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4 Novembre 2024

CATAR­SI ELET­TRO­NI­CHE

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Tor­na­re Indie­tro

Per ini­zia­re ad ana­liz­za­re l’estasi non si può che par­ti­re dal­le paro­le di Ari­sto­te­le nel­la Poe­ti­ca:

“Tra­ge­dia è imi­ta­zio­ne di un’a­zio­ne seria e com­piu­ta, aven­te una sua gran­dez­za, in un lin­guag­gio con­di­to da orna­men­ti, sepa­ra­ta­men­te e per cia­scun ele­men­to nel­le sue par­ti, di per­so­ne che agi­sco­no e non tra­mi­te una nar­ra­zio­ne, che attra­ver­so la pie­tà e la pau­ra pro­du­ce la puri­fi­ca­zio­ne di que­sti sen­ti­men­ti” (Ari­sto­te­le, 1998 [IV sec. a.C.], p. 13).

La defi­ni­zio­ne ari­sto­te­li­ca di tra­ge­dia, nel­la qua­le fa capo­li­no il con­cet­to di catar­si, è sta­ta ogget­to nel cor­so dei seco­li di un ampio dibat­ti­to su qua­le signi­fi­ca­to attri­buir­vi e cosa Ari­sto­te­le voles­se indi­ca­re come ulti­mo ingre­dien­te fon­da­men­ta­le dell’opera tra­gi­ca.

L’ac­ce­zio­ne più ricor­ren­te di catar­si è puri­fi­ca­zio­ne, da un lato in sen­so reli­gio­so e misti­co, dall’altro in sen­so medi­co come ‘pur­ga’, ovve­ro l’ef­fet­to del­l’as­sun­zio­ne di qual­co­sa che allon­ta­ni le impu­ri­tà del­l’or­ga­ni­smo. 

La catar­si è quel mec­ca­ni­smo che ren­de tol­le­ra­bi­li e fecon­di i sen­ti­men­ti rischio­si di pie­tà e ter­ro­re con­nes­si all’intuizione tra­gi­ca dell’esistenza. La posi­ti­vi­tà del suo effet­to è sta­ta ricon­dot­ta a vol­te alla tran­quil­liz­za­zio­ne emo­ti­va o ad una soli­di­tà dal pun­to di vista eti­co e/o del­la coscien­za razio­na­le, ovve­ro ad una mag­gio­re tra­spa­ren­za di sen­so. 

La mag­gio­re con­tro­ver­sia è sta­ta il rap­por­to tra le emo­zio­ni del­lo spet­ta­to­re e quel­le ripor­ta­te nel­la per­for­man­ce arti­sti­ca. La media­zio­ne rap­pre­sen­ta­ti­va, infat­ti, le pone in un rap­por­to di affi­ni­tà ma non di iden­ti­tà, lo spet­ta­to­re vive il dram­ma dell’eroe in sce­na ma non è l’eroe stes­so, ed è ciò che por­ta ad inter­ro­gar­si sull’entità del­la ‘pur­ga’.

Una tota­le eli­mi­na­zio­ne del­le emo­zio­ni noci­ve o un livel­la­men­to dell’eccesso? 

Lo spet­ta­to­re, come il suo ruo­lo indi­ca, subi­sce l’azione dell’artista/eroe in sce­na e attra­ver­so lo stes­so dovreb­be rag­giun­ge­re un’ esta­si che lo por­ti ad un sol­lie­vo dell’animo. 

I per­so­nag­gi dise­gna­ti dal mito, che per sua natu­ra è l’immagine con­cen­tra­ta del mon­do infat­ti, come scri­ve lo stu­dio­so Gior­gio Iera­nò nel suo sag­gio Eroi,  “non sono immu­ni da tut­te le pas­sio­ni e i dolo­ri degli uomi­ni e gra­zie a que­sto ci ricor­da­no la nostra stes­sa inna­ta uma­ni­tà che la socie­tà con­tem­po­ra­nea ci bloc­ca dal riconoscere”(Ieranò 2019, 9).

La tra­ge­dia, non può fare a meno del mira­co­lo tita­ni­co del mito. Non può fare a meno nean­che, però, di Apol­lo.

