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Agosto
19 Agosto 2024

DEMO­CRA­ZIA, ORGA­NIZ­ZA­ZIO­NE MER­CA­TO DEL LAVO­RO. PER UNA RILET­TU­RA DEL­LA FLES­SI­BI­LI­TÀ

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  1. Intro­du­zio­ne

 

Il seguen­te lavo­ro è un ten­ta­ti­vo di sin­te­si dei pro­ces­si di tra­sfor­ma­zio­ne che han­no carat­te­riz­za­to l’organizzazione e il mer­ca­to del lavo­ro nel siste­ma capi­ta­li­sti­co. Con­sa­pe­vo­li del­la com­ples­si­tà del nostro obiet­ti­vo, ridur­re­mo il nostro inte­res­se ai model­li d’impresa che emer­se­ro tra gli anni Ses­san­ta e Novan­ta, perio­do in cui si rea­liz­za il pas­sag­gio dall’impostazione tay­lo­ri­sta del lavo­ro a quel­la tipi­ca dell’impresa fles­si­bi­le. Con­si­de­ra­re que­sto arco tem­po­ra­le ci per­met­te­rà di con­fron­tar­ci con il tema del­la fles­si­bi­li­tà. A tal pro­po­si­to, la nostra ana­li­si segue due dire­zio­ni.

La pri­ma è, per l’appunto, un’analisi cri­ti­ca dei pro­ces­si di cam­bia­men­to che si arti­co­la­no nel mon­do del lavo­ro fino agli anni Novan­ta. Cer­che­re­mo di descri­ve­re le cau­se che pro­du­co­no un’evoluzione del mer­ca­to del lavo­ro, nel ten­ta­ti­vo di con­te­stua­liz­zar­le in un appa­ra­to teo­ri­co capa­ce di sot­to­li­nea­re la fun­zio­ne di tali cam­bia­men­ti.

Nel­la secon­da par­te del nostro lavo­ro pre­sen­te­re­mo l’idea di “impre­se diret­te auto­no­ma­men­te dai lavo­ra­to­ri”, pro­po­sta da Richard Wol­ff in Demo­cra­cy at Work: A Cure for Capi­ta­li­sm (2012).

A con­clu­sio­ne dell’analisi del pen­sie­ro dell’economista mar­xia­no, cer­che­re­mo di fare dia­lo­ga­re Richard Wol­ff con Erik Olin Wright. Con­fron­tan­do l’idea di logi­ca inter­sti­zia­le con quel­la di “impre­se diret­te auto­no­ma­men­te dai lavo­ra­to­ri” ten­te­re­mo di sot­to­li­nea­re come la fles­si­bi­li­tà pos­sa rap­pre­sen­ta­re uno stru­men­to di eman­ci­pa­zio­ne, ma solo se inscrit­ta all’interno di una sovra-strut­tu­ra che non è più rifles­so del­la strut­tu­ra capi­ta­li­sti­ca.

  1. Dal tay­lo­ri­smo all’impresa fles­si­bi­le

Ragio­na­re intor­no alle cau­se che han­no con­tri­bui­to alla nasci­ta del para­dig­ma del­la fles­si­bi­li­tà è un obiet­ti­vo com­ples­so. È neces­sa­rio per que­sto indi­vi­dua­re un cor­po teo­ri­co capa­ce di gui­da­re il nostro sguar­do in manie­ra fun­zio­na­le al nostro obiet­ti­vo. Il nuo­vo spi­ri­to del capi­ta­li­smo (1999), scrit­to da Luc Bol­tan­ski ed Ève Chia­pel­lo, si dimo­stra un vali­do sup­por­to all’argomentazione che arti­co­le­re­mo in que­sta par­te del lavo­ro.

Inte­res­san­te è l’approccio adot­ta­to dai due socio­lo­gi fran­ce­si nel pri­mo capi­to­lo. La let­tu­ra dell’evoluzione dei rap­por­ti di pote­re e del­le gerar­chie inter­ne alle impre­se vie­ne con­dot­ta attra­ver­so un’analisi qua­li­ta­ti­va dei testi di mana­ge­ment degli anni Ses­san­ta e Novan­ta.  Come spie­ga­no i due auto­ri:

“La let­te­ra­tu­ra di mana­ge­ment, in quan­to let­te­ra­tu­ra pub­bli­ca fina­liz­za­ta a susci­ta­re l’adesione ai pre­cet­ti espo­sti e l’impegno di un gran nume­ro di atto­ri — in pri­mo luo­go dei qua­dri, il cui zelo e la cui con­vin­zio­ne sono deter­mi­nan­ti per il buon fun­zio­na­men­to del­le impre­se -, non può esse­re orien­ta­ta uni­ca­men­te ver­so la ricer­ca del pro­fit­to. Deve anche giu­sti­fi­ca­re le moda­li­tà con cui vie­ne otte­nu­to, deve for­ni­re ai qua­dri argo­men­ti per poter resi­ste­re alle cri­ti­che che cer­ta­men­te si leve­ran­no se cer­ca­no di met­te­re in pra­ti­ca i sug­ge­ri­men­ti dispen­sa­ti e per sod­di­sfa­re le ine­vi­ta­bi­li esi­gen­ze di giu­sti­fi­ca­zio­ne di fron­te ai loro subor­di­na­ti e nel­le altre are­ne socia­li a cui par­te­ci­pa­no” (Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, 2011: 112)

Que­sto pas­sag­gio è uti­le tan­to a Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, per sup­por­ta­re la loro argo­men­ta­zio­ne, quan­to lo è per noi, per sot­to­li­nea­re la rile­van­za del loro pen­sie­ro, al fine di com­pren­de­re i mec­ca­ni­smi di ripro­du­zio­ne del siste­ma capi­ta­li­sti­co. L’idea è che il capi­ta­li­smo si ripro­du­ca assor­ben­do la cri­ti­ca ad esso rivol­ta e decli­nan­do la pro­pria strut­tu­ra in nuo­ve for­me.

I testi di mana­ge­ment degli anni Ses­san­ta, ad esem­pio, sono for­te­men­te cri­ti­ci rispet­to al model­lo di impre­sa ege­mo­ne fino a quel momen­to. Si trat­ta dell’impresa di matri­ce tay­lo­ri­sta che è carat­te­riz­za­ta, secon­do gli auto­ri, da una rigi­da gerar­chia in cui l’accesso ai ruo­li api­ca­li è limi­ta­to ai vin­co­li di paren­te­la. La rigi­di­tà strut­tu­ra­le dell’impresa tay­lo­ri­sta ini­zia a esse­re limi­tan­te per gli inte­res­si di una del­le sue com­po­nen­ti essen­zia­li, i qua­dri[1]. Le riven­di­ca­zio­ni di auto­no­mia deci­sio­na­le dei qua­dri e la loro visio­ne di moder­ni­tà sono, in que­gli anni, uno dei temi cen­tra­li del­la let­te­ra­tu­ra del mana­ge­ment indu­stria­le. Quest’ultima rivol­ge la pro­pria cri­ti­ca sia alla dimen­sio­ne macro, sia alla dimen­sio­ne micro dell’organizzazione indu­stria­le.

Rispet­to agli aspet­ti macro, si col­lo­ca­no al cen­tro del dibat­ti­to la dimen­sio­ni del­la sca­la pro­dut­ti­va e la rigi­da buro­cra­zia che ne deter­mi­na gli equi­li­bri. Inte­res­san­te è il fat­to che que­sti due aspet­ti non venis­se­ro cri­ti­ca­ti da una pro­spet­ti­va mera­men­te eco­no­mi­ca, ad esem­pio sot­to­li­nean­do la pro­gres­si­va satu­ra­zio­ne del­la doman­da che si sta­va gene­ran­do all’epoca, ben­sì in ragion del fat­to che rap­pre­sen­ta­va­no una minac­cia per i valo­ri del­la demo­cra­zia occi­den­ta­le. Para­dos­sal­men­te, anche il tes­su­to dell’economia sovie­ti­ca era carat­te­riz­za­to dal­la pre­sen­za di impre­se di gran­di dimen­sio­ni e strut­tu­ra­te su gerar­chie buro­cra­tiz­za­te. In que­sta pro­spet­ti­va pos­sia­mo inten­de­re la cri­ti­ca rivol­ta al model­lo di impre­sa tay­lo­ri­sta come il pro­dot­to di un disal­li­nea­men­to tra sovra-strut­tu­ra e strut­tu­ra.

