Chiedere alla Francia l’estradizione dai latitanti era, per lo Stato, un diritto e forse un dovere politico. Chiamarlo atto di vendetta è puro e obsoleto linguaggio ideologico. Era un atto dovuto ma, alla luce dei precedenti, il rigetto dei giudici francesi era abbastanza scontato.
Le autorità francesi vedono quello che è successo in quegli anni in Italia, in particolare nelle aule di giustizia, molto da lontano, come attraverso un binocolo rovesciato.
Dire ad esempio che l’estradizione avrebbe creato problemi familiari a coloro che sono latitanti, per scelta, anche da quarant’anni, significa svilire completamente i ben più gravi — chiamiamoli con un eufemismo — “problemi”, che hanno vissuto i familiari delle vittime. Quello che si legge in quelle sentenze è frutto di un atteggiamento davvero ipocrita e tartufesco, per usare un termine francese.
Solo su questa base minima si può cominciare una discussione seria. Purtroppo, in questi giorni [N.d.R. l’autore fa riferimento alla fine di marzo 2023, quando i giudici della Corte costituzionale francese negarono l’estradizione in Italia dei dieci ex terroristi, brigatisti, condannati in via definitiva], come in passato, il dibattito si è fermato a livello politico-ideologico, è rimasto a livello del tutto astratto e nessuno ha avuto voglia di andare a vedere come quei processi siano stati celebrati.
Vale la pena di rievocarli.
Delle dieci persone di cui si chiedeva l’estradizione cinque sono lombarde, giudicate a Milano. E conosco bene quei processi celebrati nel capoluogo lombardo negli anni ‘80. Presiedevano i cosiddetti maxi processi nelle aule bunker delle Corti di Assise magistrati assolutamente indipendenti e lontani da qualsiasi forma di rancore. Ricordo il presidente, Antonino Cusumano, e mi permetto di ricordare tra gli altri anche mio padre, il presidente Angelo Salvini. Io intanto iniziavo a lavorare come Giudice Istruttore e quindi avevo un altro punto di osservazione privilegiato di quella stagione giudiziaria. Non è affatto vero che quelli fossero processi speciali, è una vera menzogna che tra l’altro offende i magistrati che hanno presieduto le Corti, e tutti i loro colleghi, che hanno giudicato sempre secondo coscienza e con una certa dose di coraggio, perché le misure di protezione erano minime.
Non vi è mai stato nessun atteggiamento di rancore anche se — ricordiamolo — appena prima di quei processi due magistrati milanesi conosciuti e stimati da tutti, Emilio Alessandrini e Guido Galli, erano stati vilmente assassinati. E che contro altri magistrati inquirenti, ricordo fra tutti Armando Spataro, erano stati progettati attentati omicidiari che solo per un caso non erano andati a buon fine.
Basterebbe leggere gli atti, ma ricordo bene anche le udienze a cui ho assistito, per rendersi conto che anche a quegli imputati, come a tutti, erano garantiti pienamente il diritto di difesa e una corretta valutazione delle prove. Non erano processi di guerra. I difensori, sarebbe bello che qualcuno pubblicasse i verbali di qualcuna di quelle udienze, hanno sempre avuto in pienezza la facoltà di interrogare i testimoni, di contestare le prove a carico e di svolgere, anche in modo acceso, come è un diritto — ricordo tra loro Giuliano Spazzali — le loro argomentazioni in contraddittorio. Tutti, anche quei difensori di “area” che erano molto vicini al mondo dei loro assistiti. E anche gli altri processi, quelli celebrati a Torino e a Roma ad esempio, si sono svolti nello stesso modo.
Certo il clima, soprattutto nei processi di primo grado, era molto teso. In aula dalle gabbie spesso risuonavano slogan; non dico che il clima fosse idilliaco e che ad esempio da parte dei magistrati dell’accusa non vi siano state durezze.
Ma abbastanza presto era divenuto un po’ un gioco delle parti e già nei processi di appello lo scontro si era molto attenuato man mano che la lotta armata andava esaurendosi con il fallimento dei suoi progetti.
Credo che gli imputati si fossero resi benissimo conto, anche senza ammetterlo, che dinanzi a loro non avevano dei nemici o dei servi di un imprecisato sistema ma magistrati che svolgevano il loro lavoro cercando di capire e rispettando i diritti degli imputati. Anche quando questi, non dimentichiamolo, oggi nessuno lo dice, rifiutavano gli avvocati e la difesa. Il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, Fulvio Croce, che nel processo alle BR aveva assunto la difesa di ufficio perché per un avvocato quello era un dovere, come per un medico curare un malato, fu per questo assassinato sotto casa.