La cul­tu­ra gre­ca, per Nie­tzsche, con­sta di apol­li­neo — l’elemento com­po­sto, dedi­to alla bel­lez­za — e di dio­ni­sia­co — la dimen­sio­ne vita­li­sti­ca, esta­ti­ca; lo stes­so vale per la tra­ge­dia gre­ca in cui l’ordine clas­si­co sot­tin­ten­de la sfre­na­tez­za del­le pas­sio­ni e dei desti­ni.

Pri­ma, e con­tem­po­ra­nea­men­te, alla tra­ge­dia, era­no emer­se altre for­me che uti­liz­za­va­no espe­rien­ze ana­lo­ghe in con­te­sti per­for­ma­ti­vi e che intrat­te­ne­va­no lega­mi più stret­ti con espres­sio­ni cul­tu­ra­li misti­co reli­gio­se. I cul­ti mistici/religiosi dio­ni­sia­ci han­no sem­pre fat­to par­te del ritua­le cicli­co annua­le, a brac­cet­to con gli ago­ni tea­tra­li e altri riti reli­gio­si.  Mol­ti inter­pre­ti del­la Poe­ti­ca si sono anche rife­ri­ti a un pas­so del­la Poli­ti­ca che par­la di catar­si e del­la pro­prie­tà del­le arti per­for­ma­ti­ve, come la musi­ca, di eser­ci­ta­re un ruo­lo tera­peu­ti­co per cer­ti sta­ti emo­zio­na­li dan­no­si o per momen­ti inter­ro­ga­ti­vi e con­tem­pla­ti­vi. Nie­tzsche riba­di­sce que­sto effet­to tera­peu­ti­co dell’atto catar­ti­co in La Nasci­ta del­la Tra­ge­dia (1977 [1876], 26): “can­tan­do e dan­zan­do, l’uomo si mani­fe­sta come mem­bro di una comu­ni­tà supe­rio­re: ha disim­pa­ra­to a cam­mi­na­re e a par­la­re ed è pron­to a vola­re in cie­lo dan­zan­do”.

Nie­tzsche par­la del musi­ci­sta dio­ni­sia­co come di colui che è il dolo­re ori­gi­na­rio stes­so e al con­tem­po l’eco di quel dolo­re: moto­re del mon­do e non solo por­ta­to­re del pro­prio per­so­na­le io.

Solo così egli è con­tem­po­ra­nea­men­te sog­get­to e ogget­to: non vi sono distan­ze con il frui­to­re del­la crea­zio­ne arti­sti­ca.

L’effetto bene­fi­co di que­sta ripu­li­tu­ra può per­ciò appa­ri­re solo in un con­te­sto con­gruo, libe­ro, sti­mo­lan­te ma soprat­tut­to dio­ni­sia­co. 

È mia inten­zio­ne indi­vi­dua­re la festa come il luo­go idea­le per l’azione tra­gi­ca com­ple­ta. 

O per l’effetto di bevan­de nar­co­ti­che, can­ta­te da tut­ti i poe­ti pri­mi­ti­vi, o per l’arrivo di pode­ro­si cam­bi nel­la natu­ra che desta­no gli ani­mi uma­ni, gli impul­si dio­ni­sia­ci pren­do­no pie­de por­tan­do all’oblio di sé.

La festa è l’e­spe­rien­za che ricor­re cicli­ca­men­te e attra­ver­so la qua­le si spe­ri­men­ta una diver­sa dimen­sio­ne vita­le, è l’attimo sospe­so nell’esistenza ordi­na­ria che ordi­na­rio non è. Una sot­ti­le linea funam­bo­li­ca tra la limi­ta­tez­za indi­vi­dua­le e la tre­men­da fol­lia miti­ca.