Per com­pren­de­re come l’economia capi­ta­li­sti­ca, la strut­tu­ra, emer­ga vin­cen­te dal con­flit­to che instau­ra con la sovra­strut­tu­ra, dob­bia­mo con­cen­trar­ci sul pia­no micro del­la cri­ti­ca.

La dimen­sio­ne inter­na alle impre­se, a par­ti­re dagli anni Ses­san­ta, è il rifles­so dell’incorporazione dei valo­ri di tra­spa­ren­za e di ugua­glian­za. Que­sti valo­ri, oltre a con­trap­por­si a quel­li del­la socie­tà socia­li­sta, entra­va­no in con­flit­to con i prin­ci­pi che carat­te­riz­za­va­no le socie­tà euro­pee in que­gli anni. Padro­na­to, nepo­ti­smo e cen­tra­li­smo buro­cra­tiz­za­to diven­go­no le con­di­zio­ni da supe­ra­re per rea­liz­za­re un nuo­vo model­lo d’impresa. Quest’ultimo, come sot­to­li­nea­no Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, mostra due aspet­ti cen­tra­li: nuo­ve logi­che di avan­za­men­to di car­rie­ra e una divi­sio­ne net­ta «tra qua­dri sala­ria­ti da un lato e padro­ni deten­to­ri del patri­mo­nio dall’altro — con­for­me alla dif­fu­sio­ne del­le teo­rie dell’azienda che oppon­go­no i diret­to­ri ai pro­prie­ta­ri» (ibi­dem: 125).

I nuo­vi pro­ces­si di avan­za­men­to nel­la gerar­chia pro­fes­sio­na­le[2] sono par­ti­co­lar­men­te inte­res­san­ti. Bol­tan­ski e Chia­pel­lo evi­den­zia­no come i nuo­vi cri­te­ri di valu­ta­zio­ne azien­da­le rifiu­ti­no i giu­di­zi per­so­na­li, carat­te­ri­sti­ci del nepo­ti­smo, a favo­re di giu­di­zi imper­so­na­li. Quest’ultimi valu­ta­no le capa­ci­tà degli indi­vi­dui e, dun­que, i risul­ta­ti che si rag­giun­go­no rispet­to ad un obiet­ti­vo dato. Non sono più le qua­li­tà ascrit­te a deter­mi­na­re lo sta­tus degli atto­ri socia­li, ben­sì quel­le di tipo acqui­si­ti­vo.

Quan­to det­to è inte­res­san­te per sup­por­ta­re la nostra idea di ripro­du­zio­ne del siste­ma capi­ta­li­sti­co. Emer­ge, infat­ti, la capa­ci­tà del capi­ta­li­smo di rimo­du­la­re la pro­pria strut­tu­ra in rela­zio­ne alla cri­ti­ca ad esso rivol­ta. I valo­ri di tra­spa­ren­za ed equi­tà che in que­gli anni la let­te­ra­tu­ra del mana­ge­ment adot­ta come ves­sil­lo, in con­trap­po­si­zio­ne al socia­li­smo e all’ancien regi­me indu­stria­le dell’Europa, con­tri­bui­ro­no alla pro­du­zio­ne di nuo­ve dif­fe­ren­ze socia­li. È chia­ro come la strut­tu­ra abbia sapu­to far pro­prio il cam­bia­men­to che la sovra-strut­tu­ra pro­mul­ga­va e così ha potu­to rior­ga­niz­za­re la socie­tà, anco­ra una vol­ta, secon­do il suo model­lo.

Il model­lo teo­ri­co descrit­to da Tal­cott Par­sons ne Il siste­ma socia­le (1951), è for­se la rap­pre­sen­ta­zio­ne più effi­ca­ce del­la socie­tà che emer­ge negli anni Ses­san­ta. Per moti­vi di spa­zio non ci è pos­si­bi­le deli­nea­re, nean­che in manie­ra sin­te­ti­ca, il com­ples­so pen­sie­ro par­son­sia­no.

Tut­ta­via, anche l’analisi di Par­sons fa rife­ri­men­to alla per­di­ta di con­si­sten­za del­le qua­li­tà ascrit­te all’attore socia­le (età, fami­glia e luo­go di appar­te­nen­za, etc.) rispet­to alle qua­li­tà acqui­si­te. Le vec­chie dif­fe­ren­ze socia­li, che face­va­no rife­ri­men­to alle ori­gi­ni bio­gra­fi­che degli indi­vi­dui, sono sosti­tui­te da nuo­ve dif­fe­ren­ze, rela­ti­ve alle capa­ci­tà dei sog­get­ti, che rispec­chia­no una diver­sa orga­niz­za­zio­ne e divi­sio­ne del lavo­ro. Que­ste nuo­ve dif­fe­ren­ze socia­li sono legit­ti­ma­te dal­la reto­ri­ca del­le pari oppor­tu­ni­tà, la qua­le sovrap­po­ne il valo­re di ugua­glian­za a quel­lo di equi­tà.

Il con­cet­to di ugua­glian­za è coe­ren­te con i pro­ces­si che, a par­ti­re dagli anni Ses­san­ta, deter­mi­na­no lo sta­tus socia­le degli indi­vi­dui. L’idea è che tut­ti i sog­get­ti abbia­no le mede­si­me oppor­tu­ni­tà e il modo in cui que­ste ven­go­no sfrut­ta­te deter­mi­na il suc­ces­so socia­le di un indi­vi­duo. L’equità, di con­tro, assu­me che vi sia­no dif­fe­ren­ze socia­li che non per­met­to­no a tut­ti di rag­giun­ge­re i pro­pri obiet­ti­vi. Que­sto per­ché le qua­li­tà ascrit­te degli indi­vi­dui inci­do­no sul tipo di qua­li­tà acqui­si­ti­ve a cui pos­so­no aspi­ra­re.

La let­te­ra­tu­ra rela­ti­va al mana­ge­ment degli anni Novan­ta man­tie­ne viva la cri­ti­ca degli anni Ses­san­ta , rivol­ta alla strut­tu­ra del­le gran­di impre­se e alla loro buro­cra­zia cen­tra­liz­za­ta, e affian­ca a que­sta nuo­ve tema­ti­che.

In par­ti­co­lar modo sono i rap­por­ti di pote­re ad esse­re al cen­tro del dibat­ti­to. Duran­te gli anni Ses­san­ta i dispo­si­ti­vi di con­trol­lo all’interno del­le impre­se era­no subli­ma­ti dal nuo­vo modo di inten­de­re le gerar­chie lavo­ra­ti­ve, fon­da­te sul­le qua­li­tà acqui­si­te. I qua­dri vede­va­no negli obiet­ti­vi azien­da­li, defi­ni­ti dai pro­prie­ta­ri del­le impre­se, un cam­po in cui le riven­di­ca­zio­ni di auto­no­mia e par­te­ci­pa­zio­ne alle deci­sio­ni azien­da­li, tro­va­va­no rispo­sta. Bol­tan­ski e Chia­pel­lo aggiun­go­no che:

“D’ora in poi il qua­dro sarà giu­di­ca­to […] in fun­zio­ne del­la mag­gio­re o mino­re riu­sci­ta del­la sua atti­vi­tà, e non in fun­zio­ne del­la sua remis­si­vi­tà. Gli vie­ne con­ces­sa una cer­ta auto­no­mia nell’organizzazione, gli vie­ne dato un bud­get e ver­rà con­trol­la­to non sul­le sin­go­le deci­sio­ni, ma sul risul­ta­to glo­ba­le. Gra­zie a que­sto inge­gno­so dispo­si­ti­vo il padro­na­to, pur attuan­do le rifor­me con­si­de­ra­te neces­sa­rie dagli orga­niz­za­to­ri, con­ser­va il con­trol­lo. I qua­dri acqui­si­sco­no auto­no­mia e le impre­se pos­so­no usu­frui­re di una for­za lavo­ro rimo­ti­va­ta” (ibi­dem: 121–122).

Emer­ge­re qui il con­cet­to bour­dieu­sia­no di dimen­sio­ne sim­bo­li­ca del pote­re. L’analisi dei cam­bia­men­ti che si svi­lup­pa­no a par­ti­re dagli anni Novan­ta evi­den­zia con enfa­si il carat­te­re sim­bo­li­co del pote­re nel­la ristrut­tu­ra­zio­ne del­le gerar­chie lavo­ra­ti­ve. Quest’idea è in con­trad­di­zio­ne con quan­to affer­ma­no i testi di mana­ge­ment di que­gli anni, secon­do cui: «la gerar­chia è una for­ma di orga­niz­za­zio­ne da ban­di­re poi­ché fon­da­ta sul domi­nio» (ibi­dem: 127).

