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Maggio
27 Maggio 2024

CON­TRO IL FEM­MI­NI­SMO LIBE­RA­LE: APPUN­TI DI LOT­TA DECO­LO­NIA­LE DAL­LE DON­NE PALE­STI­NE­SI

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Dopo un lun­go perio­do sto­ri­co in cui le don­ne sono sta­te reti­cen­ti a chia­mar­si fem­mi­ni­ste, negli ulti­mi decen­ni il fem­mi­ni­smo è entra­to mas­sic­cia­men­te a far par­te del­la cul­tu­ra “pop”. Oggi spo­po­la ovun­que nei pae­si euro­pei e negli USA, e, se da un lato, c’è indub­bia­men­te del posi­ti­vo, (in tut­to, anche nel­le t‑shirt con su scrit­to “we should all be femi­ni­st”) l’altra fac­cia del­la meda­glia è che a tut­to que­sto non è cor­ri­spo­sto un rea­le rag­giun­gi­men­to del­la pari­tà di gene­re.

Nel tem­po, il fem­mi­ni­smo così gene­ral­men­te inte­so è sta­to sus­sun­to finen­do col diven­ta­re più com­pa­ti­bi­le con gli idea­li neo­li­be­ri­sti e neo­con­ser­va­to­ri che con quel­li di un movi­men­to radi­ca­le ed inter­se­zio­na­le, nato “dal bas­so” e con fina­li­tà rivo­lu­zio­na­rie, qua­le dovreb­be inve­ce esse­re. Nono­stan­te que­sto fem­mi­ni­smo con­dan­ni for­mal­men­te le discri­mi­na­zio­ni e difen­da la liber­tà di scel­ta, pre­ci­sa­men­te si rifiu­ta poi nel con­cre­to, e qua­si siste­ma­ti­ca­men­te, di affron­ta­re le con­di­zio­ni socioe­co­no­mi­che che ren­do­no que­sta liber­tà di scel­ta impra­ti­ca­bi­le per mol­tis­si­me don­ne.

Il capi­ta­li­smo occi­den­ta­le, infat­ti, è diven­ta­to abi­lis­si­mo nel rime­sta­re ed incor­po­ra­re le idee anta­go­ni­ste e i movi­men­ti con­tro­cul­tu­ra­li nel suo flus­so, riu­scen­do addi­rit­tu­ra a disin­ne­sca­re, fino ad eclis­sar­la del tut­to, la matri­ce poli­ti­ca che vi è alla base fino a ren­der­li inno­cui. Le que­stio­ni lega­te alla clas­se e al pri­vi­le­gio, ad esem­pio, non ven­go­no qua­si mai pre­se in con­si­de­ra­zio­ne da que­sto fem­mi­ni­smo ed in modo più o meno pale­se le don­ne non occi­den­ta­li sono spes­so taglia­te fuo­ri dal­le sue nar­ra­zio­ni che si rivol­go­no per­lo­più a cor­pi, iden­ti­tà e a pro­ble­ma­ti­che “bian­che”. Que­stio­ni come il dirit­to alla cit­ta­di­nan­za, il lavo­ro di cura invi­si­bi­le che spes­so si reg­ge sul­le don­ne pove­re e in par­ti­co­la­re sul­le lavo­ra­tri­ci migran­ti sen­za dirit­ti e sen­za tute­le o gli abu­si di pote­re che que­ste spes­so subi­sco­no e han­no dif­fi­col­tà a denun­cia­re, solo per citar­ne alcu­ne, rara­men­te ven­go­no inse­ri­te nell’agenda poli­ti­ca. Eppu­re, l’uguale acces­so ai dirit­ti fon­da­men­ta­li dovreb­be esse­re una prio­ri­tà non nego­zia­bi­le del fem­mi­ni­smo.