Voglio ricordare poi che nel carcere di Bergamo, a metà degli anni ’80, precisamente il 15 marzo 1986, vi fu un evento straordinario. Era il carcere in cui era detenuta la maggior parte dei terroristi che si erano avviati, dopo una riflessione collettiva, sul percorso della dissociazione. C’erano ad esempio gli ex capi di Prima Linea, tutti con molti omicidi alle spalle.
Ebbene su questo tema si tenne un incontro comune tra magistrati e detenuti, presenti anche esponenti politici, il Direttore generale degli istituti di pena e i cappellani del carcere, che si trovarono a discutere insieme non in un’aula bunker ma nella palestra del carcere di via Gleno, ove tra l’altro operavano un magistrato di sorveglianza, come il dottor Zappa e un direttore, il dottor Porcino, molto sensibili all’importanza dei percorsi di recupero e di uscita dalla violenza.
Ero presente, allora molto giovane, fu un momento anche emozionante perché per la prima volta non eravamo divisi dalle sbarre e di fatto da quel convegno uscì la legge sulla dissociazione del febbraio 1987.
Le autorità francesi dovrebbero sforzarsi di capire di più e usare meno spocchia nei loro provvedimenti. Non so con precisione come si siano svolti i processi politici all’epoca in Francia ma ho l’impressione che fossero assai meno garantiti dei nostri.
In qualche modo “speciali” semmai in Italia all’epoca non erano i processi ma le pene che non dipendevano dalle Corti ma dalla volontà del legislatore perché l’art. 1 del Decreto-Legge 625\1979, e cioè l’aggravante della finalità di terrorismo, le aveva notevolmente elevate.
Tuttavia gli anni irrogati si sono stemperati abbastanza rapidamente, sia grazie all’attenuante della dissociazione sia grazie ai benefici penitenziari come i permessi, il lavoro esterno e la semilibertà, concessi da Magistrati di sorveglianza illuminati a coloro che di fatto non erano più pericolosi. Alla fine dopo aver scontato un numero di anni di carcere non molto elevato, addirittura in proporzione inferiore a quello che scontavano talvolta i detenuti comuni per reati analoghi, tutti sono usciti e ritornati alla vita civile. Basterebbe fare i conti. Degli ex-terroristi in carcere — ad oggi sono pochissimi — vi è rimasto solo chi l’ha voluto.
Questa lettura politico-giudiziaria certo non esaurisce un problema che ciclicamente si ripresenta.
C’è un piano etico, umano e psicologico da non dimenticare e che può farci intravedere, siamo nel campo della simulazione, altri scenari.
Proviamo ad immaginare che la Francia conceda l’estradizione, e che forse qualcuno degli anziani latitanti anche la accetti, e che forse prima di morire voglia anche rivedere il suo paese. Scendono dalla scaletta dell’aereo tra due Carabinieri. Questo è il momento simbolico, che rappresenta una catarsi psicologica. La fuga è finita, la partita è persa, devono sottomettersi alle sentenze emesse in nome del popolo italiano. È il kairos, l’attimo speciale dei greci che cambia ogni cosa.
Poi sarebbero davanti al Magistrato di sorveglianza. Chi non lo ha mai fatto potrebbe confessare le proprie responsabilità, anche solo le proprie, per offrire alla fine una verità riparatoria alle famiglie delle vittime e alla Storia. Sarebbe poi facile avere conferma che nessuna di queste persone è più pericolosa, che non potrebbe comunque tornare ad uccidere.
A questo punto non ci sarebbe più nemmeno bisogno del carcere. Potrebbero uscire grazie a benefici, ragionando sempre per immagini, anche dopo solo un pezzetto di pena e così tornare alla loro vita, alla famiglia, al lavoro, più probabilmente alla pensione.
Non credo nemmeno che tutti i parenti delle vittime, avuta soddisfazione sul piano di principio e simbolico, abbiano il desiderio e l’interesse a vedere persone di 70 anni finire i loro giorni in carcere.
Viene in mente, con le debite differenze, quella fotografia apparsa su molti giornali in cui, mentre in un paese mediorientale un condannato sta per essere impiccato, si avvicina la madre della vittima e gli dà uno schiaffo sul viso. Non per un gesto di disprezzo negli ultimi momenti di vita ma perché ciò simbolicamente significa che lo ha perdonato. E all’ultimo momento, infatti, il condannato è stato graziato.
Questa è stata una scena reale. Quella che abbiamo descritto forse è solo una simulazione letteraria.
Ma se accadesse questa storia immaginata allora la partita sarebbe veramente chiusa. E si potrebbe voltare davvero l’ultima pagina e chiudere il libro.
Fotografia di Daria Lazo (@_darialazo_)