È pur vero che la cri­ti­ca alla gerar­chia in que­sti anni assu­me un carat­te­re mol­to più deci­so rispet­to a quel­la del perio­do pre­ce­den­te, tant’è che vie­ne ela­bo­ra­ta una teo­ria vol­ta a legit­ti­mar­la. Que­sta teo­ria si fon­da sull’idea che la socie­tà segua un per­cor­so evo­lu­ti­vo che por­ta gli atto­ri socia­li a non voler né coman­da­re né esse­re coman­da­ti (ibi­dem: 128). La neces­si­tà di indi­vi­dua­re una teo­ria che legit­ti­mi l’eliminazione del­le gerar­chie lavo­ra­ti­ve, con­fer­ma la nostra idea con­tro­in­tui­ti­va per cui più che eli­mi­na­re le gerar­chie si con­tri­buì a una loro ristrut­tu­ra­zio­ne. Quan­to det­to divie­ne più chia­ro ana­liz­zan­do il nuo­vo model­lo di orga­niz­za­zio­ne del­le impre­se, il cui pila­stro è il con­cet­to di fles­si­bi­li­tà.

La let­te­ra­tu­ra del mana­ge­ment degli anni Novan­ta, rispet­to a quel­la degli anni Ses­sa­ta, oltre a pro­dur­re argo­men­ti cri­ti­ci rispet­to all’organizzazione azien­da­le, pro­muo­ve anche model­li con­cre­ti di impre­sa. La fles­si­bi­li­tà appa­re come un aspet­to inno­va­ti­vo che biso­gna sfrut­ta­re per defi­ni­re un model­lo d’impresa capa­ce di resi­ste­re sia alle pres­sio­ni del mer­ca­to inter­na­zio­na­le, sia a quel­le inter­ne ai mer­ca­ti euro­pei.

Se negli anni Ses­san­ta furo­no le impre­se ame­ri­ca­ne a fare da esem­pio, negli anni Novan­ta l’onere è del­le impre­se nip­po­ni­che. Si svi­lup­pa l’idea di «impre­sa snel­la» la qua­le, come affer­ma­no gli auto­ri, «ha per­so la mag­gior par­te dei livel­li gerar­chi­ci […]. Inol­tre, ha eli­mi­na­to un gran nume­ro di fun­zio­ni e com­pi­ti subap­pal­tan­do tut­to ciò che non face­va par­te del suo core busi­ness» (ibi­dem: 131). Non solo la pro­du­zio­ne ma anche i rap­por­ti inter­ni all’impresa diven­go­no fles­si­bi­li e, di con­se­guen­za, i ruo­li degli indi­vi­dui. La for­za lavo­ro, ad esem­pio, è chia­ma­ta a svol­ge­re sia fun­zio­ne pro­dut­ti­va, sia altre fun­zio­ni come la manu­ten­zio­ne del capi­ta­le fis­so.

Il subap­pal­to, a cui ci sia­mo rife­ri­ti pri­ma, ha con­tri­bui­to ad una tra­sfor­ma­zio­ne del­la gerar­chia azien­da­le, che assu­me la for­ma di una rete este­sa. Secon­do gli auto­ri «i con­fi­ni dell’azienda diven­ta­no meno net­ti per­ché l’organizzazione sem­bra ormai costi­tui­ta solo da un insie­me di rap­por­ti con­trat­tua­li più o meno dura­tu­ri» (ibi­dem: 132). I con­cet­ti di capo e di qua­dri ven­go­no supe­ra­ti con l’identificazione di nuo­ve figu­re diri­gen­zia­li che incar­na­no i valo­ri del mana­ge­ment.

Ai «capi gerar­chi­ci», sot­to­li­nea­no Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, si sosti­tui­sco­no i lea­der. La capa­ci­tà di que­sti sog­get­ti è quel­la di coin­vol­ge­re nel fun­zio­na­men­to dell’impresa tut­te le uni­tà lavo­ra­ti­ve, sen­za che ciò ven­ga per­ce­pi­to come una coer­ci­zio­ne. I lea­der sono dispo­si­ti­vi di con­trol­lo che fon­da­no la pro­pria logi­ca fun­zio­na­le nel­la dimen­sio­ne sim­bo­li­ca del pote­re, la qua­le è media­ta dal­le loro qua­li­tà ascrit­te. Que­ste ulti­me non sono rela­ti­ve alle ori­gi­ni degli indi­vi­dui (clas­se, etnia, gene, etc.), ben­sì alle loro capa­ci­tà tra­sver­sa­li. I lea­der legit­ti­ma­no la loro posi­zio­ne gra­zie a un mito razio­na­liz­za­to (Meyer e Rowan, 1977) che così potrem­mo sin­te­tiz­za­re: Que­sti sog­get­ti per il fat­to di esse­re cari­sma­ti­ci, crea­ti­vi e capa­ci di gesti­re le rela­zio­ni socia­li, sono quel­li che meglio si pre­sen­ta­no per assu­me­re ruo­li diri­gen­zia­li.

Anche la posi­zio­ne dei mana­ger deve la pro­pria legit­ti­mi­tà a un mito di que­sto tipo. Bol­tan­ski e Chia­pel­lo si rife­ri­sco­no a quest’ultimi in que­sto modo:

“I mana­ger sono “intui­ti­vi”, “uma­ni­sti”, “ispi­ra­ti”, “visio­na­ri”, “gene­ra­li­sti” (in oppo­si­zio­ne alla stret­ta spe­cia­liz­za­zio­ne), “crea­ti­vi”. Il mon­do del mana­ger si con­trap­po­ne a quel­lo del qua­dro come il mon­do reti­co­la­re si oppo­ne a quel­lo cate­go­ria­le. Il mana­ger è l’uomo del­le reti. La sua qua­li­tà prin­ci­pa­le è la mobi­li­tà, la capa­ci­tà di spo­star­si sen­za lasciar­si fer­ma­re dal­le fron­tie­re.” (Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, 2011: 137)

Ripren­den­do l’idea di rete con cui Bol­tan­ski e Chia­pel­lo defi­ni­sco­no la strut­tu­ra gerar­chi­ca di que­ste nuo­ve impre­se potrem­mo inten­de­re i lea­der come gli hub cen­tra­li, men­tre i mana­ger come colo­ro che sono capa­ci di col­ma­re i buchi strut­tu­ra­li (Burt, 2005).

Lea­der e mana­ger sono affian­ca­ti da due altre figu­re, quel­la del coach e quel­le dell’esperto. Seb­be­ne il ruo­lo di coach pos­sa esse­re svol­to dagli stes­si mana­ger, quel­la dell’esperto è una posi­zio­ne auto­no­ma i cui con­fi­ni sono defi­ni­ti in que­sto modo:

“Non gli si chie­de di gesti­re équi­pe, que­sto è com­pi­to del mana­ger. Affin­ché cia­scu­no pos­sa svi­lup­pa­re il pro­prio talen­to in modo più pro­dut­ti­vo — il mana­ger la mobi­li­ta­zio­ne degli uomi­ni e l ’esper­to la per­for­man­ce tec­ni­ca — , gli auto­ri del­la let­te­ra­tu­ra di mana­ge­ment san­ci­sco­no defi­ni­ti­va­men­te la sepa­ra­zio­ne tra que­ste due figu­re, men­tre negli anni ses­san­ta si spe­ra­va anco­ra che, gra­zie a un buon “siste­ma di dire­zio­ne” (una buo­na pia­ni­fi­ca­zio­ne e un buon pro­ces­so di fis­sa­zio­ne degli obiet­ti­vi), fos­se pos­si­bi­le fare di qual­sia­si inge­gne­re com­pe­ten­te un mana­ger” (Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, 2011: 138).