Que­sta dico­to­mia di approc­cio e di visio­ne fra l’occidente e il sud glo­ba­le del mon­do è, d’altro can­to, una que­stio­ne che non coin­vol­ge solo lo spet­tro del­le que­stio­ni di gene­re ma è rin­trac­cia­bi­le in una vasta gam­ma di feno­me­ni poli­ti­ci, socia­li ed eco­no­mi­ci e riguar­da anche altre sfe­re, come il raz­zi­smo, i dirit­ti dei lavo­ra­to­ri e l’ambientalismo. Se è vero, dun­que, che nell’era che stia­mo viven­do qua­lun­que feno­me­no vie­ne assor­bi­to, rima­sti­ca­to e rie­la­bo­ra­to come un fon­te di ripro­du­zio­ne del capi­ta­le stes­so, que­sto para­dig­ma assu­me for­me assai grot­te­sche quan­do lo si appli­ca al fem­mi­ni­smo, gene­ran­do sce­na­ri alquan­to disto­pi­ci. Il geno­ci­dio in cor­so in Pale­sti­na è sta­to da que­sto pun­to di vista “rive­la­to­re”, por­tan­do que­sti aspet­ti con­trad­dit­to­ri ad emer­ge­re con­tem­po­ra­nea­men­te e a coz­za­re tra di loro met­ten­do in evi­den­za tut­te le debo­lez­ze e l’inconsistenza del­la natu­ra del fem­mi­ni­smo neo­li­be­ra­le, a comin­cia­re dal dop­pio stan­dard su cui si basa.

Quan­to sta acca­den­do alle don­ne pale­sti­ne­si in que­sto momen­to, infat­ti, non si limi­ta solo alla puli­zia etni­ca, ai bom­bar­da­men­ti, alla per­di­ta dei loro figli, dei loro affet­ti, alla fame e alla sete, al fred­do, alla man­can­za di cure e medi­ci­na­li, alla distru­zio­ne del­le loro case e del­la loro ter­ra. Dal 7 otto­bre sono sta­te ucci­se più di 10.000 don­ne, fra cui 6.000 madri che han­no lascia­to orfa­ni 19.000 bam­bi­ni. Ma a quel­la che è sta­ta defi­ni­ta dall’UN Women, l’agenzia del­le Nazio­ni Uni­te per l’uguaglianza di gene­re e l’empowerment fem­mi­ni­le, “una guer­ra con­tro le don­ne”, che sta minan­do la loro esi­sten­za e la loro digni­tà, si aggiun­ge un’ulteriore feri­ta: quel­la del­la pro­pa­gan­da del fem­mi­ni­smo main­stream.

È dall’inizio del geno­ci­dio che assi­stia­mo a una nar­ra­zio­ne pres­sap­po­chi­sta che ha tro­va­to spa­zio ovun­que, per­mean­do le orga­niz­za­zio­ni inter­na­zio­na­li e le isti­tu­zio­ni, i movi­men­ti del­la socie­tà civi­le e i media main­stream, e che, oltre a dipin­ge­re Israe­le come l’unico model­lo di civil­tà in con­tra­sto con quel bastio­ne d’arretratezza che è il Medio Orien­te, riven­di­ca anche, e all’occorrenza, un fem­mi­ni­smo eli­ta­rio e bor­ghe­se in cui le don­ne, la dife­sa dei loro dirit­ti, o la loro liber­tà di scel­ta, ven­go­no tira­ti in bal­lo a cor­ren­te alter­na­ta, e solo per vali­da­re le posi­zio­ni che in quel deter­mi­na­to momen­to sono rite­nu­te più con­ve­nien­ti. Un fem­mi­ni­smo che si avva­le di una visio­ne sem­pli­ci­sti­ca e bina­ria che vie­ne appli­ca­ta a tut­te le que­stio­ni poli­ti­che e socia­li nel­le qua­li si imbat­te e che si ritro­va in tut­ti quei discor­si che nel tem­po han­no uti­liz­za­to e uti­liz­za­no il lin­guag­gio del­la “libe­ra­zio­ne” per legit­ti­ma­re occu­pa­zio­ni mili­ta­ri, le inva­sio­ni di altre ter­re e i geno­ci­di di inte­ri popo­li.