Per la sua essen­za essa offre ai mem­bri di una comu­ni­tà un tem­po­ra­neo sol­lie­vo che li con­du­ce a flui­re nel­la cor­ren­te del­la vita infi­ni­ta per ricon­giun­ger­si ai loro ante­na­ti. L’importanza del momen­to festi­vo all’interno di una socie­tà “sana” vie­ne affron­ta­to lun­ga­men­te da Aldous Hux­ley, in Le por­te del­la per­ce­zio­ne: Para­di­so e Infer­no (1954, 79) scri­ve che, para­fra­san­do, un atto festi­vo vie­ne com­piu­to su un pia­no di esi­sten­za uma­na diver­so da quel­lo quo­ti­dia­no dove tut­to è come al pri­mo gior­no, dove si è uni­ti agli dèi dove anzi si diven­ta dèi.

Il signi­fi­ca­to puri­fi­ca­to­re di catar­si quin­di si lega a dop­pio filo all’esperienza reli­gio­sa dei cul­ti misti­ci e dio­ni­sia­ci. Pro­prio da essi, infat­ti, dove­va nasce­re la tra­ge­dia, già nel ter­mi­ne vi è il rife­ri­men­to al capro e al cul­to di Dio­ni­so. Il capro era l’animale a lui sacro, veni­va sacri­fi­ca­to nel­le feste in suo ono­re men­tre i segua­ci del dio dan­za­va­no e can­ta­va­no, masche­ra­ti da capro­ni, in cori gui­da­ti dai cori­fei. Pian pia­no que­sti diven­ta­ro­no can­to­ri soli­sti e nar­ra­va­no, in alter­nan­za col coro, le vicen­de di Dio­ni­so – in pri­ma per­so­na. La tra­ge­dia, quin­di, deri­va dal­la fusio­ne del­la for­ma più anti­ca di dan­za e can­to cora­le (diti­ram­bo) con i bal­li ritua­li in ono­re di Dio­ni­so ese­gui­ti da uomi­ni, come det­to, masche­ra­ti. 

Il lega­me arcaico/festivo è anda­to a scom­pa­ri­re sot­to il peso di una puri­fi­ca­zio­ne imbor­ghe­si­ta da un’er­ro­nea inter­pre­ta­zio­ne del con­cet­to ari­sto­te­li­co di catar­si, che ha dimen­ti­ca­to il dio­ni­sia­co e segui­to la sola linea dell’apollineo, disgre­gan­do dun­que il con­cet­to di tra­ge­dia, e che non cer­ca più di strap­pa­re il dolo­re dall’animo e libe­rar­lo nel mon­do ma ben­sì di appiat­ti­re le coscien­ze ad un livel­lo comu­ne. D’altronde il mag­gior suc­ces­so nel­la repres­sio­ne del­le pas­sio­ni si ottie­ne garan­ten­do ad esse uno sfo­go inno­cuo. 

Per recu­pe­ra­re il sen­so tra­gi­co come già scri­ve Nie­tzsche in La Nasci­ta del­la Tra­ge­dia (1977 [1876], 30): “dob­bia­mo per così dire disfa­re pie­tra per pie­tra il genia­le edi­fi­cio del­la cul­tu­ra apol­li­nea, fino a scor­ge­re le fon­da­men­ta su cui esso è basa­to”.

È nel cor­so del XVI seco­lo che il con­cet­to di catar­si si deli­nea pre­ci­sa­men­te, la defi­ni­ti­va legit­ti­ma­zio­ne del­le arti del­la sce­na nei pae­si euro­pei fa ger­mi­na­re l’i­po­te­si che il tea­tro sia in gra­do di eser­ci­ta­re un’in­fluen­za mora­le posi­ti­va sugli spet­ta­to­ri, e che quin­di si trat­ti di un’at­ti­vi­tà di pub­bli­ca uti­li­tà. 

Le for­ze del­le pas­sio­ni uma­ne che sono in noi quan­do sono impe­di­te insor­go­no più vio­len­te; se inve­ce si accor­da ad esse un’at­ti­vi­tà bre­ve ed entro una giu­sta misu­ra, godo­no mode­ra­ta­men­te e appa­ga­no e così puri­fi­ca­te si cal­ma­no con la per­sua­sio­ne e non con la vio­len­za.

Si trat­ta di una foca­liz­za­zio­ne solo sul carat­te­re omeo­pa­ti­co del trat­ta­men­to, l’e­li­mi­na­zio­ne di un ecces­so emo­zio­na­le poten­zial­men­te dan­no­so.