L’ultimo aspet­to che biso­gna sot­to­li­nea­re è rela­ti­vo alle for­me di coin­vol­gi­men­to tipi­che degli anni Ses­san­ta e Novan­ta. Negli anni Ses­san­ta il coin­vol­gi­men­to all’interno del model­lo era vei­co­la­to attra­ver­so la sicu­rez­za che il sala­rio e il siste­ma di wel­fa­re dava­no agli indi­vi­dui. Il con­trat­to di lavo­ro era il risul­ta­to del­la tra­sfi­gu­ra­zio­ne del sen­so di sicu­rez­za dei lavo­ra­to­ri. Nel vec­chio model­lo, sia il red­di­to, sia la sicu­rez­za socia­le, la repu­ta­zio­ne e la posi­zio­ne gerar­chi­ca in seno alla socie­tà ven­go­no media­ti dal lavo­ro che si svol­ge e dal­la con­si­de­ra­zio­ne socia­le ad essa attri­bui­ta (Beck, 2000)

La let­te­ra­tu­ra del mana­ge­ment e il tema del­la fles­si­bi­li­tà cam­bia­no le rego­le del gio­co. In una real­tà in cui si esal­ta­no le capa­ci­tà poli­va­len­ti degli indi­vi­dui e la loro crea­ti­vi­tà il coin­vol­gi­men­to avvie­ne con la pro­mes­sa del­la rea­liz­za­zio­ne dei pro­pri inte­res­si. Infat­ti «Il nuo­vo model­lo […] pro­po­ne una “vera auto­no­mia”, fon­da­ta sul­la cono­scen­za di sé e sul­la rea­liz­za­zio­ne per­so­na­le, e non la fal­sa auto­no­mia, inqua­dra­ta dal per­cor­so del­la car­rie­ra» (Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, 2011: 152).

Tut­ta­via la real­tà degli anni Novan­ta è con­di­zio­na­ta da un for­te mismatch tra, quel­li che Robert K. Mer­ton ha defi­ni­to, mete cul­tu­ra­li e mez­zi isti­tu­zio­na­li. La fles­si­bi­li­tà pro­du­ce nuo­vi sog­get­ti ano­mi­ci, i pre­ca­ri.

La loro con­di­zio­ne è dovu­ta al fat­to che que­sti agi­sca­no in una real­tà in cui vi è un plu­ra­li­smo di ruo­li fles­si­bi­li e crea­ti­vi che però sono limi­ta­ti a un nume­ro ridot­to di figu­re pro­fes­sio­na­li, ad alto red­di­to e ad alta spe­cia­liz­za­zio­ne. Que­ste figu­re pos­so­no per­met­ter­si di rinun­cia­re a con­trat­ti lavo­ra­ti­vi di tipo subor­di­na­to per­ché mol­te sono le oppor­tu­ni­tà loro offer­te. Nei ruo­li pro­fes­sio­na­li meno spe­cia­liz­za­ti e a mino­re con­te­nu­to crea­ti­vo e inno­va­ti­vo la fles­si­bi­li­tà non rap­pre­sen­ta però un valo­re. La man­can­za di un con­trat­to a tem­po inde­ter­mi­na­to defi­ni­sce, infat­ti, aprio­ri il ruo­lo del pre­ca­rio: sì pen­si ad esem­pio alle cate­go­rie di lavo­ra­to­ri co.co.co e co.co.pro[3].

La pre­ca­rie­tà costi­tui­sce un carat­te­re acqui­si­to, che anco­ra di più esclu­de que­sti sog­get­ti da una real­tà in cui lo sta­tus socia­le è strut­tu­ra­to su nuo­ve qua­li­tà ascrit­te (crea­ti­vi­tà, cari­sma, capa­ci­tà di lea­der­ship ecc.). La logi­ca del­la fles­si­bi­li­tà, esal­ta­ta nei manua­li di mana­ge­ment, si tra­sfor­ma, per chi è esclu­so dal mer­ca­to del lavo­ro, in pre­ca­rie­tà lavo­ra­ti­va, in dispo­ni­bi­li­tà ad accet­ta­re lavo­ri dequa­li­fi­ca­ti e a ter­mi­ne, dan­do così vita a un nuo­vo eser­ci­to indu­stria­le di riser­va.

3. Fles­si­bi­li­tà e demo­cra­zia. La pro­po­sta di Richard Wol­ff

 in que­sta par­te del nostro lavo­ro pre­sen­te­re­mo il pen­sie­ro dell’economista Richard Wol­ff, foca­liz­zan­do la nostra atten­zio­ne sul­la ter­za par­te del suo lavo­ro, Demo­cra­cy at work. A cure of capi­ta­li­sm (2012). L’interesse per que­sto auto­re deri­va dal fat­to che la sua ana­li­si, par­ten­do dal­la con­sa­pe­vo­lez­za del­la cri­si del siste­ma capi­ta­li­sti­co, non pro­du­ce una let­tu­ra pes­si­mi­sti­ca ma, a dif­fe­ren­za del testo di Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, pro­po­ne alter­na­ti­ve di natu­ra peda­go­gi­ca e ope­ra­ti­va.

L’economista, infat­ti, cer­ca di ela­bo­ra­re un model­lo di impre­sa che, gra­zie al tipo di orga­niz­za­zio­ne inter­na, non per­met­te la ripro­du­zio­ne del­lo “spi­ri­to del capi­ta­li­smo”. Si trat­ta del­le impre­se diret­te auto­no­ma­men­te dai lavo­ra­to­ri. Que­ste ven­go­no defi­ni­te da Wol­ff con­fron­tan­do­le con altri tre model­li di impre­sa: le impre­se di pro­prie­tà dei lavo­ra­to­ri, le impre­se gesti­te dai lavo­ra­to­ri e le coo­pe­ra­ti­ve. I diver­si model­li d’impresa ven­go­no ana­liz­za­ti in rela­zio­ne ai ruo­li che la for­za lavo­ro può svol­ge­re, vale a dire pro­prie­ta­rio, mana­ger e mem­bro del con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne.

Wol­ff apre il ter­zo capi­to­lo del suo libro affer­man­do che, agli albo­ri del secon­do col­las­so del capi­ta­li­smo pri­va­to, il mon­do si tro­va ad un bivio e che sia neces­sa­rio indi­vi­dua­re un model­lo socioe­co­no­mi­co alter­na­ti­vo. È bene sot­to­li­nea­re che Wol­ff si disco­sta dal­la tra­di­zio­na­le idea mani­chea che vede agli anti­po­di il capi­ta­li­smo occi­den­ta­le e il socia­li­smo tra­di­zio­na­le.

Infat­ti, Il capi­ta­li­smo secon­do l’autore assu­me due vol­ti: quel­lo del capi­ta­li­smo pri­va­to e quel­lo del capi­ta­li­smo di sta­to. Quest’ultimo model­lo, tipi­co dei pae­si dell’ex bloc­co sovie­ti­co, fu il pri­mo a mostra­re la fal­la­cia di un siste­ma strut­tu­ra­to su rigi­di rap­por­ti di pote­re, dan­do la pos­si­bi­li­tà al capi­ta­li­smo pri­va­to di affer­mar­si come siste­ma domi­nan­te. Wol­ff sot­to­li­nea come il model­lo del pri­va­te capi­ta­li­sm mostri anch’esso i suoi limi­ti, a cau­sa dei gran­di squi­li­bri che ha gene­ra­to. Que­sti dise­qui­li­bri sono in par­ti­co­la­re con­nes­si ai disa­stri ambien­ta­li, all’i­ni­qua distri­bu­zio­ne del­le ric­chez­ze e alla cre­scen­te pover­tà. La pro­spet­ti­va adot­ta­ta da Wol­ff pro­du­ce una sovrap­po­si­zio­ne tra capi­ta­li­smo e socia­li­smo di sta­to tale da spin­ge­re l’autore ad affer­ma­re che:

Fin­ché i cri­ti­ci del capi­ta­li­smo pri­va­to non indi­che­ran­no un’al­ter­na­ti­va diver­sa rispet­to a un capi­ta­li­smo pri­va­to più rego­la­to o da un capi­ta­li­smo di sta­to (socia­li­smo tra­di­zio­na­le), essi non ispi­re­ran­no […] un movi­men­to socia­le capa­ce di usci­re dal­le ripe­tu­te oscil­la­zio­ni tra [capi­ta­li­smo pri­va­to e capi­ta­li­smo di sta­to]. […] Le clas­si lavo­ra­tri­ci rispon­de­ran­no a entram­bi i [tipi di cri­ti­ca], come han­no già impli­ci­ta­men­te fat­to: “No, gra­zie, ci sia­mo già pas­sa­ti. È un vico­lo cie­co”. (Wol­ff, 2012, p.111).