Se pren­dia­mo ad esem­pio la nar­ra­zio­ne che è sta­ta fat­ta in Ita­lia (e non solo) dei fat­ti avve­nu­ti il 7 otto­bre, potrem­mo ren­der­ci con­to che per set­ti­ma­ne ciò che ha domi­na­to le cro­na­che sono sta­te qua­si esclu­si­va­men­te le don­ne e le vio­len­ze che que­ste han­no subi­to. Non si è par­la­to però di tut­te le don­ne, ma sol­tan­to di quel­le israe­lia­ne. Se è cer­to che, come è sta­to anche suc­ces­si­va­men­te con­fer­ma­to da un report del­le Nazio­ni Uni­te, alcu­ne di quel­le rapi­te dai com­bat­ten­ti di Hamas, han­no subi­to stu­pri e vio­len­ze, non sono però sta­te le uni­che. Nel­la stes­sa nota uffi­cia­le si par­la di gra­vi vio­la­zio­ni dei dirit­ti uma­ni a cui don­ne e ragaz­ze pale­sti­ne­si sono sta­te sot­to­po­ste suc­ces­si­va­men­te all’attacco nel­la Stri­scia di Gaza e in Cisgior­da­nia dal­le For­ze di Dife­sa Israe­lia­ne: que­ste sono sta­te giu­sti­zia­te arbi­tra­ria­men­te, spes­so insie­me ai loro fami­lia­ri, com­pre­si i loro figli, ma anche dete­nu­te e pic­chia­te, sot­to­po­ste a sva­ria­te for­me di stu­pro, minac­ce, vio­len­ze ses­sua­li e trat­ta­men­ti inu­ma­ni e degra­dan­ti. Tut­te noti­zie che non abbia­mo mai let­to in nes­su­na testa­ta nazio­na­le car­ta­cea od onli­ne, e che non han­no mai tro­va­to spa­zio nei talk e negli appro­fon­di­men­ti dei tg. Peral­tro, non si è par­la­to nean­che del­le ragio­ni sto­ri­che e del­le cau­se che han­no por­ta­to alla ven­det­ta di Hamas; i media con coper­tu­ra nazio­na­le han­no spes­so sem­pli­fi­ca­to, fino ad azze­rar­la, una que­stio­ne ata­vi­ca e tra­gi­ca che ha mie­tu­to tan­tis­si­me vit­ti­me fra i pale­sti­ne­si, e in cui, soprat­tut­to nel cor­so del tem­po, han­no avu­to la peg­gio pro­prio le don­ne.