Anche se sap­pia­mo che la tra­ge­dia ha il magi­co com­pi­to di agi­re sul­la con­di­zio­ne uma­na tra­sfor­man­do il dolo­re nel pia­ce­re del­la con­tem­pla­zio­ne e per con­dur­re l’uomo ad una nuo­va con­sa­pe­vo­lez­za, nel­la civil­tà occi­den­ta­le però l’e­spe­rien­za del­l’ar­te tra­gi­ca ha ormai per­du­to l’o­riz­zon­te in cui era nata per lascia­re spa­zio e far­si pos­se­de­re dai cul­ti ingan­ne­vo­li domi­na­ti dal­l’il­lu­sio­ne del­la mate­ria: pro­fit­to, pote­re, self-made man, gerar­chie, dena­ro, distac­co dall’essere uomi­ni.

Susci­ta­re pie­tà e pau­ra, por­ta­re alla catar­si, oggi più che mai neces­si­ta di esse­re visto non più solo come effet­to secon­da­rio del­la tra­ge­dia ma come la sua stes­sa ragio­ne d’essere.

L’esperienza apol­li­nea ed este­ti­ca è solo un tas­sel­lo di que­sta magi­ca ope­ra il cui sco­po fina­le dovreb­be esse­re di por­ta­re l’in­di­vi­duo ad un cam­bia­men­to psi­co­fi­si­co.

Nel­la socie­tà moder­na però lavo­ro e vita sono dive­nu­ti inse­pa­ra­bi­li. Il nostro siste­ma men­ta­le è sta­to ripro­gram­ma­to con gli stes­si mec­ca­ni­smi del­la pro­du­zio­ne e del­la distri­bu­zio­ne; e que­sto mi sem­bra par­ti­co­lar­men­te evi­den­te nei film di Ken Loach, nel dram­ma moder­no dell’eroe che le sue ope­re met­to­no in sce­na. La tra­ge­dia non è sta­ta ‘vac­ci­na­ta’ con­tro que­sta pia­ga capi­ta­li­sti­ca con­tem­po­ra­nea, ora vi è total­men­te immer­sa e non rie­sce a libe­rar­se­ne. 

Come fat­to nota­re da Mark Fisher (2009, 81–82): “ne Il capi­ta­li­sta egoi­sta Oli­ver James fa nota­re come negli ulti­mi ven­ti­cin­que anni abbia­mo assi­sti­to a un signi­fi­ca­ti­vo aumen­to del tas­so di «distur­bi men­ta­li»”.

Più che mai quin­di l’uomo moder­no neces­si­ta di una ‘pur­ga’ dell’incantesimo dio­ni­sia­co che restrin­ga i rap­por­ti uma­ni e in cui la ter­ra si ricon­giun­ga al suo figlio per­du­to.

Dal momen­to che nel­la moder­na civil­tà occi­den­ta­le man­ca un’e­spe­rien­za com­pa­ra­bi­le, spe­cial­men­te nel­l’am­bi­to del­la dimen­sio­ne socia­le dove le mani­fe­sta­zio­ni di catar­si o pos­ses­sio­ne sono gene­ral­men­te ed uni­ca­men­te asso­cia­te a for­me di psi­co­si, nasce la neces­si­tà di uno spa­zio e luo­go, anzi un non spa­zio e non luo­go dove que­sti atti pos­sa­no avve­ni­re.

Anda­re avan­ti

Nel­la socie­tà con­tem­po­ra­nea: 

“Ave­vo cono­sciu­to [o meglio, cono­scia­mo, ndr] la con­tem­pla­zio­ne sol­tan­to nel­le sue for­me più umi­li e più ordi­na­rie: come pen­sie­ro spe­cu­la­ti­vo; come con­cen­tra­zio­ne rapi­ta nel­la poe­sia, nel­la pit­tu­ra o nel­la misu­ra; come pazien­te atte­sa di quel­le ispi­ra­zio­ni, sen­za le qua­li anche il più pro­sai­co scrit­to­re non può spe­ra­re di attua­re alcun­ché; come spraz­zi fuga­ci nel­la natu­ra del “qual­che cosa mol­to più pro­fon­da­men­te dif­fu­so” (Hux­ley 1954, 32).