Que­sta cita­zio­ne per­met­te di fare un ulte­rio­re pas­so in avan­ti nell’analisi del lavo­ro dell’economista ame­ri­ca­no. Biso­gna, dun­que, chie­der­si qua­le sia la posi­zio­ne di Wol­ff nel dibat­ti­to sul capi­ta­li­smo.

Wol­ff cre­de nell’ impos­si­bi­li­tà di attua­re un cam­bia­men­to sovra-strut­tu­ra­le in assen­za di una base strut­tu­ra­le che lo per­met­ta. Nel lavo­ro del­lo scien­zia­to socia­le è cen­tra­le l’idea che la socie­tà pos­sa assu­me­re nuo­ve for­me gra­zie all’azione col­let­ti­va. Affin­ché que­sto avven­ga è però neces­sa­rio che gli atto­ri socia­li orga­niz­zi­no le pro­prie volon­tà indi­vi­dua­li all’in­ter­no di un movi­men­to socia­le capa­ce di rom­pe­re con le tra­di­zio­ni del capi­ta­li­smo pri­va­to e di sta­to.

L’economista mar­xi­sta sot­to­li­nea come l’assenza di una dina­mi­ca aggre­ga­ti­va e col­let­ti­va, capa­ce di ristrut­tu­ra­re la socie­tà, sia impu­ta­bi­le all’assenza di una dia­let­ti­ca da cui pos­sa sca­tu­ri­re il muta­men­to. Per supe­ra­re que­sta fase di stal­lo, l’autore pro­po­ne una teo­ria che al con­tem­po for­ni­sce mez­zi peda­go­gi­ci e ope­ra­ti­vi. Il cam­bia­men­to, secon­do la logi­ca pro­po­sta da Wol­ff, ope­ra a livel­lo macro-eco­no­mi­co e fa rife­ri­men­to ad un tipo di ristrut­tu­ra­zio­ne dell’intera socie­tà che ha però ori­gi­ne da un cam­bia­men­to dell’assetto deci­sio­na­le del­le azien­de. L’autore iden­ti­fi­ca nel­le impre­se diret­te dai lavo­ra­to­ri (WSDE) gli agen­ti eco­no­mi­ci capa­ci di for­mu­la­re un nuo­vo model­lo socioe­co­no­mi­co.

Attra­ver­so uno stra­vol­gi­men­to dei nor­ma­li pro­ces­si deci­sio­na­li, le WSDE pro­muo­vo­no lo svi­lup­po di un appa­ra­to demo­cra­ti­co non solo nel­le azien­de, ma anche nel­le comu­ni­tà in cui que­ste agi­sco­no.

Le impre­se pro­po­ste da Wol­ff pre­sen­ta­no tre spe­ci­fi­ci­tà:

1 le deci­sio­ni azien­da­li sono pre­se demo­cra­ti­ca­men­te e col­let­ti­va­men­te;

2) le azien­de pre­sen­ta­no una com­po­si­zio­ne ete­ro­ge­nea del­la for­za-lavo­ro: i pro­dut­to­ri e i ‘fat­to­ri faci­li­tan­ti’;

3) è for­te la dimen­sio­ne comu­ni­ta­ria, in cui le deci­sio­ni azien­da­li devo­no neces­sa­ria­men­te con­si­de­ra­re le dif­fe­ren­ti rela­zio­ni che si svi­lup­pa­no dal pia­no loca­le fino a quel­lo nazio­na­le.

Il pri­mo carat­te­re del­le WSDE rap­pre­sen­ta il car­di­ne su cui si svi­lup­pa la teo­ria del cam­bia­men­to ela­bo­ra­ta da Wol­ff. Il cam­bia­men­to strut­tu­ra­le all’interno dei pro­ces­si deci­sio­na­li muta le vec­chie gerar­chie. Tale tra­sfor­ma­zio­ne inci­de sul­la redi­stri­bu­zio­ne del pote­re attra­ver­so la divi­sio­ne dei com­pi­ti all’interno del­le azien­de. Nel­le azien­de clas­si­che, il Con­si­glio d’Amministrazione (board of direc­tors) assu­me una posi­zio­ne ege­mo­ne poi­ché deci­de in manie­ra auto­re­fe­ren­zia­le la quan­ti­tà e i modi di distri­bu­zio­ne del sur­plus.

Secon­do Wol­ff, tale impo­sta­zio­ne dei rap­por­ti di pote­re è alla radi­ce dei pro­ble­mi del siste­ma capi­ta­li­sti­co. All’interno del­le WSDE, l’i­ni­qui­tà di que­sta logi­ca non potreb­be svi­lup­par­si, poi­ché colo­ro che pro­du­co­no il sur­plus, ovve­ro i lavo­ra­to­ri sfrut­ta­ti dal pri­va­te capi­ta­li­sm, sono anche colo­ro che deci­do­no sia i modi di pro­du­zio­ne, sia sul­la distri­bu­zio­ne del sur­plus. Per sin­te­tiz­za­re que­sto cam­bia­men­to con un’im­ma­gi­ne, potrem­mo descri­ve­re un lavo­ra­to­re che il lune­dì indos­sa il caschet­to e impu­gna il mar­tel­lo e poi, il gior­no suc­ces­si­vo, anno­da la cra­vat­ta e affer­ra la ven­ti­quat­tro­re.

Il fat­to che colo­ro che pro­du­co­no il sur­plus sia­no anche colo­ro che ne gesti­sco­no la distru­zio­ne, i modi e la quan­ti­tà pro­dot­ta, è fon­da­men­ta­le al fine di carat­te­riz­za­re le WSDE come sog­get­ti capa­ci di rap­pre­sen­ta­re una con­cre­ta alter­na­ti­va al siste­ma socioe­co­no­mi­co ege­mo­ne, non­ché come enti­tà socioe­co­no­mi­che inno­va­ti­ve. L’o­ri­gi­na­li­tà del­le azien­de diret­te auto­no­ma­men­te dai lavo­ra­to­ri è rap­pre­sen­ta­ta dal par­ti­co­la­re modo di orga­niz­za­zio­ne dell’attività pro­dut­ti­vi­tà.

Wol­ff, infat­ti, pre­sen­ta tre dif­fe­ren­ti model­li di impre­sa che, seb­be­ne veda­no la for­za lavo­ro assu­me­re ruo­li diver­si rispet­to alla sem­pli­ce atti­vi­tà di pro­du­zio­ne, han­no poco in comu­ne con le WSDE. I tre model­li d’azienda pre­sen­ta­ti dall’autore sono le impre­se di pro­prie­tà dei lavo­ra­to­ri, le impre­se gesti­te dai lavo­ra­to­ri e le coo­pe­ra­ti­ve.

 

Nel pri­mo model­lo la for­za lavo­ro, oltre a svol­ge­re la sua nor­ma­le atti­vi­tà di pro­du­zio­ne del sur­plus, divie­ne azio­ni­sta dell’impresa e dun­que il suo red­di­to vie­ne inte­gra­to dai divi­den­di deri­van­ti dal­le azio­ni. Il fat­to che la for­za lavo­ro risul­ti pro­prie­ta­ria dell’azienda non muta la sua posi­zio­ne di subor­di­na­zio­ne nei con­fron­ti del con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne. Di fat­to, è quest’ultimo a deci­de­re la poli­ti­ca del­l’im­pre­sa e il livel­lo di divi­den­di da allo­ca­re tra gli azio­ni­sti. Seb­be­ne tale model­lo per­met­ta ai lavo­ra­to­ri di par­te­ci­pa­re alle ele­zio­ni del con­si­glio, è sem­pre quest’ultimo ad ave­re pote­re di veto sul­le deci­sio­ni azien­da­li (ibi­dem: 113–115).