Con­dan­na­re a com­par­ti­men­ti sta­gni, e inte­res­sar­si del­le don­ne negli altri pae­si sol­tan­to quan­do vivo­no in Sta­ti che sono in con­flit­to con i nostri allea­ti o in guer­ra con pae­si ai qua­li ven­dia­mo arma­men­ti per milio­ni e milio­ni di euro — (come fa ad esem­pio l’Italia con lo Sta­to israe­lia­no -) è infat­ti un atteg­gia­men­to tipi­co del­la pro­pa­gan­da del fem­mi­ni­smo libe­ra­le odier­no, ed è uno dei tan­ti modi attra­ver­so i qua­li que­sto sostie­ne l’imperialismo occi­den­ta­le e sfrut­ta i dirit­ti del­le don­ne nel ter­zo mon­do, mas­sa­cran­do­ne la popo­la­zio­ne e dila­pi­dan­do­ne le risor­se. Spes­so uti­liz­za le don­ne anche per crea­re con­sen­so attor­no a tema­ti­che con­si­de­ra­te sacre dall’opinione pub­bli­ca o facen­do leva sui buo­ni sen­ti­men­ti. A gen­na­io un grup­po di intel­let­tua­li fra cui Cor­ra­do Augias, Mas­si­mo Recal­ca­ti, Nata­lia Aspe­si e Con­ci­ta De Gre­go­rio, ha fir­ma­to un appel­lo per dichia­ra­re il 7 otto­bre “fem­mi­ni­ci­dio di mas­sa” in soli­da­rie­tà con le don­ne israe­lia­ne.  Allo stes­so modo non c’è però mai sta­ta, dall’inizio del geno­ci­dio, una fer­ma e aper­ta con­dan­na del­la poli­ti­ca o di que­sti stes­si intel­let­tua­li a quan­to sta facen­do Israe­le alle pale­sti­ne­si, che da più di 7 mesi stan­no  assu­men­do far­ma­ci per bloc­ca­re le loro mestrua­zio­ni, stan­no aven­do cesa­rei sen­za ane­ste­sia e se rie­sco­no a non mori­re di par­to e a par­to­ri­re (a Gaza gli abor­ti sono aumen­ta­ti del 300%), sono costret­te a far­lo per stra­da o sui pavi­men­ti di quel­li che un tem­po era­no ospe­da­li, sal­vo poi spre­ca­re tem­po a sof­fer­mar­si sul­la legit­ti­mi­tà dell’utilizzo del ter­mi­ne geno­ci­dio in meri­to a quan­to sta acca­den­do. Tut­to que­sto, sen­za con­si­de­ra­re che le vio­len­ze subi­te il 7 otto­bre dal­le israe­lia­ne, sono sta­te rico­strui­te con cer­tez­za solo di recen­te, per­ché il gover­no ave­va più vol­te cam­bia­to ver­sio­ne (alcu­ne testi­mo­nian­ze con­ti­nua­no a lascia­re aper­ti mol­ti dub­bi), anche per­ché, pro­prio inter­na­men­te alla reda­zio­ne del New York Times, che per pri­mo ha denun­cia­to le vio­len­ze del 7 otto­bre, c’è sta­ta un’accesa discus­sio­ne sul­la legit­ti­mi­tà di quel pez­zo, che si è con­clu­sa affer­man­do che il sag­gio non avreb­be dovu­to esse­re pub­bli­ca­to per­ché non all’altezza degli stan­dard del gior­na­le, soprat­tut­to dopo che sono sta­ti resi pub­bli­ci alcu­ni post social nei qua­li la gior­na­li­sta che si era occu­pa­ta del caso, Anat Sch­war­tz, inci­ta­va al geno­ci­dio. Pro­muo­ve­re, infi­ne, un appel­lo per dichia­ra­re il 7 otto­bre fem­mi­ni­ci­dio di mas­sa, è piut­to­sto fuor­vian­te e intel­let­tual­men­te diso­ne­sto dal momen­to che con la paro­la fem­mi­ni­ci­dio, come ormai sap­pia­mo, ci si rife­ri­sce a quei casi in cui una don­na vie­ne ucci­sa in quan­to don­na: per gelo­sia, per pos­ses­so, per un’idea di amo­re mala­to. Le don­ne mor­te nell’attentato di Hamas del 7 otto­bre non rien­tra­no di cer­to fra que­ste, anche per­ché, altri­men­ti, dovrem­mo defi­ni­re fem­mi­ni­ci­di di mas­sa tut­te le guer­re in cui muo­io­no del­le don­ne.