Secon­do Hux­ley che così riflet­te anco­ra sul­la pos­si­bi­li­tà di recu­pe­ra­re il nostro pro­prio io catar­ti­co in Le Por­te del­la Per­ce­zio­ne, le cose che si dovreb­be­ro guar­da­re sono le cose sen­za pre­te­se, sod­di­sfat­te di esse­re sem­pli­ce­men­te se stes­se, cose che, come egli dice, non reci­ta­no una par­te luci­fe­ri­na.  

Basti rife­rir­si a Blai­se Pascal che, in Pen­sie­ri, osser­va come, cita­to da Hux­ley (1954, 34): “la som­ma del male […] sareb­be mol­to dimi­nui­ta solo se gli uomi­ni potes­se­ro impa­ra­re a sede­re tran­quil­li nel­le loro stan­ze”.

La con­tem­pla­zio­ne, quin­di, è spes­so indi­ca­ta come azio­ne puri­fi­can­te, ten­de­re i sen­si ver­so il mon­do per coglier­ne l’essenza. La con­tem­pla­zio­ne atti­va del­lo spet­ta­to­re che vie­ne pur­ga­to davan­ti all’attivo per­for­mer por­ta la sua per­ce­zio­ne ad esse­re libe­ra­ta, e quin­di a non ave­re più biso­gno di ‘sede­re nel­la sua stan­za’. Lo spet­ta­to­re ottie­ne di assi­ste­re al dolo­re, alla feli­ci­tà, alle emo­zio­ni, alla vita, poste davan­ti ai suoi occhi sen­za dover entra­re all’interno del­la tem­pe­sta ma assi­sten­do ad essa da un appro­do sicu­ro.

Egli può occu­par­si del­le sue fac­cen­de sod­di­sfat­to di vede­re l’or­di­ne divi­no del­le cose e di esser­ne par­te e non sarà ten­ta­to dagli spor­chi capric­ci del mon­do.

Nel film La bel­le ver­te si imma­gi­na un mon­do evo­lu­to­si ver­so una per­fe­zio­ne cosmi­ca tra esse­re uma­ni e natu­ra. È inte­res­san­te osser­va­re come la sag­gia civil­tà alie­na, abi­tan­te del pia­ne­ta ver­de e il cui com­pi­to è ‘scon­net­te­re’ i ter­re­stri, non abbia posto il pro­gres­so tec­no­lo­gi­co e mate­ria­le a zenit del pro­prio svi­lup­po ma abbia supe­ra­to l’attaccamento alla mate­ria­li­tà del­la vita, alle rego­le socia­li e abbia ritro­va­to una comu­nio­ne con il cosmo abi­ta­to.

Nel sag­gio Rea­li­smo Capi­ta­li­sta, Mark Fisher ci fa riflet­te­re sul fat­to che il con­cet­to di rea­li­smo, che un tem­po si rife­ri­va ad una pre­sa di coscien­za del­la real­tà del­le cose incon­trol­la­bi­li: “per­ce­pi­ta come soli­da e ina­mo­vi­bi­le”, oggi “asso­mi­glia alle infi­ni­te opzio­ni di un docu­men­to digi­ta­le”. (Fisher 2009, 110)

Per Fisher, non sia­mo più in gra­do di per­ce­pi­re la real­tà del mon­do nel­la sua purez­za e con­ti­nuia­mo ad inciam­pa­re nell’errore fata­le di costrui­re o con­su­ma­re pro­dot­ti che par­la­no di real­tà ma sono in sostan­za tele di con­trad­di­zio­ni e non ‘rea­li­sti­che’.

Ma, dato che il biso­gno di tra­scen­de­re la per­so­na­li­tà coscien­te del­l’io è un’in­cli­na­zio­ne prin­ci­pa­le del­l’a­ni­ma mor­ta­le e che la real­tà quo­ti­dia­na attua­le è diven­ta­ta tal­men­te inso­ste­ni­bi­le, irrea­li­sti­ca e rare­fat­ta, allo­ra abbia­mo comin­cia­to a pro­dur­re intrat­te­ni­men­ti dal­le par­ven­ze rea­li ma in real­tà fit­ti­zi.