Nel secon­do model­lo, quel­lo del­le impre­se gesti­te dai lavo­ra­to­ri, la for­za lavo­ro assu­me il ruo­lo di mana­ger e ciò impli­ca un raf­for­za­men­to dei vin­co­li gerar­chi­ci a cui sono sot­to­po­sti i lavo­ra­to­ri. Il con­cet­to di gestio­ne non può esse­re sovrap­po­sto a quel­lo di deci­sio­ne. Quest’ultima rima­ne una pre­ro­ga­ti­va dell’attività del con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne. Wol­ff sot­to­li­nea come l’ampliamento del­la respon­sa­bi­li­tà, e quin­di degli inca­ri­chi del­la for­za lavo­ro all’interno dell’azienda, sia lega­to a fat­to­ri eco­no­mi­ci assi­mi­la­bi­li alla neces­si­tà del con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne di ridur­re i costi, eli­mi­nan­do i mana­ger ester­ni e crean­do­ne di inter­ni. Quan­to det­to rispet­to a que­sto secon­do model­lo è coe­ren­te con i pro­ces­si di ristrut­tu­ra­zio­ne azien­da­le pro­po­sti dal­la let­te­ra­tu­ra del neo-mana­ge­ment (Bol­tan­ski e Chia­pel­lo, 2011: 131). In par­ti­co­lar modo, ci rife­ria­mo al pro­ces­so di gestio­ne inter­na di tut­te le atti­vi­tà fun­zio­na­li alla com­pe­ti­ti­vi­tà di mer­ca­to. (Wol­ff, 2012: 115–116)

Il ter­zo è ulti­mo model­lo è quel­lo del­le coo­pe­ra­ti­ve. Wol­ff seguen­do una logi­ca com­pa­ra­ti­va, sot­to­li­nea le pro­fon­de dif­fe­ren­ze tra coo­pe­ra­ti­ve e impre­se diret­te auto­no­ma­men­te dai lavo­ra­to­ri.  Rispet­to a quest’ultime, le coo­pe­ra­ti­ve decli­na­no il prin­ci­pio di coo­pe­ra­zio­ne in una for­ma del tut­to diver­sa. Wol­ff con­si­de­ra l’esempio di un cam­po acqui­sta­to col­let­ti­va­men­te e sot­to­li­nea come in que­sto caso non si svi­lup­pi­no le dina­mi­che demo­cra­ti­che tipi­che del­le WSDE. Nel caso del­la ter­ra comu­ne solo la pro­prie­tà è vin­co­la­ta ad un sog­get­to col­let­ti­vo, men­tre le deci­sio­ni pro­dut­ti­ve sono lascia­te a disca­pi­to del sin­go­lo mem­bro del­la coo­pe­ra­ti­va. Come affer­ma l’autore: «[d]ue fat­ti defi­ni­sco­no le WSDE: l’ap­pro­pria­zio­ne e la distri­bu­zio­ne del sur­plus avven­go­no in modo coo­pe­ra­ti­vo: i lavo­ra­to­ri che coo­pe­ra­ti­va­men­te pro­du­co­no il sur­plus e quel­li che coo­pe­ra­ti­va­men­te se ne appro­pria­no e lo distri­bui­sco­no coin­ci­do­no» (ibi­dem: 116. Trad. mia).

Dopo aver pre­sen­ta­to que­sti tre model­li d’impresa e sot­to­li­nea­to le carat­te­ri­sti­che uni­che del­le impre­se diret­te auto­no­ma­men­te dai lavo­ra­to­ri è neces­sa­rio evi­den­zia­re alcu­ni aspet­ti inter­ni a que­ste ulti­me.

Anzi tut­to, le impre­se diret­te auto­no­ma­men­te dal­la for­za lavo­ro sono carat­te­riz­za­te dal­la pre­sen­za di due grup­pi di lavo­ra­to­ri.

Nel pri­mo grup­po rien­tra­no i lavo­ra­to­ri che pro­du­co­no il sur­plus e che costi­tui­sco­no al con­tem­po il con­si­glio di dire­zio­ne.

Il secon­do grup­po è costi­tui­to dai lavo­ra­to­ri che Marx defi­ni­reb­be come impro­dut­ti­vi[4] (Ibi­dem: 130). Wol­ff, inve­ce, defi­ni­sce que­sta for­za lavo­ro come «fat­to­ri faci­li­tan­ti»[5], in quan­to sono impie­ga­ti solo indi­ret­ta­men­te nel­la pro­du­zio­ne di sur­plus, svol­gen­do un ruo­lo di sup­por­to.

Il rap­por­to di col­la­bo­ra­zio­ne tra que­sti due grup­pi si svi­lup­pa attra­ver­so il rico­no­sci­men­to di una natu­ra­le inter­di­pen­den­za. Quest’ultima è data, oltre dai rap­por­ti che si svi­lup­pa­no tra man­sio­ni lavo­ra­ti­ve, dall’apparato deci­sio­na­le che per­met­te ad ogni lavo­ra­to­re dell’azienda di ave­re dirit­to di veto sui livel­li del sala­rio per­ce­pi­ti dal­le diver­se com­po­nen­ti del­la for­za lavo­ro. I fat­to­ri faci­li­tan­ti, nono­stan­te il loro ruo­lo, sono esclu­si dal­le deci­sio­ni rela­ti­ve alla pro­du­zio­ne e allo­ca­zio­ne di sur­plus. Que­ste atti­vi­tà riman­go­no una pre­ro­ga­ti­va del pri­mo grup­po.  (Ibi­dem: 122–123)

Resta da sin­te­tiz­za­re il rap­por­to coo­pe­ra­ti­vo tra WSDE e ter­ri­to­rio. Una del­le ester­na­li­tà posi­ti­ve pro­dot­te dal­le impre­se diret­te auto­no­ma­men­te è una nuo­va visio­ne del rap­por­to tra lavo­ro, pro­du­zio­ne e ambien­te.

Le comu­ni­tà in cui nasco­no le impre­se diret­te auto­no­ma­men­te sono le stes­se in cui risie­de la loro for­za lavo­ro. Ciò impli­ca che le stes­se comu­ni­tà han­no pote­re deci­sio­na­le e che i modi di pro­du­zio­ne, la quan­ti­tà pro­dot­ta e l’allocazione sono il rifles­so di inte­res­si comu­ni­ta­ri.

Inol­tre, Wol­ff sot­to­li­nea come que­sto rap­por­to, e il fat­to che la comu­ni­tà influen­zi le deci­sio­ni rela­ti­ve alla pro­du­zio­ne, sia riso­lu­ti­vo di nume­ro­se con­trad­di­zio­ni del capi­ta­li­smo moder­no, come ad esem­pio il rap­por­to tra tec­no­lo­gie e disoc­cu­pa­zio­ne (Wol­ff, 2016). Que­sto rap­por­to tra WSDE e ter­ri­to­rio non tie­ne con­to, tut­ta­via, del­le recen­ti evo­lu­zio­ni dell’organizzazione del lavo­ro, raf­for­za­te dal­la pan­de­mia.

Il lavo­ro è spes­so delo­ca­liz­za­to, nel sen­so che si può lavo­ra­re onli­ne, in con­te­sti dome­sti­ci, sepa­ra­ti da una rete rela­zio­na­le di comu­ni­tà. Su que­sto aspet­to, il testo di Wol­ff, scrit­to nel 2012, non ci dà indi­ca­zio­ni. Il lavo­ro agi­le non eli­mi­na, però, total­men­te il lega­me con la comu­ni­tà, dal momen­to che solo alcu­ni lavo­ri sono tra­sfe­ri­bi­li uti­liz­zan­do for­me di lavo­ro dome­sti­co onli­ne. È anche vero che la comu­ni­tà non è ormai solo un con­cet­to lega­to a ter­ri­to­ri spe­ci­fi­ci, ma a inte­res­si e biso­gni con­di­vi­si (si pen­si alle comu­ni­tà vir­tua­li).

Le WSDE potreb­be­ro quin­di rispon­de­re anche a nuo­vi biso­gni di comu­ni­tà allar­ga­te, acco­mu­na­te per esem­pio dagli stes­si idea­li di giu­sti­zia, equi­tà o respon­sa­bi­li­tà eco­lo­gi­ca e quin­di svol­ge­re la loro fun­zio­ne inno­va­ti­va.

Uno dei prin­ci­pa­li pro­ble­mi che ha afflit­to sia il model­lo del pri­va­te e del­lo sta­te capi­ta­li­sm è sta­to il rap­por­to che si instau­ra tra le nuo­ve tec­no­lo­gie e il livel­lo di input.

Lo sta­te capi­ta­li­sm pre­ce­det­te nel fal­li­men­to il pri­va­te capi­ta­li­sm, poi­ché la sua cul­tu­ra orga­niz­za­ti­va impe­di­va la ridu­zio­ne del­la for­za lavo­ro a favo­re di nuo­ve tec­no­lo­gie.

