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Giugno
14 Giugno 2023

FEM­MI­NI­LI­TÀ CURAN­TE

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In que­sto momen­to del­la mia vita mi tro­vo a pochi chi­lo­me­tri da Roma, in una pic­co­la fra­zio­ne sul mare, tra la Pon­ti­na e la lito­ra­nea che por­ta ver­so Ostia. Vivo qui, ho affit­ta­to una caset­ta con un pez­zet­to di giar­di­no, dove sono pian­ta­ti alcu­ni albe­ri da frut­to, accan­to ai qua­li que­st’an­no ho deci­so di semi­na­re zuc­chi­ne e bie­te. Al mare ci arri­vo con pochi minu­ti di cam­mi­na­ta, pas­san­do accan­to ad un cana­let­to di acque irri­gue che sboc­ca sul­la spiag­gia, cir­con­da­to da can­ne­ti, pini marit­ti­mi e una costel­la­zio­ne di pian­te spon­ta­nee pro­fu­ma­te. Cen­ti­na­ia di occhi mi guar­da­no dal­l’al­to e altri nasco­sti tra i rovi alla mia destra, men­tre seguo il per­cor­so, tra i suo­ni di quel­la che con una cer­ta distan­za abbia­mo comin­cia­to a chia­ma­re “natu­ra”, con­si­de­ran­do­ci “altro” da lei.



In que­sti posti si dovreb­be ral­len­ta­re il pas­so, ma nel far­lo mi accor­go guar­dan­do in bas­so che qual­cu­no pri­ma di me è pas­sa­to, for­se con una sua impron­ta, spes­so con le feci del suo cane, oppu­re con la con­fe­zio­ne in pla­sti­ca di una meren­di­na. Come sto­na la paro­la pla­sti­ca su que­sto sen­tie­ro, come sto­na­no le abi­tu­di­ni di chi pas­sa tan­to per pas­sa­re da qui, una pre­sen­za distur­ban­te per chi inve­ce sen­te di voler­ci pas­sa­re per un moti­vo che non è solo ten­ta­ti­vo di rag­giun­ge­re il mare ma ten­ta­ti­vo di far­si pre­sen­za in quel sen­tie­ro, di far­ne par­te coi pro­pri occhi, assie­me a tut­ti gli altri occhi.
È stra­no come sia sem­pli­ce, al gior­no d’og­gi, per­de­re la poe­sia per stra­da.

E così tra me e il mare, la mac­chia medi­ter­ra­nea vie­ne vio­len­ta­ta dal­la sta­ta­le che tra­fig­ge l’o­riz­zon­te. Le auto­mo­bi­li non sono sta­te inven­ta­te per anda­re len­ta­men­te, ma per anda­re velo­ci e quin­di i loro pro­prie­ta­ri acce­le­ra­no sul­la sta­ta­le che cor­re paral­le­la alla linea del mare. Atten­do fin­ché non ne pas­sa­no più per anda­re oltre e rag­giun­ge­re le dune, bel­lis­si­me e soli­ta­rie, dipin­te sul­lo sfon­do di una luce che oggi è lim­pi­da e fred­da. Il pas­so si fa più pesan­te nel­la sab­bia, come se sia giu­sto fati­ca­re anco­ra un po’ pri­ma di rag­giun­ge­re il pun­to miglio­re per osser­va­re il mare. Mi ritro­vo ad evi­ta­re coi pie­di le car­tac­ce spar­se sul sen­tie­ri­no: pla­sti­ca, allu­mi­nio, fer­ro. Poi rag­giun­go la spiag­gia, l’az­zur­ro inten­so e vario­pin­to di quel mar­mo d’ac­qua, mos­so dal­l’an­di­ri­vie­ni sul­la sab­bia che vie­ne distur­ba­to anco­ra una vol­ta da graf­fi di rifiu­ti, sta­vol­ta for­se riget­ta­ti dal­l’ac­qua duran­te la marea not­tur­na.