Nutren­do­ci di que­ste sto­rie tra­gi­che apol­li­nee ma che non con­si­de­ra­no l’altra fac­cia del­la meda­glia, quel­la lega­ta al bru­ta­le miti­co, non­ché tut­ta l’esperienza ritua­le e festi­va, pen­sia­mo di alle­viar­ci.

“Sia­mo sta­ti noi, bian­chi ric­chi e alta­men­te istrui­ti, a rima­ner nudi die­tro. Noi rico­pria­mo la nostra nudi­tà ante­rio­re con qual­che filo­so­fia — cri­stia­na, mar­xi­sta, freu­do-fisi­ca­li­sta — ma die­tro rima­nia­mo sco­per­ti, alla mer­cé di tut­ti i ven­ti del­le cir­co­stan­ze. Il pove­ro india­no, inve­ce, ha avu­to inve­ce l’in­tel­li­gen­za di pro­teg­ger­si poste­rior­men­te aggiun­gen­do alla foglia di fico del­la teo­lo­gia i cal­zo­ni rat­top­pa­ti del­l’e­spe­rien­za tra­scen­den­ta­le.” (Hux­ley 1954, 60)

L’e­spe­rien­za catar­ti­ca deve tor­na­re a far vede­re il mon­do come infi­ni­ta­men­te impor­tan­te e gli esse­ri uma­ni anco­ra più infi­ni­ta­men­te impor­tan­ti.

I ritua­li abi­tua­li festi­vi ven­go­no, dagli albo­ri, rico­no­sciu­ti come uti­li a pro­dur­re indi­vi­dui più indu­strio­si, più mode­ra­ti, più paci­fi­ci: que­sta è la nozio­ne da impa­ra­re da socie­tà che anco­ra oggi pra­ti­ca­no que­sta con­nes­sio­ne cicli­ca car­ne­va­le­sca, inte­sa nell’accezione di mon­do capo­vol­to.

È dagli anni ‘50 cir­ca — nei suburbs di Lon­dra, sal­tan­do poi all’avvento anco­ra più mas­sic­cio di metà anni ‘80 con l’arrivo dell’acid hou­se, che ne ha dato la vera e pro­pria data di nasci­ta — che il dio­ni­sia­co si è sfo­ga­to nel feno­me­no del­la rave cul­tu­re: il cul­to del non luo­go in cui libe­ra­re i pro­pri istin­ti e nel qua­le gio­ca­re con le pro­prie per­ce­zio­ni psi­chi­che per poi uscir­ne alle­via­ti.

Sicu­ra­men­te pos­sia­mo indi­vi­dua­re nel­la musi­ca elet­tro­ni­ca, che com­pren­de un’ampia gam­ma di sti­li e varian­ti, l’immagine del musi­co dio­ni­sia­co di Nie­tzsche.

Si trat­ta di un enor­me poten­zia­le di aggre­ga­zio­ne teso quin­di a ricon­giun­ger­si all’arcaico.

Oggi sva­ria­ti festi­val inter­na­zio­na­li e nazio­na­li pro­pon­go­no espe­rien­ze este­ti­che in con­nu­bio con la festa: work­shop, con­cer­ti e per­for­man­ce live. 

La dan­za ha da subi­to pre­so il suo spa­zio in que­sti momen­ti ‘psi­co­ma­gi­ci’.