Nel pri­va­te capi­ta­li­sm avvie­ne, inve­ce, il con­tra­rio. Le nuo­ve tec­no­lo­gie gene­ra­no un incre­men­to del­la disoc­cu­pa­zio­ne.

Nel­le WSDE, per ovvia­re a que­sto pro­ble­ma, si adot­te­reb­be un mec­ca­ni­smo di rota­zio­ne, tale da favo­ri­re l’adozione di nuo­ve tec­no­lo­gie sen­za che que­ste pro­du­ca­no disoc­cu­pa­zio­ne. Per­ché que­sto pro­ces­so si svi­lup­pi in modo rego­la­re e natu­ra­le, affer­ma Wol­ff, sono neces­sa­rie del­le agen­zie che spo­sti­no il sur­plus di lavo­ra­to­ri dal­le azien­de dove si svi­lup­pa­no nuo­ve tec­no­lo­gie alle azien­de nascen­ti o in tra­sfor­ma­zio­ne (Wol­ff, 2012: 124–125).

Ana­liz­zan­do inve­ce la solu­zio­ne rela­ti­va al pro­ble­ma del­la distri­bu­zio­ne del sala­rio, la logi­ca del­la rota­zio­ne assu­me una nuo­va dire­zio­ne. Se pri­ma la rota­zio­ne era tra azien­de, ora la rota­zio­ne avvie­ne tra i diver­si impie­ghi che un indi­vi­duo può svol­ge­re. Di fat­to, affin­ché si attui una distri­bu­zio­ne equa dei sala­ri, Wol­ff pro­muo­ve un siste­ma in cui gli indi­vi­dui pos­so­no cam­bia­re la pro­pria man­sio­ne all’in­ter­no del­l’a­zien­da, o spo­stan­do­si in un’altra impre­sa. Tale logi­ca, oltre a supe­ra­re l’iniquità del vec­chio siste­ma di distru­zio­ne del­la ric­chez­za, per­met­te agli indi­vi­dui di poten­zia­re le pro­prie com­pe­ten­ze, e dun­que il siste­ma pro­dut­ti­vo (ibi­dem: 128–130).

 

4. Con­clu­sio­ni

Quel­lo che Wol­ff pro­po­ne è un model­lo inte­res­san­te di pro­du­zio­ne in cui la gerar­chia del­l’im­pre­sa vie­ne sosti­tui­ta da pro­ces­si demo­cra­ti­ci. Per Wol­ff è però anche un model­lo che potreb­be ave­re riper­cus­sio­ni sul­l’or­ga­niz­za­zio­ne del­la socie­tà, supe­ran­do sia le rigi­di­tà del capi­ta­li­smo di sta­to sia i dise­qui­li­bri cau­sa­ti dal capi­ta­li­smo pri­va­to. Un model­lo che con­net­te pro­du­zio­ne, demo­cra­zia ed eti­ca e che si pro­po­ne di risol­ve­re i pro­ble­mi del­la socie­tà con­tem­po­ra­nea, in par­ti­co­la­re la cri­si ambien­ta­le e la cre­sci­ta del­le dise­gua­glian­ze.

L’aspetto inte­res­san­te del model­lo d’impresa pro­po­sto da Wol­ff è il fat­to che la fles­si­bi­li­tà ne rap­pre­sen­ta un ele­men­to costi­tu­ti­vo. Tut­ta­via, que­sta si espri­me in ter­mi­ni diver­si rispet­to a quan­to visto con Bol­tan­ski e Chia­pel­lo.

L’economista ame­ri­ca­no non fa diret­ta­men­te rife­ri­men­to al con­cet­to di fles­si­bi­li­tà, ben­sì a quel­lo di rota­zio­ne (ibi­dem: 128). I ruo­li all’interno del­le WSDE pos­so­no esse­re inte­si come fles­si­bi­li poi­ché ogni lavo­ra­to­re avrà svol­to, nel cor­so del­la sua vita lavo­ra­ti­va, più di una man­sio­ne. La rota­zio­ne dei ruo­li influen­za dimen­sio­ni orga­niz­za­ti­ve diver­se dell’impresa, a secon­da del tipo di pro­ble­ma a cui deve rispon­de­re.

Wol­ff, ad esem­pio, cre­de che la rota­zio­ne all’interno del con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne sia uno stru­men­to vali­do per: «evi­ta­re di rei­fi­ca­re le per­so­ne in posi­zio­ni fis­se di mana­ger, posi­zio­ni che potreb­be­ro even­tual­men­te apri­re la stra­da a un ritor­no al capi­ta­li­smo» (ibi­dem: 120). Inol­tre, Il mec­ca­ni­smo di rota­zio­ne pro­po­sta da Wol­ff è fun­zio­na­le ad altri due obiet­ti­vi, l’eliminazione del­le dispa­ri­tà sala­ria­li all’interno del­le azien­de e il poten­zia­men­to del­le capa­ci­tà dei lavo­ra­to­ri attra­ver­so il «lear­ning by doing» (ibi­dem: 129).

Wol­ff, rispet­to al pri­mo obiet­ti­vo, sot­to­li­nea come le dif­fe­ren­ze di red­di­to, dovu­te al tipo di man­sio­ne svol­ta, pos­sa­no esse­re appia­na­te attra­ver­so una rota­zio­ne degli inca­ri­chi non diri­gen­zia­li, che non rien­tra­no nel­le man­sio­ni del con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne, tra i lavo­ra­to­ri (ibi­dem).

La rea­liz­za­zio­ne del secon­do obiet­ti­vo per­met­te­reb­be di acqui­si­re quel­la serie di qua­li­tà e com­pe­ten­ze che il mito razio­na­liz­za­to, pre­sen­ta­to nel­la pri­ma par­te del nostro lavo­ro, defi­ni­va come ascrit­te e, dun­que, legit­ti­man­ti dei ruo­li di mana­ger e lea­der.

Il model­lo pro­po­sto da Wol­ff è inte­res­san­te se con­fron­ta­to con il pen­sie­ro di un altro auto­re, Erik Olin Wright. La dia­let­ti­ca tra­sfor­ma­ti­va pro­po­sta dall’economista ame­ri­ca­no fa pro­pri pro­ces­si che pos­so­no esse­re ricol­le­ga­ti a due del­le logi­che tra­sfor­ma­ti­ve pre­sen­ti in Tran­sfor­ming Capi­ta­li­sm throu­gh Real Uto­pias (2011). Scrit­ti nel­lo stes­so perio­do[6] entram­bi i lavo­ri si pre­oc­cu­pa­no di for­mu­la­re una teo­ria che for­ni­sca sia i mez­zi peda­go­gi­ci, sia quel­li ope­ra­ti­vi per attua­re il cam­bia­men­to.  Wright indi­vi­dua tre mec­ca­ni­smi attra­ver­so cui è pos­si­bi­le rea­liz­za­re una tra­sfor­ma­zio­ne siste­mi­ca del­la real­tà capi­ta­li­sti­ca, le logi­che di rot­tu­ra, le logi­che sim­bio­ti­che e le logi­che inter­sti­zia­li (Wright, 2011: 20–22).

Rispet­to a quan­to voglia­mo ana­liz­za­re sono inte­res­san­ti la secon­da e ter­za logi­ca, seb­be­ne per la sim­bio­ti­ca sia neces­sa­rio fare alcu­ne pre­ci­sa­zio­ni.

Le logi­che inter­sti­zia­li, che sono quel­le iden­ti­fi­ca­bi­li con mag­gior faci­li­tà nel model­lo di Wol­ff, sono defi­ni­te da Wright come pra­ti­che capa­ci di rap­pre­sen­ta­re uno spac­ca­to all’interno del­la real­tà capi­ta­li­sti­ca da cui emer­go­no nuo­ve rap­pre­sen­ta­zio­ni del lavo­ro e del­la vita socia­le. Inol­tre, il poten­zia­le di que­ste logi­che risie­de nel­la loro capa­ci­tà di atti­va­re pro­ces­si di cam­bia­men­to cumu­la­ti­vi. Le impre­se diret­te auto­no­ma­men­te dai lavo­ra­to­ri sono, di fat­to, strut­tu­re che nasco­no nel mer­ca­to capi­ta­li­sti­co, per poi distan­ziar­si adot­tan­do logi­che di pro­du­zio­ne e di orga­niz­za­zio­ne dei rap­por­ti socia­li che si oppon­go­no al model­lo domi­nan­te.