In gene­ra­le que­sto atteg­gia­men­to che mira a distrar­re dal dram­ma che si sta con­su­man­do in Medio­rien­te e a silen­zia­re ed inva­li­da­re le lot­te dei movi­men­ti Pro Pale­sti­na si è per­pe­tra­to più vol­te dall’inizio del geno­ci­dio e sem­pre uti­liz­zan­do l’artificio reto­ri­co del­le don­ne e del­la vio­len­za che que­ste subi­sco­no. Duran­te le mani­fe­sta­zio­ni orga­niz­za­te per la gior­na­ta del 25 novem­bre, ad esem­pio, le fem­mi­ni­ste ita­lia­ne che sono sce­se in piaz­za a mani­fe­sta­re con­tro la stra­ge dei fem­mi­ni­ci­di nel nostro pae­se sono sta­te redar­gui­te dal­la mini­stra Roc­cel­la (e non solo) per ave­re esclu­so le don­ne israe­lia­ne dal­le loro riven­di­ca­zio­ni, un’accusa non solo fal­sa, come è sta­to amplia­men­te dimo­stra­to da alcu­ni uten­ti su Twit­ter, ma pri­va di qual­sia­si logi­ca dal momen­to che trat­tan­do­si del­la Gior­na­ta inter­na­zio­na­le con­tro la vio­len­za sul­le don­ne, era scon­ta­to si stes­se mani­fe­stan­do con­tro la vio­len­za su tut­te le don­ne, a pre­scin­de­re dal­la loro nazio­na­li­tà.

Il 13 e 14 apri­le, inve­ce, in segui­to alla rispo­sta ira­nia­na all’attacco israe­lia­no del 1 apri­le in cui Israe­le ave­va assal­ta­to il con­so­la­to ira­nia­no a Dama­sco ucci­den­do 13 per­so­ne, mol­ti gior­na­li ita­lia­ni fra cui Repub­bli­ca e Huf­fing­ton Post, han­no comin­cia­to a ripo­sta­re video e noti­zie (anche risa­len­ti ai mesi scor­si) di ragaz­ze ira­nia­ne che veni­va­no arre­sta­te per non aver indos­sa­to cor­ret­ta­men­te il velo. Noti­zie ripro­po­ste a mesi di distan­za, in modo del tut­to non con­te­stua­le, for­se con l’intento di atti­ra­re l’attenzione altro­ve e in qual­che modo far­ci dimen­ti­ca­re del­la poli­ti­ca geno­ci­da di Israe­le. Sicu­ra­men­te pro­por­re una nar­ra­zio­ne così net­ta e pri­va di con­te­sto par­lan­do alla pan­cia del­le per­so­ne gene­ra un rifiu­to tota­le oltre che un odio indi­scri­mi­na­to ver­so un nemi­co (in que­sto caso l’Iran) e ren­de di cer­to più faci­le accet­ta­re l’idea che un’ambasciata ven­ga bom­bar­da­ta, o che colo­ro i qua­li l’hanno bom­bar­da­ta pro­se­gua­no indi­stur­ba­ti nel loro pro­get­to geno­ci­da. Che le poli­ti­che anti­fem­mi­ni­li dell’Iran sia­no da con­dan­na­re è fuo­ri discus­sio­ne, ma ciò non toglie che le due cose non si esclu­da­no a vicen­da: si può infat­ti esse­re indi­gna­ti con­tem­po­ra­nea­men­te sia per la poli­ti­ca vio­len­ta nei con­fron­ti del­le don­ne del gover­no ira­nia­no che per quel­la scel­le­ra­ta e geno­ci­da di Israe­le.