Esem­pi a noi vici­ni pos­so­no esse­re il Wao festi­val, il festi­val Ter­ra­for­ma con per­for­man­ce e spet­ta­co­li di dan­za immer­si­vi all’interno di un labi­rin­to natu­ra­le, Muo­vo Musi­ca che a Mila­no pro­muo­ve spe­ri­men­ta­zio­ni live tra tea­tro e musi­ca elet­tro­ni­ca, il pro­get­to Eleu­si  di Davi­de Enia al Pic­co­lo Tea­tro: una vera e pro­pria mara­to­na, un rave tea­tra­le di 24 ore dal tra­mon­to al tra­mon­to, Orfeo Rave di Miche­la Lucen­ti ed Ema­nue­le Con­te: un Orfeo che spa­zia dal­la pro­sa, alla musi­ca elet­tro­ni­ca, dal­la dan­za all’arte visi­va, pen­sa­to appo­si­ta­men­te per l’ambiente che lo ospi­ta, il padi­glio­ne Jean Nou­vel a Geno­va, Bac­can­ti di Filip­po Ren­da al Tea­tro Lit­ta di Mila­no e mol­ti di più nel­le real­tà euro­pee.

In que­sti riti offi­cia­ti dal­le ‘bac­can­ti’, la poten­za del­la musi­ca elet­tro­ni­ca e la for­za del­le imma­gi­ni resti­tui­sco­no al pre­sen­te l’archetipo e lo tra­sfor­ma­no in emo­zio­ne per il pub­bli­co.

Il pub­bli­co deve segui­re l’opera con il pas­so di chi non distin­gue più sé stes­so all’interno dell’opera stes­sa, il pas­so di chi ince­spi­ca nel­la stra­da del mito ed entra a far par­te del rito col­let­ti­vo.

E se Orfeo non fos­se sce­so nell’Ade per ripor­ta­re in vita Euri­di­ce, ma per ritro­va­re una par­te di sé che non esi­ste­va più? 

Orfeo cer­ca­va il suo stes­so dolo­re e quan­do lo ha tro­va­to ha dovu­to vol­tar­si e guar­dar­lo, osser­var­lo da ester­no spet­ta­to­re per get­tar­si alle spal­le quel­la par­te di sé che era mor­ta insie­me a Euri­di­ce. 

E le bac­can­ti sono pro­prio que­sto: un rave che pren­de for­ma.

Orfeo rinun­cia alle illu­sio­ni pro­prio come l’uomo che sce­glie di entra­re nel­la brec­cia nel muro che Aldous Hux­ley cita spes­so come il pun­to di non ritor­no di colui che com­pie il viag­gio da spet­ta­to­re catar­ti­co.

Entram­bi non saran­no mai l’uomo che era par­ti­to, l’uomo del prin­ci­pio:

“Più sag­gio ma meno pre­sun­tuo­so, più feli­ce, ma meno sod­di­sfat­to di sé, più umi­le nel rico­no­sce­re la sua igno­ran­za, eppu­re meglio attrez­za­to per capi­re il rap­por­to tra paro­le e cose, tra ragio­na­men­to siste­ma­ti­co e Miste­ro inson­da­bi­le che egli cer­ca, sem­pre inva­no, di com­pren­de­re” (Hux­ley 1954, 63).

Se da un lato, come lo stes­so Ari­sto­te­le da cui si è par­ti­ti dice, l’uomo è ani­ma­le socia­le e per­ciò venia­mo por­ta­ti ad uno ‘sta­re insie­me’, agi­re e rea­gi­re gli uni agli altri; dall’altro lato in tut­te le cir­co­stan­ze, sia­mo soli. I mar­ti­ri quan­do entra­no nel­l’a­re­na si ten­go­no per mano, ma ven­go­no cro­ci­fis­si da soli.

Noi godia­mo e sof­fria­mo in una soli­tu­di­ne comu­ne e abbia­mo per­ciò neces­si­tà di espe­rien­ze altret­tan­to comu­ni da cui ci è dato osser­va­re quel mon­do imbor­ghe­si­to con l’occhio di chi, però, cono­sce il subli­me.

