla pena capitale (Rusche & Kirchheimer 1978). I luoghi per allontanare le persone dalla società esistevano, ma la loro funzione era più che altro preventiva, in attesa della definizione della colpevolezza. La privazione della libertà non era una sanzione di per sé, e per assistere a questo mutamento dobbiamo aspettare il 1600, quando la struttura sociale ed economica comincia a cambiare, e poveri e mendicanti iniziano a essere perseguiti per la loro ‘improduttività’ e disciplinati al lavoro all’interno di istituzioni chiuse. Nascono le houses of correction e le workhouses prima in Inghilterra e poi in Olanda (Melossi & Pavarini 1977). Il sistema è sembrato convincente, da lì ha iniziato a proliferare e da allora non ha mai smesso di crescere in quasi ogni parte del mondo.
Il pensiero illuminista si è scagliato contro la tortura e la pena di morte, in Occidente abbiamo assistito al progressivo abbandono delle punizioni corporali in favore di un’idea di pena più mite, rispettosa della dignità e dei diritti umani. A distanza di oltre due secoli possiamo dircelo: il carcere non è poi così utile, né insostituibile, come siamo portati a credere.
I sistemi penitenziari variano a seconda di geografie, culture e diritti penali diversi. Raccontare del carcere in Italia, per com’è oggi, può aiutarci ad aprire diversi filoni di ragionamento, partendo dai temi che più frequentemente vengono trattati dai media, parlando dei suoi abitanti e cercando di indagare quelle categorie che con sempre maggiore frequenza sono colpite dal sistema penale. Per poi provare a chiederci, alla fine, se forse non dovremmo assumerci anche noi un po’ di responsabilità in questa storia.
Sovraffollamento di corpi, frammentazione del tempo
Del carcere in Italia si dice spesso che è sovraffollato, si parla di numeri, si analizzano i grafici di incremento, si comparano le percentuali. La situazione attuale è la seguente: al 31 luglio 2025 erano detenute 62.569 persone a fronte di una capienza regolamentare di 51.300, anche se i posti veramente disponibili si aggirano intorno ai 45mila.
La differenza tra capienza regolamentare ed effettiva disponibilità è data dai posti che esistono sulla carta, ma che per qualche motivo possono essere inagibili per interventi di ristrutturazione, incendi, malfunzionamento degli impianti. Delle persone presenti, il 31,5% sono straniere, mentre le donne sono 2.712 e rappresentano il 4,3% dell’intera popolazione detenuta.
Il sovraffollamento è un tema ricorrente nel discorso pubblico quando si parla di carcere, e ciclicamente è uno dei più utilizzati dai media per parlare della vita nei penitenziari. Sentiamo ancora citare la sentenza Torreggiani, emessa nel 2013 dalla Corte Europea dei Diritti Umani, con la quale l’Italia è stata condannata per la violazione sistematica dell’art. 3 della Convenzione. La Torreggiani è stata una sentenza cosiddetta pilota, non ha cioè deciso in merito a un caso specifico – il ricorso del signor Mino Torreggiani e di altri sette compagni di detenzione, in questo caso – ma ha valutato che erano molte le persone sottoposte a trattamenti inumani e degradanti solo per il fatto di trovarsi all’interno di un istituto penitenziario, i cui spazi di agibilità nelle celle erano inferiori ai 3 metri quadri. È passato oltre un decennio e gli strumenti messi in atto allora per ridurre il numero delle presenze hanno smesso di produrre effetti, ci stiamo paurosamente riavvicinando alla soglia limite e nel frattempo, lungi dal mettere in atto provvedimenti deflattivi, il nostro codice penale si è gonfiato di nuovi reati e sono aumentate le pene per reati già esistenti.
Quando sentiamo parlare di sovraffollamento è scontato che ci vengano in mente gli spazi. Cosa vuol dire, in una stanza pensata per una persona, inserire altri due piani di letti a castello? A chi tocca in sorte il letto più in alto, ha spazio sufficiente tra la sua faccia e il soffitto? Cosa significa mangiare seduti sul letto, o fare a turno, perché non ci sono abbastanza sedie per tutti? E come dev’essere stare chiusi in dieci in una stanza dalle 18 alle 8 quando fuori fanno 40 gradi? E avere un solo bagno, senza nemmeno la doccia? E l’odore, chissà qual è l’odore che produce la somma di quei corpi.
