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29 Agosto 2022

CINA-TAIWAN: QUARTA CRISI DELLO STRETTO O PROVE TECNICHE DI ANNESSIONE?

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La visita da parte di Nancy Pelosi, speaker della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, a Taiwan lo scorso 3 agosto ha riaperto la ferita, mai suturata, nell’orgoglio di Pechino. Per qualche ora gli occhi del mondo intero non si sono staccati dalla traccia radar dell’aereo della Pelosi, tanto che il più importante sito di tracciamento aereo è andato in crash a causa del numero di persone collegate, volenterose di capire se la Repubblica Popolare Cinese (RPC) si sarebbe opposta o meno all’arrivo della terza carica più importante degli Stati Uniti a Taipei. La visita si è conclusa senza intoppi, ma non appena la speaker ha lasciato l’isola la RPC ha dato il via a massicce esercitazioni militari intorno a quella che considerano a tutti gli effetti una provincia ribelle; in molti, tra cui il sottoscritto, ritengono che questa prova di forza sia diversa da quelle del passato e che possa essere una ‘prova generale’ per la conquista di Taiwan. Prima di proseguire nell’analisi dei fatti correnti è però necessario un passo indietro nella storia della conflittuale relazione fra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, senza il quale non si può comprendere l’importanza ideologica e strategica dell’isola di Formosa per Cina e Stati Uniti.

Formosa, nome attribuito dai coloni portoghesi all’odierna Taiwan, a partire dalla metà del ‘600 è stata oggetto di rapporti tributari con la Cina, prima di passare in mano al Giappone dopo la sconfitta nella prima guerra sino-giapponese (1894–1895) sancita dall’umiliante trattato di Shimonoseki. La firma della pace comportò per la Cina un’umiliazione sia dal punto di vista territoriale, con la cessione della penisola di Liaodong, delle isole Pescadores e ovviamente di Taiwan, sia dal punto di vista economico e morale. Il controllo su questi avamposti negli anni successivi costituì la rampa di lancio per la dominazione coloniale giapponese nei confronti della Cina continentale e del resto dell’Asia. Il Giappone rimase in possesso del territorio fino al 1945, quando, devastato dalle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, fu costretto ad accettare una resa senza condizioni e a cedere tutti i propri possedimenti coloniali. A questo punto inizia la storia odierna della Repubblica di Cina, scelta come rifugio nel 1949 dalle truppe del Kuomintang guidate da Chang Kai-Shek, sconfitto dai comunisti di Mao Zedong che nel frattempo a Pechino avevano proclamato la nascita della Repubblica Popolare Cinese.

La piccola isola, con un’estensione di soli 36.197 km², di fronte al gigante cinese, che invece si estende per 9.597.000 km² non avrebbe avuto alcuna possibilità di resistere in caso di invasione, ma la sorte, o la geopolitica, accorse in aiuto dei nazionalisti: infatti a contendersi il primato globale erano rimaste l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, ciascuno con i propri alleati e con il proprio portato ideologico e storico-politico. In questo nuovo sistema internazionale, gli Stati Uniti adottarono la strategia del contenimento nei confronti dei regimi di stampo comunista e decisero di supportare il governo di Taipei per ostacolare la RPC di Mao. Da quel momento in poi Taiwan è diventato per gli USA un formidabile strumento di pressione nei confronti della Cina. Parallelamente, Taipei è stata in grado di avviare un processo di sviluppo economico senza precedenti che le ha fatto conquistare l’appellativo di ‘tigre asiatica’, elevando così lo standard di vita dei propri cittadini. All’apertura e allo sviluppo in campo economico non ha seguito una contestuale liberalizzazione politica, almeno fino al 1987, anno in cui venne abolita la legge marziale che vigeva ormai dal ’49 e che diede inizio al processo di democratizzazione dell’isola, elevata da Washington ad esempio per tutte le nazioni asiatiche. 

Tra il 1960 e il 1961 la storica alleanza tra URSS e RPC si era interrotta bruscamente e la fallimentare strategia cinese in politica estera volta a ottenere il ruolo di guida del ‘Terzo Mondo’, già approntata a partire dalla Conferenza di Bandung del 1955, aveva prodotto scarsi risultati sia in Asia che in Africa. A fronte di un isolamento sempre più marcato, aggravato dalle relazioni conflittuali con l’India e delle enormi tensioni prodotte dalla Rivoluzione culturale, Mao iniziò a pensare di poter riallacciare i legami con l’odiato nemico che ancora supportava la causa indipendentista di Taiwan. Nel frattempo, oltreoceano, nel 1968 il Presidente Nixon aveva pubblicamente espresso il proprio interesse a migliorare le relazioni con Pechino e l’anno successivo con l’enunciazione dell’omonima dottrina aprì al progressivo raffreddamento del conflitto in Vietnam. Sulla base di queste premesse e dell’ormai comune inimicizia nei confronti dell’Unione Sovietica, nel 1971 venne inaugurata la cosiddetta ‘diplomazia del ping  pong’ che avrebbe portato all’accettazione da parte degli USA e dei suoi alleati della Repubblica Popolare Cinese all’ONU in qualità di membro permanente. La conseguente espulsione del governo di Taipei e la visita di Nixon a Pechino l’anno seguente ha segnato una svolta ma allo stesso tempo ha dato il via ad anni di ambiguità da parte di Washington, che se da una parte ha sostenuto il concetto di un’unica Cina, dall’altra ha armato e aiutato Taiwan a difendersi dal suo ingombrante vicino.