È evi­den­te come ciò non bastì a pro­dur­re un cam­bia­men­to strut­tu­ra­le del­la real­tà capi­ta­li­sti­ca. Tor­na uti­li pre­sen­ta­re le logi­che sim­bio­ti­che, che sono inte­se da Wright come azio­ne media­ta attra­ver­so le isti­tu­zio­ni domi­nan­ti, il cui obbiet­ti­vo è miglio­ra­re gli aspet­ti cri­ti­ci del­le stes­se. Dun­que, secon­do que­sta logi­ca il cam­bia­men­to si strut­tu­re­reb­be, ini­zial­men­te, da un con­fron­to con le isti­tu­zio­ni (Wright si rife­ri­sce al con­cet­to di Sta­to), le qua­li avreb­be­ro poi l’onere di pro­muo­ver­lo nel­la socie­tà.

Que­sta logi­ca se inden­ti­fi­ca nel cor­po teo­ri­co pro­po­sto da Wol­ff ci per­met­te di coglie­re i mec­ca­ni­smi attra­ver­so cui si rea­liz­za il cam­bia­men­to secon­do l’autore. Tut­ta­via, il pro­ces­so sim­bio­ti­co è da inden­ti­fi­ca­re nel rap­por­to di inter­di­pen­den­za che si strut­tu­ra tra  WSDE e il movi­men­to socia­le che ne pro­muo­ve le istan­ze e ne incar­na i valo­ri.

Le isti­tu­zio­ni a cui si rife­ri­sce Wol­ff sono quel­le che nasco­no dal­la com­pre­sen­za del­le WSDE e di un movi­men­to socia­le all’interno di un ter­ri­to­rio. Inol­tre, Il con­cet­to di isti­tu­zio­ni deve esse­re inte­so nel sen­so socio­lo­gi­co più este­so del ter­mi­ne, che fa rife­ri­men­to sia a strut­tu­re fisi­che, sia all’insieme di nor­me for­ma­li e infor­ma­li che orga­niz­za­no la vita socia­le.

Met­ten­do a raf­fron­to il lavo­ro di Wol­ff con quel­lo di Bol­tan­ski e Cap­pel­lo è evi­den­te come Wol­ff pro­pon­ga una visio­ne mag­gior­men­te otti­mi­sti­ca. Men­tre i due auto­ri fran­ce­si sot­to­li­nea­no come il siste­ma capi­ta­li­sti­co sia in gra­do di fare pro­prie le cri­ti­che, di assi­mi­lar­le e di man­te­ne­re così il pro­prio domi­nio, Wol­ff cer­ca di indi­vi­dua­re mec­ca­ni­smi di oppo­si­zio­ne al siste­ma, in gra­do di met­ter­lo in cri­si evi­den­zian­do, all’interno di nuo­ve pras­si di pro­du­zio­ne e orga­niz­za­zio­ne dell’impresa, la pos­si­bi­li­tà di alter­na­ti­ve.

Nel­la pro­spet­ti­va di Wol­ff la fles­si­bi­li­tà non è una nuo­va for­ma di con­trol­lo ma può diven­ta­re, se coor­di­na­ta dai lavo­ra­to­ri all’interno di scel­te con­sa­pe­vo­li, una for­ma nuo­va di rap­por­to tra lavo­ra­to­re, impre­sa, pro­du­zio­ne e lavo­ro. Seb­be­ne a trat­ti il lavo­ro di Wol­ff pos­sa sem­bra­re ecces­si­va­men­te uto­pi­sti­co (alme­no quan­to il lavo­ro dei due auto­ri fran­ce­si pos­sa appa­ri­re scon­for­tan­te), la sua ana­li­si ha del poten­zia­le. Que­sta risie­de nel­la com­po­nen­te insie­me peda­go­gi­ca e prag­ma­ti­ca del­le sue rifles­sio­ni. Pro­dur­re cam­bia­men­to cul­tu­ra­le (com­po­nen­te peda­go­gi­ca) e non solo orga­niz­za­ti­vo ed eco­no­mi­co (com­po­nen­te prag­ma­ti­ca) può rap­pre­sen­ta­re un ele­men­to di inter­di­zio­ne del pro­ces­so di ripro­du­zio­ne del capi­ta­li­smo, poi­ché il sen­so del cam­bia­men­to si strut­tu­re­reb­be non a prio­ri, ma come pro­ces­so cul­tu­ra­le in fie­ri.

Note:

[1] «Il qua­dro tipi­co dell’epoca è anzi­tut­to l’in­ge­gne­re — e, in secon­do luo­go, quel­lo di staf­fet­ta del­la dire­zio­ne, che tra­smet­te gli ordi­ni dall’alto e rife­ri­sce in alto i pro­ble­mi pro­ve­nien­ti dal bas­so» (ibi­dem: 119)

[2]Parliamo di gerar­chie poi­ché, come affer­ma­no i due auto­ri, «[l]’emancipazione dei qua­dri avvie­ne all’interno di uno sce­na­rio in cui la gerar­chia non vie­ne mes­sa in discus­sio­ne. Si con­si­glia di ren­der­la più tra­spa­ren­te» (ibi­dem).

[3] Emi­lio Rey­ne­ri nel ter­zo capi­to­lo del suo manua­le, Socio­lo­gia del mer­ca­to del lavo­ro: II. Le for­me dell’occupazione. (2006), ana­liz­za in manie­ra det­ta­glia­ta il rap­por­to tra fles­si­bi­li­tà e insta­bi­li­tà occu­pa­zio­na­le (pp. 73–143).

[4] Marx Pro­po­ne una dif­fe­ren­zia­zio­ne tra lavo­ra­to­ri pro­dut­ti­vi e impro­dut­ti­vi. I lavo­ra­to­ri impro­dut­ti­vi sono colo­ro che non con­tri­bui­sco­no diret­ta­men­te alla pro­du­zio­ne di capi­ta­le.

[5] “segre­ta­rie, impie­ga­ti, recep­tio­ni­st, guar­die di sicu­rez­za, per­so­na­le di puli­zia, e così via, che man­ten­go­no le car­te e gli spa­zi fisi­ci che for­ni­sco­no le con­di­zio­ni neces­sa­rie al pri­mo grup­po di lavo­ra­to­ri per pro­dur­re un sur­plus. Altri tipi di faci­li­ta­to­ri inclu­do­no mana­ger, avvo­ca­ti, archi­tet­ti e con­su­len­ti” (Wol­ff, 2012: 122. Trad. mia).

[6] Il lavo­ro di Wol­ff è del 2012, men­tre il sag­gio di Wright è del 2011. Inol­tre, entram­bi i lavo­ri si con­fron­ta­no con una real­tà pro­fon­da­men­te segna­ta dal­la cri­si del 2008.

Biblio­gra­fia:

Bol­tan­ski, L. e Chia­pel­lo, E., Le nou­vel espi­rit du capi­ta­li­sme, [1999], tr. it. Il nuo­vo spi­ri­to del capi­ta­li­smo. Mila­no-Udi­ne, Mime­sis, 2011.

Burt, R. S., ll capi­ta­le socia­le dei buchi strut­tu­ra­li. Mila­no, Ange­li, 2005. 

Meyer, J.W., Rowan B. (1977). Insti­tu­tio­na­li­zed Orga­ni­za­tions: For­mal Struc­tu­re as Myth and Cere­mo­ny. In «The Ame­ri­can Jour­nal of Socio­lo­gy», 83, 2, pp. 340–363.

Rey­ne­ri, E., Socio­lo­gia del mer­ca­to del lavo­ro: II. Le for­me dell’occupazione. Bolo­gna, Il Muli­no, 2006.

Tal­con, P., The social system, [1951], tr. It. Il siste­ma socia­le. Mila­no, Edi­zio­ni di comu­ni­tà, 1965.

Wol­ff, D. R., Demo­cra­cy at Work: A Cure for Capi­ta­li­sm. Hay­mar­ket Books, Chi­ca­go, 2012.

Wol­ff, D. R., Start with Wor­ker: Self-Direc­ted Enter­pri­ses. The next system pro­ject, onli­ne: https://thenextsystem.org/sites/default/files/2017–08/RickWolff.pdf (ulti­ma visi­ta il 30 dicem­bre 2021).

Wright, E. O., (2012). Tran­sfor­ming Capi­ta­li­sm throu­gh Real Uto­pias. In «Ame­ri­can Socio­lo­gi­cal Review», XX(X), pp. 1 –25.

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