Lo spazio è rilevante, non c’è dubbio, e anche quando hai la possibilità di vederlo, e riesci a provare a immaginarlo, se non lo vivi è molto difficile capirlo. Il tempo invece sì, a quello possiamo arrivarci anche se non lo proviamo sulla nostra pelle. A una crescita della popolazione detenuta non equivale un aumento dell’organico, quindi i funzionari giuridico pedagogici – un tempo chiamati educatori – devono seguire più fascicoli, stare dietro ai tempi dei tribunali, alle relazioni di sintesi, alle esigenze individuali. I medici devono visitare, prescrivere, monitorare, gli infermieri passare con il carrello della terapia, gli agenti di polizia penitenziaria devono aprire porte, cancelli, accompagnare, sorvegliare. Quando parliamo di sovraffollamento intendiamo un intero sistema in sofferenza, parliamo di tempi inesistenti per fare ciò che andrebbe fatto per ognuno, di visite mediche annullate per mancanza di scorta, di patologie che si aggravano, di istanze che non vengono inviate, di opportunità lavorative esterne che vengono perse. Parliamo del fatto che l’articolo 27 della Costituzione, quello in cui si dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, è carta straccia, perché quei percorsi rieducativi di cui si parla coinvolgono effettivamente una parte minima di tutte le persone che entrano nel sistema.
Il carcere non è solo corpi gli uni sopra gli altri, il carcere diventa lotta per accaparrarsi le poche risorse disponibili. Se perdi, diventi invisibile. Il carcere non ti vede, non fa nemmeno in tempo ad accorgersi che sei passato tra le sue braccia.
Allora può succedere che perdi la vita, muori per incuria o muori perché non ce la fai più.
I suicidi delle persone detenute sono uno degli altri grandi temi di cui sentiamo spesso parlare. Al 10 agosto 2025 i suicidi in carcere sono stati 53, nel corso del 2024 sono stati 91, il numero più alto da quando si è iniziato a registrarlo. È impossibile definire le motivazioni che stanno dietro a ognuno di questi gesti, quello che sappiamo però è che in carcere ci si toglie la vita tra le diciotto e le venti volte in più della media della popolazione libera. È un dato talmente enorme che, a prescindere dalla possibile scelta individuale, non si può sottacere la responsabilità dell’istituzione all’interno della quale questo fenomeno avviene con una così incredibile frequenza. Dei suicidi in carcere però sappiamo alcune cose: avvengono nei primi mesi di detenzione, ma anche all’approssimarsi del fine pena; accadono più spesso in istituti sovraffollati e all’interno di sezioni a regime chiuso; non c’è particolare differenza tra persone italiane e straniere; la condizione di fragilità sociale e di mancanza di reti esterne è estremamente rilevante. Guardando alle statistiche pubblicate dall’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale troviamo una tabella con le motivazioni dei suicidi. Tra una sfilza di campi che riportano la dicitura “non rilevato” accanto a età, data dell’evento, carcere di provenienza e nazionalità, ne troviamo tre che riportano una motivazione diversa: sconforto.
Un’altra domanda che dobbiamo farci allora è: ma chi sono queste persone che vivono in carcere?