Non sia­mo più natu­ra. Tut­ta que­sta bel­lez­za, che un tem­po era­va­mo anche noi, oggi è “altro” da noi. Sia­mo spa­de che tra­fig­go­no ogni cosa buo­na e giu­sta, sia­mo diven­ta­ti i macel­lai del nostro pae­sag­gio, abbia­mo pre­so le sem­bian­ze di mostri distrut­ti­vi, capa­ci di disper­de­re e bru­cia­re ogni ver­so di poe­sia che que­sta bel­lez­za davan­ti a noi reci­ta ogni gior­no e ogni not­te, sia­mo i cac­cia­to­ri di noi stes­si e non so anco­ra se ce ne ren­dia­mo con­to.
È for­se una que­stio­ne di con­sa­pe­vo­lez­za, di edu­ca­zio­ne, di ragio­na­men­to, di cul­tu­ra?
Mil­le pagi­ne potrem­mo scri­ve­re sul­le ragio­ni di que­sta pul­sio­ne che spin­ge la nostra civil­tà a rom­pe­re il piat­to nel qua­le sta man­gian­do e a bru­cia­re il pro­prio viva­io. Eppu­re in que­sto momen­to non rie­sco a inda­gar­ne le ragio­ni, mi sof­fer­mo ad osser­va­re il sol fat­to che que­sto col­pi­sce anche me e mi riguar­da da vici­no, nel­la quo­ti­dia­ni­tà che que­sta non-civil­tà mi obbli­ga a vive­re. Si trat­ta in fin dei con­ti di non-edu­ca­zio­ne, di non-cura, si trat­ta di con­ti­nue nega­zio­ni di ciò che l’u­ma­ni­tà è sta­ta in gra­do di fare per mil­len­ni e che noi, nel giro di pochi decen­ni, abbia­mo disper­so come spo­re ste­ri­li.

In un docu­men­ta­rio di Vit­to­rio de Seta del 1993 inti­to­la­to In Cala­bria, si descri­ve un aned­do­to che mi ha col­pi­to. Un uomo face­va il mestie­re del car­bo­na­io e sce­glie­va con cura gli albe­ri del bosco da poter taglia­re per pro­dur­ne car­bo­ne, affin­ché quel­la risor­sa che gli dava lavo­ro non andas­se per­sa con una sovrap­pro­du­zio­ne, ma aves­se il tem­po di rin­no­var­si di anno in anno, garan­ten­do a sé stes­so la pro­se­cu­zio­ne di quel mestie­re negli anni a veni­re e una rige­ne­ra­zio­ne con­trol­la­ta e natu­ra­le del bosco. Cos’e­ra quel­lo se non un lega­me “spi­ri­tua­le” con il luo­go, un obbli­go qua­si “reli­gio­so” nei con­fron­ti del pae­sag­gio? Come scri­ve Umber­to Galim­ber­ti nel suo Pae­sag­gi del­l’A­ni­ma «l’uo­mo ha sem­pre cer­ca­to di libe­rar­si con l’au­si­lio del­le reli­gio­ni che, pre­scri­ven­do riti e ritua­li, han­no sem­pre garan­ti­to quel­l’or­di­ne ele­men­ta­re sen­za il qua­le non si dan­no rego­la comu­ni­ta­ria, leg­gi­bi­li­tà dei com­por­ta­men­ti indi­vi­dua­li e quel­la quie­te inte­rio­re di chi sa di esser­si atte­nu­to alla nor­ma e di aver evi­ta­to la tra­sgres­sio­ne» . Faci­le a dir­si ora “non c’è più reli­gio­ne” ed è quel­lo che sen­to io, pur essen­do cre­sciu­to nel­la cul­tu­ra del­l’a­tei­smo per scel­ta, misto alla con­fes­sio­ne cat­to­li­ca per cul­tu­ra fami­lia­re. Sem­bra di aver per­so il sacro in tut­to ciò che ci cir­con­da, non tan­to quel ‘sacro sacer­do­ta­le’ deci­so dagli uomi­ni del­la civil­tà maschi­le, ma quel sacro che for­se è più ricon­du­ci­bi­le ad una enti­tà fem­mi­ni­le: la cura. La don­na man­tie­ne, quel sen­so di giu­sti­zia che è pace e non quel sen­so di giu­sti­zia mera­men­te maschi­le che è giu­sti­zia del­le leg­gi. Cre­do che la pri­ma sia il sen­so di giu­sti­zia pri­ma­ria che può ori­gi­na­re la secon­da, una giu­sti­zia fem­mi­ni­le che può gene­ra­re una giu­sti­zia maschi­le e qua­si mai vice­ver­sa.