Un’al­tra carat­te­ri­sti­ca del fem­mi­ni­smo neo­co­lo­nia­le, infi­ne, è quel­la di igno­ra­re di esse­re par­te del pro­ble­ma, evi­tan­do di met­ter­si in dub­bio o di ana­liz­za­re i pro­pri pri­vi­le­gi, un atteg­gia­men­to che con­cor­re così facen­do indi­ret­ta­men­te ad incen­ti­va­re e a sedi­men­ta­re una visio­ne nel­la qua­le le don­ne che vivo­no al di fuo­ri dell’Europa o del mon­do occi­den­ta­le sono infe­rio­ri, pri­ve di pote­re deci­sio­na­le e col biso­gno costan­te di esse­re pro­tet­te e sal­va­te. Uno dei pila­stri sui qua­li si fon­da que­sto fem­mi­ni­smo neo­co­lo­nia­le è la mis­sio­ne civi­liz­za­tri­ce. Que­sta con­si­ste pre­va­len­te­men­te nell’ignorare le rea­li pro­ble­ma­ti­che del­le don­ne nere, raz­zia­liz­za­te e colo­niz­za­te e che assu­men­do impli­ci­ta­men­te che ovun­que esse si tro­vi­no pos­sie­da­no la pro­pria voce e la pro­pria resi­lien­za, e nell’arrogarsi il dirit­to di giu­di­ca­re — e poi di agi­re — in con­te­sti e situa­zio­ni che non cono­sce, col risul­ta­to, in Pale­sti­na come in altre ter­re che han­no subi­to il colo­nia­li­smo, di ampli­fi­ca­re le tra­ge­die attra­ver­so il suo inter­ven­to.

Nel 2001 ad esem­pio, ovve­ro quan­do mol­ti i pae­si occi­den­ta­li han­no comin­cia­to ad inte­res­sar­si alla con­di­zio­ne del­le don­ne afgha­ne, mol­te espo­nen­ti del fem­mi­ni­smo bian­co e libe­ral ame­ri­ca­no han­no soste­nu­to l’invasione di quel­le ter­re al gri­do di “libe­ria­mo le don­ne afgha­ne”. Ma c’è un però: le don­ne afgha­ne non ave­va­no mai chie­sto o pen­sa­to di chie­de­re l’aiuto di  Meryl Streep, a mag­gior ragio­ne se si con­si­de­ra che era­no sta­ti pro­prio gli Usa, in pre­ce­den­za, a sov­ven­zio­na­re, rifor­nen­do­li di armi, i tale­ba­ni, in fun­zio­ne anti­so­vie­ti­ca. All’epoca, infat­ti, non sem­bra­va affat­to esse­re un pro­ble­ma che que­sti fos­se­ro con­tro ogni for­ma di demo­cra­zia, dei fol­li inte­gra­li­sti, così come non sem­bra­va un pro­ble­ma che impo­nes­se­ro alle don­ne di por­ta­re il velo inte­gra­le. Inol­tre, anche se duran­te la loro per­ma­nen­za in Iraq una par­te del­la popo­la­zio­ne fem­mi­ni­le ha bene­fi­cia­to di alcu­ni dirit­ti, le don­ne han­no comun­que con­ti­nua­to a subi­re vio­len­ze e ad esse­re discri­mi­na­te e oggi, ovve­ro da quan­do le trup­pe ame­ri­ca­ne si sono riti­ra­te, e i tale­ba­ni sono ritor­na­ti al pote­re anco­ra più for­ti di pri­ma, le don­ne si tro­va­no a fron­teg­gia­re ulte­rio­ri e ampli­fi­ca­te dif­fi­col­tà dal momen­to che il pae­se sta attra­ver­san­do una cri­si uma­ni­ta­ria aggra­va­ta in cui la popo­la­zio­ne fem­mi­ni­le (cir­ca la metà) è esclu­sa da ogni for­ma di vita socia­le.