Identikit degli abitanti
Un’altra idea ben radicata, che serve a legittimare l’istituzione penitenziaria e ad autoassolverci, è che il carcere sia pieno di mafiosi, pedofili, stupratori e assassini. Se tutte e tutti noi avessimo la possibilità di entrare e parlare con le persone detenute, ci renderemmo conto nello spazio di poche ore di quanto sia infondata questa nostra convinzione. Proviamo, quindi, a ragionare per categorie. Quasi 28mila persone sono in carcere per violazione del testo unico sugli stupefacenti, rappresentando uno dei maggiori motivi di ingresso in istituto penitenziario, reati spesso correlati a quelli contro il patrimonio e con uno stretto legame con l’utilizzo e l’abuso di sostanze. Nel 2023, le persone entrate in carcere con una dipendenza da sostanze sono state il 38% del totale e da anni, in media, il 30% delle persone detenute ha una dipendenza accertata. Un altro tema fondamentale riguarda la salute mentale. Uno studio del 2015 condotto in nove regioni italiane e che ha coinvolto 15mila persone detenute ha rilevato come le patologie legate alla salute mentale siano le più rappresentative tra tutte le patologie presenti all’interno degli istituti, con oltre il 40% di casi registrati. Del numero delle persone straniere abbiamo già detto, e le condizioni prima elencate si intrecciano con precarietà abitativa, economica e sociale, con vulnerabilità e mancanza di relazioni esterne.
Queste categorie non devono ovviamente essere sommate tra loro, l’intersezionalità è particolarmente presente in carcere, dove in una singola persona possono essere presenti varie condizioni, che intersecandosi rischiano di produrre ulteriore marginalizzazione e discriminazione. Non possiamo quindi non fare un focus sulle donne in carcere.
Il lato femminile della detenzione
Le donne in carcere rappresentano una parte estremamente residuale della popolazione detenuta, in un sistema che è principalmente pensato e gestito da uomini per uomini. Non c’è spazio per la differenza e per le diverse esigenze che una donna esprime all’interno dell’istituzione: necessità igieniche, di cura del corpo, una maggiore difficoltà di adattamento alla privazione della libertà. Le regole di Bangkok pubblicate nel 2010 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite forniscono delle indicazioni per il trattamento delle donne autrici di reato, ed evidenziano come “bisogna tener conto delle esigenze peculiari delle donne detenute” (The Bangkok Rules 2010, 4), chiedendo che vengano individuate il più possibile soluzioni alternative all’incarcerazione. Oltre allo stigma che accompagna chiunque entri in contatto con il carcere, e che spesso ne impedisce il reinserimento aumentando la recidiva, numerosi studi internazionali evidenziano come la commissione del crimine, nelle maggior parte delle donne, sia strettamente correlato con vissuti di violenza psicologica, fisica ed economica sperimentati nel corso della vita. La vittimizzazione fisica e sessuale non gioca un ruolo solo nei percorsi criminali, ma ha anche un evidente impatto sulla salute fisica e mentale, contribuendo all’emersione di comportamenti a rischio come l’utilizzo o l’abuso di sostanze e psicofarmaci. In Italia esistono pochi studi su questo, e nessuno a livello sistemico. La mancanza di dati e ricerche è un limite all’implementazione di soluzioni e programmi per sostenere i percorsi delle donne in esecuzione penale, che spesso a causa del loro vissuto si trovano a essere ancora più isolate e ad aderire con maggiore difficoltà alle attività proposte negli istituti penitenziari. Il nostro sistema penale ha la tendenza a leggere la specificità femminile in carcere solo attraverso il binomio donna-madre, contribuendo ad accrescere gli stereotipi e ad avere uno sguardo falsato sulla realtà della popolazione detenuta femminile. D’altronde, non si può ignorare come figlie e figli di persone in carcere – si stima circa 60mila in Italia – vivano gli effetti deleteri della detenzione dei propri genitori, avendo accesso solo a un’ora di colloquio e a dieci minuti di telefonata alla settimana. Vengono chiamate vittime dimenticate, l’impatto che l’incarcerazione di una figura di riferimento può avere sulla crescita di questi minori non è ancora stato sufficientemente indagato. In ultimo, non possiamo ignorare i bambini che possono essere detenuti fino ai tre anni di età insieme alle madri. Anche se questo fenomeno ha subito un notevole calo negli ultimi anni, passando da una media di sessanta donne con bambini fino alle quattordici del 31 luglio 2025, risulta incomprensibile come ancora oggi non si riescano a trovare soluzioni alternative per collocare minori che vivono una fase così delicata del proprio sviluppo circondati da sbarre, cancelli e divise.