Se riflet­tia­mo sul mec­ca­ni­smo del­la catar­si vedia­mo che la lace­ra­zio­ne di ogni oriz­zon­te in sen­so radi­ca­le non con­sen­te alle rie­la­bo­ra­zio­ni qui con­si­de­ra­te che si rea­liz­zi l’efficacia catar­ti­ca. Si rea­liz­za piut­to­sto un’efficacia ‘rea­le’ del tipo di un tur­ba­men­to, di una feri­ta aper­ta, di una doman­da che vie­ne mes­sa a fuo­co. Si trat­ta comun­que di un’efficacia che ha biso­gno di rit­mi diver­si, più pro­fon­di e indi­vi­dua­liz­za­ti di quel­li che si è soli­ti attri­bui­re allo spet­ta­co­lo e che in que­sti anni ha pro­dot­to solu­zio­ni radi­cal­men­te diver­se sul pia­no del­la rice­zio­ne. In defi­ni­ti­va si trat­ta di una ‘dram­ma­tur­gia’ in gra­do di accom­pa­gna­re la tran­si­zio­ne cul­tu­ra­le degli anni che stia­mo attra­ver­san­do. Una ‘dram­ma­tur­gia’ che assu­me quel­la anti­ca come model­lo libe­ra­men­te imma­gi­na­to, come un para­dig­ma per il ritro­va­men­to di con­no­ta­zio­ni che la ‘vera’ comu­ni­ca­zio­ne tea­tra­le ha visto depo­ten­zia­te o smar­ri­te. Si trat­ta quin­di di mani­fe­sta­zio­ni che cam­mi­na­no sul­le orme dell’antico: ma l’oggetto del­le ori­gi­ni, il mito, la tra­ge­dia e dun­que l’essenza dell’umano, fis­sa­ta con uno sguar­do nuo­vo, fini­rà per cam­biar­ci e stu­pir­ci. 

Biblio­gra­fia

  • Ari­sto­te­le, Poe­ti­ca, tr.it. e intro­duz. G.Paduano, Later­za: Roma-Bari, 1998.
  • Ari­sto­te­le, Poli­ti­ca, tr.it. R.Laurenti, Later­za: Roma-Bari, 2007.
  • J. Cam­p­bell, L’eroe dai mil­le vol­ti, tr.it. F. Piaz­za, Lin­dau: Tori­no, 2016.
  • M. Fisher, Rea­li­smo capi­ta­li­sta, tr.it. V. Mat­tio­li, Pro­du­zio­ni Nero: Roma, 2016.
  • W. Haz­litt, L’ignoranza del­le per­so­ne col­te, tr.it. F. de Pro­pris, Fazi: Roma, 2015.
  • A. Hux­ley, Le por­te del­la per­ce­zio­ne- Para­di­so e infer­no, tr.it. L. Saut­to, Mon­da­do­ri: Mila­no, 2016.
  • O. James, Il capi­ta­li­sta egoi­sta, tr.it. P. Boni­ni, Fel­tri­nel­li: Mila­no, 2009.
  • G. Iera­nò, Eroi. Le gran­di saghe del­la mito­lo­gia gre­ca, Mar­si­lio: Vene­zia, 2019.
  • G. Lapas­sa­de, Dal­lo scia­ma­no al raver, tr.it. G. de Mar­ti­no, Fel­tri­nel­li: Mila­no, 2020.
  • F. W. Nie­tzsche, La nasci­ta del­la tra­ge­dia, tr.it. S.Giametta, Adel­phi: Mila­no, 1977 [1876].
  • M. Pol­lan, Come cam­bia­re la tua men­te, tr. it. Isa­bel­la C. Blum, Adel­phi: Mila­no, 2022.

Fil­mo­gra­fia 

  • La bel­le ver­te, Coli­ne Ser­reau, 1996.
  • Le Tout Nou­veau Testa­ment, Jaco Van Dor­mael, 2015.
  • Cli­max, Gaspar Noé, 2018.
  • Dir­ty Lines, Pie­ter Bart Kor­thuis, 2022.
  • The Mid­night Gospel, Pend­le­ton Ward and Dun­can Trus­sell, 2020.
  • Dope Ter­ri­to­ry, João Cor­rea, 1986.

Play­li­st

  • Ic Love affair, Gaz­ne­va­da, 1983                                          
  • Elec­tric Dreams, Lit­tle Bru­net­te, 2023.                                
  • Mario pt II, Chas­sol, 2015.                                                 
  • Jazz is for ordi­na­ry peo­ple, Ber­lioz, 2023.                     
  • Peo­ple are still having sex, Latour, 1991.                         
  • Smack Jack, Nina Hagen, 1982.             

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