Nel corso degli ultimi 70 anni si sono verificati tre importanti episodi di tensione nello stretto di Taiwan, tensioni che non sono sfociate in guerra solo grazie alla totale superiorità della marina militare americana che ha impedito alla Cina di compiere azioni avventate. Oggi, di fronte all’ascesa economica e militare di Pechino e alla conseguente rivalutazione della forza dell’esercito americano, in ogni caso ancora superiore a quello cinese, lo scenario potrebbe modificarsi e portare ad uno scontro per il controllo dell’isola. Xi Jinping ha dichiarato di voler riannettere Taiwan entro il 2049, centenario della nascita della RPC, sia per ragioni di orgoglio nazionale, sia per ragioni economiche e strategiche; se sono abbastanza evidenti le motivazioni che spingerebbero la Cina ad entrare in guerra per assoggettare al suo dominio Taiwan, potrebbero sembrare meno chiari i motivi per cui gli Stati Uniti rischierebbero un conflitto diretto con la seconda potenza globale per difendere un territorio che si trova migliaia di chilometri dalle sue coste. Sono tre i principali ordini di motivi che potrebbero portare gli USA ad impegnarsi direttamente nella difesa di Taiwan;

  1. Economici: Taiwan, grande una volta e mezzo la Sicilia, è la 22° economia mondiale in termini di PIL, sede di colossi economici e finanziari e scalo commerciale fondamentale in Asia. Se ciò non bastasse, è il più grande produttore mondiale di microchip, con circa il 60% di quest’ultimi che passano dall’isola prima di essere esportati in tutto il mondo. Possedere più della metà dei microchip mondiali significa avere un vantaggio enorme nella produzione di dispositivi elettronici, medici, automobilistici nonché nei settori dell’aeronautica e della missilistica sia ad uso civile che militare.
  2. Strategici: Come detto, Taiwan è stata individuata da metà del secolo scorso come strumento di pressione nei confronti del dragone asiatico ma si è successivamente trasformata in un territorio fondamentale per contenere la rapida ascesa cinese a partire dalla presidenza di Deng Xiaoping. Possiamo considerare Taiwan come una sorta di cerniera che forma la prima linea di contenimento delle rinnovate ambizioni cinesi; una linea che parte a nord dal Giappone, passa per le Filippine e termina a sud verso l’Indonesia. Nel caso in cui questo sbarramento fosse rotto dai cinesi con la presa di Taiwan, per gli americani nascerebbe un importante problema strategico, dato che la marina cinese avrebbe strada (quasi) libera nell’Oceano Pacifico.
  3. Credibilità: Non è un mistero che gli USA si siano arrogati il ruolo di difensori della democrazia e dell’ideologia liberale a partire dal 1945 in poi; gran parte del dominio americano si è fondato e continua a fondarsi su questo paradigma, sebbene più volte smentito dai fatti. Nel caso in cui gli americani non intervenissero a difesa del loro alleato democratico di fronte all’aggressione della Cina autoritaria, certamente subirebbero uno smacco dal punto di vista della credibilità che non si ripercuoterebbe solamente nell’Indo-Pacifico, ma anche in un’Europa sempre più lontana da una visione strategica comune e che fa largo affidamento sulla protezione offerta dalla NATO, quindi in sostanza dagli USA. 

La visita di Nancy Pelosi a Taiwan è stata in un certo senso ‘obbligata’ dopo le minacce da parte cinese, dato che se non si fosse tenuta avrebbe lasciato intendere che il veto posto da Pechino all’atterraggio aveva superato la volontà americana, la cui autorità sarebbe stata duramente intaccata. Se è vero ciò, è però anche vero che in questo modo ha offerto la possibilità alla RPC di dar via ad esercitazioni militari durature sulle coste del Fujian e nel Mar Cinese Meridionale che alzano la tensione a livello internazionale, in un momento in cui di certo le tensioni non mancano. Subito dopo, Pechino ha annunciato sanzioni contro Taiwan e contro gli USA, oltre alla cessazione delle comunicazioni con gli apparati militari americani. 

La leadership cinese ha dichiarato che entro il 2049 Taipei dovrà cessare di essere un’entità separata ma questo momento potrebbe anche essere anticipato e alcuni motivi spingono a pensare in tal senso. Gli USA sono impegnati in una guerra per procura, checché se ne dica, contro la Russia, per mezzo degli ucraini, inoltre sono lacerati internamente dalle ben note questioni razziali e il Presidente Biden gode di un consenso ai minimi storici e infine l’Inflazione galoppante sta erodendo il potere d’acquisto della classe media americana. Dall’altra parte la Cina ha visto rallentare la sua crescita economica e la strategia zero covid ha inasprito le tensioni sociali, la bolla immobiliare sembra pronta a esplodere da un momento all’altro e quindi quale miglior modo per distogliere l’attenzione dei cittadini se non la riconquista tanto attesa della provincia ribelle? In più l’esercito è già schierato intorno all’isola e la guerra in Ucraina ci ha insegnato che tra un’esercitazione e un’invasione militare il confine non è poi così ampio. Certo, come detto, gli USA dispongono ancora di una supremazia militare nei confronti della Cina, che ha però ridotto il divario nell’ultimo ventennio, e Taiwan è stata largamente armata e preparata dagli USA per infliggere danni devastanti a Pechino, danni così ingenti che potrebbero sconsigliare una conquista militare dell’isola. Per queste ed altre ragioni Pechino potrebbe decidere di non giocare l’all-in, agire con sanzioni economiche che strangolino i taiwanesi e osservare il corso degli eventi ma è evidente che rispetto alle prime tre crisi dello Stretto questa sia di diversa natura e presenti pericoli enormi, soprattutto alla luce dell’incendiaria situazione internazionale. 

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