Pensare di poterne fare a meno
Come dice Gwénola Ricordeau — sociologa militante femminista e abolizionista penale — la predominante detenzione maschile impatta comunque sulle donne in quanto madri, mogli e compagne di uomini in carcere, verso i quali sussistono compiti di cura, spesso molto gravosi. C’è da chiedersi allora, in un sistema che imprigiona prevalentemente le fasce più deboli della popolazione, se non sia possibile immaginare altri sistemi per occuparsi di quelle che sembrano più questioni sociali, che problemi criminali. Utilizzare la carta della repressione per affrontare la marginalità ha sicuramente un forte impatto nel breve periodo, soprattutto dal punto di vista del consenso raccolto dalla classe politica quando, di fronte a un problema, si emanano decreti che aumentano a dismisura reati e pene. La falsa sensazione di sicurezza che deriva da questi provvedimenti ha sicuramente una ricaduta sulla percezione pubblica, ma siamo troppo poco abituati a chiederci quanto questi siano veramente efficaci. Il carcere come “discarica sociale” (Margara 2015, 10), inteso come il luogo in cui confiniamo tutti coloro che non vogliamo avere intorno, perché ci disturbano e ci fanno paura, ci dà solo l’illusione di essere fuori pericolo. Le persone che finiscono in carcere tornano nel mondo, in mezzo a noi, e basta evocare il 68,5% di probabilità di recidiva per renderci conto che nella maggior parte dei casi il transito dentro un penitenziario non fa altro che restituirci uomini e donne che non hanno avuto la possibilità di effettuare un reale percorso di rieducazione. Non possiamo più accontentarci di gettare via gli esseri umani ‘indesiderati’ solo perché non abbiamo la forza di pretendere garanzia sociali, rispetto dei diritti umani e protezione delle fragilità.
Guardare il carcere da vicino serve a questo, a constatare quanto la carenza di servizi, risorse e opportunità fuori crei quel microcosmo di esclusione che troviamo dentro. Sta tutta qui la nostra responsabilità, quella di pretendere che non si adottino le soluzioni più facili – che reprimono, escludono, distruggono vite – ma che si lavori affinché si arrivi a un sempre più equo accesso alle risorse e alle opportunità. Se lo sappiamo guardare, il carcere ci mostra distintamente cosa non funziona nelle nostre società. Ed è per questo che riguarda tutte e tutti noi.
Nota a margine.
I dati citati con riferimento temporale — ad esempio la media di sessanta donne con bambini fino alle quattordici del 31 luglio 2025 — sono presi dalla sezione statistica del Ministero della Giustizia.
Fotografia di Federica Cocciro
Bibliografia
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Conti, I., Serio, M., Turrini, R. Osservatorio penitenziario (GNPL). Focus suicidi e decessi in carcere anno 2024:
Leonardi, F. 2007. Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, rivista Numero 2:
https://rassegnapenitenziaria.giustizia.it/raspenitenziaria/cmsresources/cms/documents/4825.pdf .
Margara, A. 2015. La giustizia e il senso di umanità, antologia di scritti, Corleone F. (a cura di), Fondazione Michelucci Press:
https://www.michelucci.it/wp-content/uploads/2016/07/Margara-scritti2015‑p.pdf
Melossi, D., Pavarini, M. 1977. Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Il Mulino, Bologna.
Ricordeau, G. 2022. Per tutte quante. Donne contro la prigione, Armando editore, Roma.
Rusche, G., Kirchheimer, O. 1978. Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna.
Sitografia
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https://www.rapportoantigone.it/ventunesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/focus-suicidi/
Ministero della giustizia, Statistica: https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/statistiche
Taccardi, C. 2022. Note ai margini dei rapporti tra detenzione femminile e pregressa vittimizzazione, anno XVII, n.2, Antigone : https://www.antigone.it/upload/Note_ai_margini…_detenzione_femminile_e_pregressa_vittimizzazione.pdf.
United Nation Office on Drugs and Crime. 2010. The Bangkok Rules: https://www.unodc.org/documents/justice-and-prison-reform/Bangkok_Rules_ENG_22032015.pdf .
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http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/
https://www.ars.toscana.it/files/pubblicazioni/Volumi/2015/carcere_2015_definitivo.pdf