Le leg­gi, lo Sta­to, i rego­la­men­ti e le buo­ne con­dot­te sono ele­men­ti sca­tu­ri­ti dal­la volon­tà del­l’uo­mo, men­tre alla don­na è sta­ta dele­ga­ta la cura di tut­to ciò che non è socia­le, non è col­let­ti­vo. Con que­sta esclu­sio­ne del fem­mi­ni­le dal­la nostra civil­tà abbia­mo anche allon­ta­na­to il sacro, la gen­ti­lez­za, l’e­du­ca­zio­ne e, pri­ma di tut­te, la cura. Ed essen­do la cura tipi­ca del­l’u­ni­ver­so fem­mi­ni­le, abbia­mo fini­to per rele­gar­la ad un sem­pli­ce aspet­to pri­va­to e non col­let­ti­vo, ad un uni­ver­so indi­vi­dua­le e non socia­le. L’e­pi­me­leia pla­to­ni­ca come “cura del­l’a­ni­ma”, non tan­to in sen­so “reli­gio­so osser­van­te” quan­to in quel­lo mora­le, è sta­ta ripo­sta in un cas­set­to e dimen­ti­ca­ta, così la poli­ti­ca non ha mai comin­cia­to ad occu­par­si di cura pri­ma che del rispet­to del­le rego­le. E il risul­ta­to, ora, è sot­to i nostri occhi su que­sto sen­tie­ro che guar­da il mare. Non abbia­mo cura di ciò che ci cir­con­da per­ché, nel pro­fon­do, non abbia­mo cura del­la nostra ani­ma.

In un semi­na­rio che ho segui­to, Lui­gi­na Mor­ta­ri – autri­ce di mol­ti lavo­ri filo­so­fi­ci e didat­ti­ci sul­la cura, fra i qua­li il recen­te La pra­ti­ca del­l’a­ver cura, Pear­son, 2022

ha rac­con­ta­to di un suo ami­co che si è doman­da­to il moti­vo per cui il mini­ste­ro che si occu­pa del­le scuo­le si chia­mas­se Mini­ste­ro del­l’I­stru­zio­ne e se non fos­se meglio chia­mar­lo Mini­ste­ro del­l’E­du­ca­zio­ne. Istrui­re è diver­so che edu­ca­re: la pri­ma paro­la è sem­pli­ce­men­te un “dare e ave­re” di nozio­ni, la secon­da ha un signi­fi­ca­to più pro­fon­do, che deri­va dal­l’ac­ce­zio­ne lati­na del ter­mi­ne, che è alle­va­re, nutri­re, pren­der­si cura. È più sem­pli­ce istrui­re che edu­ca­re e io sen­to che la nostra civil­tà oggi ha più neces­si­tà di edu­ca­zio­ne oltre che di istru­zio­ne, ha il biso­gno di una fem­mi­ni­li­tà curan­te che esca dal­l’in­di­vi­dua­li­tà alla qua­le è sta­ta con­fi­na­ta per rom­pe­re gli argi­ni e river­sar­si nel­la socie­tà, per alle­var­la, nutrir­la, gua­rir­la.

Note:

  1. Galim­ber­ti, Pae­sag­gi del­l’a­ni­ma, Fel­tri­nel­li 2019, p. 301

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