Sul­la con­di­zio­ne del­le don­ne pale­sti­ne­si da sem­pre, e anche in que­sti mesi, si è ten­ta­to di fare pro­pa­gan­da, non si è par­la­to del­la loro con­di­zio­ne effet­ti­va ma piut­to­sto, quan­do sono sta­te pro­ta­go­ni­ste sono sta­te dipin­te solo ed esclu­si­va­men­te come suc­cu­bi di un siste­ma socia­le arcai­co e disu­ma­no. Nono­stan­te Israe­le pro­pa­gan­di le sue poli­ti­che in favo­re del­le don­ne, del­la diver­si­tà ses­sua­le e di gene­re, è sta­to pro­prio esso stes­so ad inqua­drar­le e ad anco­rar­le (lo fa da decen­ni) in una rap­pre­sen­ta­zio­ne cri­stal­liz­za­ta che le vuo­le diver­se cul­tu­ral­men­te, assog­get­ta­te in strut­tu­re bru­ta­li e vio­len­te, in balia di uomi­ni bestia­li e disu­ma­ni e non ulti­mo, come ter­ro­ri­ste e cri­mi­na­li. Spes­so alle don­ne la pro­pa­gan­da sio­ni­sta con­trap­po­ne l’immagine del­la don­na israe­lia­na, libe­ra­le ed eman­ci­pa­ta tan­to da esse­re reclu­ta­ta addi­rit­tu­ra nell’esercito. Israe­le si fre­gia di esse­re uno dei pochi Sta­ti al mon­do che incor­po­ra le don­ne nei pro­pri siste­mi di dife­sa attra­ver­so l’arruolamento obbli­ga­to­rio e spes­so lo nar­ra come l’apice dell’emancipazione fem­mi­ni­le, tut­ta­via, il fat­to che que­sto stes­so siste­ma sot­to­met­ta altre per­so­ne, e altre don­ne — di soli­to pale­sti­ne­si — non vie­ne qua­si mai men­zio­na­to. Que­sta visio­ne si è man mano este­sa con­ta­gian­do tut­to l’Occidente e raf­for­zan­do i già pre­sen­ti pre­giu­di­zi bece­ri, isla­mo­fo­bi e raz­zi­sti, non solo sul­le pale­sti­ne­si ma su tut­te le don­ne del mon­do ara­bo, musul­ma­ne e non.

Da sem­pre le pale­sti­ne­si com­bat­to­no que­sto ste­reo­ti­po, cer­can­do anzi di met­te­re in luce l’intersezione del­le oppres­sio­ni nazio­na­li, socia­li ed eco­no­mi­che e denun­cian­do l’intrinseco nucleo patriar­ca­le del regi­me di oppres­sio­ne in cui­so­no costret­te a vive­re. Come tut­te le oppres­sio­ni, sia il colo­nia­li­smo che il patriar­ca­to han­no a che fare con il domi­nio e l’esercizio del­la for­za e sono entram­be mos­se dal­la stes­sa idea di appro­pria­zio­ne, che può riguar­da­re un cor­po ma che può anche riguar­da­re l’occupazione ille­git­ti­ma di un ter­ri­to­rio. Pro­prio per que­sto moti­vo, al con­tra­rio di quel­lo che gene­ral­men­te si cre­de, sono inve­ce mol­to più affran­ca­te­di quan­to si pos­sa super­fi­cial­men­te pen­sa­re. Que­sto non signi­fi­ca di cer­to che in Pale­sti­na i dirit­ti del­le don­ne sia­no garan­ti­ti, anche per­ché di sicu­ro, lo sta­to di oppres­sio­ne costan­te in cui la popo­la­zio­ne è costret­ta a vive­re da decen­ni non aiu­ta l’evolversi dei più basi­la­ri dirit­ti civi­li, inci­den­do nega­ti­va­men­te anche sul loro cam­mi­no ver­so l’emancipazione. Pen­sa­re però che Israe­le o l’Italia o gli USA o qual­sia­si altro gover­no occi­den­ta­le rap­pre­sen­ti la sal­vez­za da que­sta miso­gi­nia piut­to­sto che incar­nar­ne, in par­te, una del­le radi­ci è total­men­te irrea­li­sti­co oltre che asto­ri­co.

L’emancipazione, infat­ti, non è qual­co­sa che può esse­re cala­ta dall’alto e di sicu­ro non spet­ta ad una ristret­ta cer­chia di ric­chi e ric­che bian­chi, occi­den­ta­li e pri­vi­le­gia­ti deci­de­re come deb­ba­no eman­ci­par­si le don­ne negli altri Sta­ti, o nel sud glo­ba­le del mon­do. Di sicu­ro, nes­sun fem­mi­ni­smo cer­che­rà mai di ricrea­re i suoi model­li e i suoi valo­ri con la for­za in altri luo­ghi. In fon­do, il fem­mi­ni­smo non ha a che fare con il “cosa” si sce­glie, ma con la pos­si­bi­li­tà di “poter sce­glie­re”.  Le pale­sti­ne­si han­no scel­to di ribel­lar­si tan­to tem­po fa e han­no da sem­pre avu­to un ruo­lo chia­ve nel­la lot­ta per la riven­di­ca­zio­ne del­la loro ter­ra. Oggi, fra mil­le dif­fi­col­tà, con­ti­nua­no a fare lo stes­so, dal momen­to che a Gaza e in altre cit­tà dive­nu­te cam­pi di con­cen­tra­men­to a cie­lo aper­to (con buo­na pace dell’ANPI), non sono poche le gior­na­li­ste gio­va­ni, col­te e indi­pen­den­ti che rischian­do la loro vita stan­no testi­mo­nian­do il geno­ci­dio in cor­so — Ple­stia Ala­qad, Noor Haraa­zen e Wizard Bisan, solo per citar­ne alcu­ne. Que­ste don­ne stan­no ride­fi­nen­do e col­lau­dan­do un nuo­vo con­cet­to di libe­ra­zio­ne nazio­na­le, e come reci­ta uno degli slo­gan più cele­bri del mani­fe­sto di Tal’at, il movi­men­to fem­mi­ni­sta che reim­ma­gi­na la Pale­sti­na, san­no bene che “Non ci può esse­re libe­ra­zio­ne nazio­na­le sen­za la libe­ra­zio­ne del­le don­ne”. Sono ben con­sa­pe­vo­li, cioè, del filo che lega etnia, nazio­na­li­smo e dirit­ti del­le don­ne e pro­prio da que­sto sor­ge il biso­gno di deco­strui­re entram­be le oppres­sio­ni, quel­la patriar­ca­le e quel­la colo­nia­le, facen­do­ne il ful­cro del­la loro resi­sten­za attra­ver­so la lot­ta inter­se­zio­na­le, con un approc­cio deco­lo­nia­le e mul­ti­di­men­sio­na­le.

È que­sto l’unico modo per evi­ta­re che le lot­te e il fem­mi­ni­smo si gerar­chiz­zi­no su una sca­la di urgen­za la cui cor­ni­ce è det­ta­ta da pre­giu­di­zi o dal luo­go geo­gra­fi­co in cui ci si tro­va. È da qui allo­ra che è neces­sa­rio pren­de­re spun­to per met­te­re in pra­ti­ca una lot­ta vera­men­te tra­sver­sa­le con­tro il patriar­ca­to, la vio­len­za di gene­re, il colo­nia­li­smo e la segre­ga­zio­ne, e con­tro ogni gene­re di mar­gi­na­liz­za­zio­ne. Le don­ne pale­sti­ne­si oggi, al fian­co di quel­le cur­de del Roja­va o alle Black femi­nists afri­ca­ne, stan­no di sicu­ro ridi­se­gnan­do i con­fi­ni del fem­mi­ni­smo che ver­rà, un fem­mi­ni­smo che non solo è inter­se­zio­na­le, deco­lo­nia­le, mul­ti­di­men­sio­na­le e non gerar­chi­co ma cha ha in sé il ger­me di un ribal­ta­men­to di pro­spet­ti­va rivo­lu­zio­na­rio per­ché abban­do­na le rigi­de sud­di­vi­sio­ni fra la teo­ria e l’esperienza per lascia­re final­men­te spa­zio a chi lo vive sul­la pro­pria pel­le, ovun­que e ogni gior­no.

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