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Febbraio
3 Febbraio 2025

BAZA­NA E LA SUA OMBRA

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Ora, per esem­pio, Baza­na beve­va una tisa­na dige­sti­va sen­za biso­gno di dover dige­ri­re. 

Era di not­te, l’aria era madi­da dopo il tem­po­ra­le cor­to, e sul­la pare­te a lato del let­to per­si­no la sua ombra era più gran­de di lei. 

Il moti­vo di quel­la tisa­na, non pro­prio gra­de­vo­le a quell’ora del­la not­te, era che da quan­do, assai casual­men­te, ave­va ini­zia­to a far­ne uso la sua ombra ave­va comin­cia­to a par­lar­le. Ora, per­ché mai quel­la non avreb­be dovu­to ave­re la voce del cor­po, quel­lo di car­ne? Eppu­re par­la­va con una voce diver­sa, una voce di uomo. Si era sol­le­va­ta den­tro il pigia­ma color men­ta e ave­va pen­sa­to a quel­la vol­ta in cui un uomo, appe­na sve­glio al mat­ti­no, ave­va usa­to l’espressione ora mi inca­stro den­tro i vesti­ti e vado ad azzan­na­re qual­che pas­san­te. Solo dopo si era venu­to a sape­re che, quel gior­no, quel­lo ave­va effet­ti­va­men­te aggre­di­to alcu­ne per­so­ne lun­go la stra­da di casa sua, men­tre a lei era pia­ciu­ta mol­to l’idea dei cor­pi uma­ni che, era vero, ogni gior­no non face­va­no che inca­strar­si den­tro i vesti­ti. 

La sua ombra la segui­va men­tre si alza­va e si affac­cia­va al bal­co­ne, con la pun­ta dei pie­di ave­va schiac­cia­to un sot­ti­le rivo­lo di acqua sta­gna nel­la fuga bian­ca­stra tra le mat­to­nel­le anne­ri­te. L’odore di uri­na e acqua pio­va­na, di car­ne arro­sto e cemen­to fra­di­cio, di ter­ra e gras­so che sfri­go­la, fumo e fio­ri di qual­che pian­ta gras­sa. Il cie­lo sem­bra­va nero, dove i lam­pio­ni lo bifor­ca­va­no si vede­va un vapo­re fumo­so gial­lo mobi­le. Nel cor­ti­le rot­to, ogni not­te pas­sa­va velo­ce un ragaz­zi­no magro in pan­ta­lon­ci­ni e canot­tie­ra, sul capo sopra il ber­ret­to scu­ro tene­va in equi­li­brio con una mano una tavo­la di legno con un maia­le sopra, supi­no, mor­to. 

Il luc­ci­co­re del­la pel­le metic­cia e suda­ta del ragaz­zo dice­va di qual­che fol­klo­re sospe­so, di un’allegria da un’ altra par­te, come di una festa lon­ta­na da lì e inter­rot­ta a mez­z’a­ria; si voci­fe­ra­va di soprav­vi­ven­za, una paro­la inac­ces­si­bi­le al gio­va­ne, eppu­re l’a­ve­va pre­sa assai sul serio. Lui ince­de­va con gli occhi così bas­si da sem­bra­re un son­nam­bu­lo cie­co ed esper­to. La pelu­ria rada sul pet­to e sul viso inve­ce por­ta­va con sé il ricor­do di qualcos’altro, di qual­cu­no che gli scor­re­va nel san­gue e che non c’e­ra più; la discen­den­za era pri­vi­le­gio dei cor­pi — solo quel­li — e por­ta­va­no memo­ria di chi e cosa era tra­scor­so. Lon­ta­no ano­ni­mi, auto­mo­bi­li, moto­ret­te, sire­ne e cla­mo­ri a inter­mit­ten­za di uomi­ni fre­quen­ta­va­no l’atmosfera. Sull’unico muret­to ver­ti­ca­le la soli­ta bam­bi­na col caschet­to nero e i cal­zi­ni bian­chi gio­ca­va male con il suo hula hoop rosa, lo usa­va come vole­va lei. Sul suo viso regna­va costan­te l’espressione di un fasul­lo diver­ti­men­to, coat­to, pre­po­ten­te, una sfi­da solo per esi­bi­re il suo pote­re di ave­re ragio­ne su qual­sia­si cosa, ogni vol­ta che lei lo aves­se deci­so. Così, not­te dopo not­te, non miglio­ra­va affat­to. 

Die­tro di lei sul­lo sfon­do, oltre un arco vetu­sto e buca­to da erbac­ce, sta­va­no appe­se del­le len­zuo­la al filo tra le fron­de di cer­te pal­me. Pro­prio ades­so che il ragaz­zo pas­sa­va sot­to il bal­co­ne si vede­va come il maia­le aves­se del­le cica­tri­ci lun­go i fian­chi, come di per­cos­se; a ben guar­da­re la bestia e il ragaz­zo ave­va­no la stes­sa espres­sio­ne, occhi chiu­si e assor­ti.   

“Ogni not­te un maia­le, che ci faran­no con tut­ti que­sti maia­li.” 

“Li man­ge­ran­no sup­pon­go” rispo­se l’ombra e lei tra­sa­lì. Lo face­va ogni vol­ta che quel­la par­la­va, non si abi­tua­va. Die­de un altro sor­so a quel­la tisa­na. 

“A dir­la tut­ta, se guar­di bene, non sem­bra tan­to mor­to, sem­bra più a ripo­so, assor­to…” 

“… Sem­bra si, in effet­ti, come se il ragaz­zo lo stes­se scor­tan­do…” 

All’improvviso si sen­tì un ton­fo tre­men­do fuo­ri dal­la por­ta. Sia Baza­na che l’ombra sob­bal­za­ro­no: “Cosa è sta­to?” dis­se lei. Al ton­fo seguì un silen­zio spez­za­to, subi­to dopo qual­co­sa come uno zoc­co­lo bus­sò for­te alla por­ta, due col­pi net­ti. 

“Vai a vede­re chi è” dis­se l’ombra.

“Se io vado tu vie­ni con me”. 

“No aspet­ta, pri­ma chie­di chi è”. 

“Chi è?” chie­se lei allo­ra. Di là non rispo­se nes­su­no ma segui­ro­no due col­pi net­ti come pri­ma. 

“Vai a vede­re chi è” 

“Se io vado tu vie­ni con me”. Baza­na e la sua ombra, con improv­vi­sa appren­sio­ne e il cuo­re in pet­to che ave­va tro­va­to un altro modo di bat­te­re, si avvi­ci­na­ro­no alla por­ta; mol­to len­ta­men­te sol­le­va­ro­no la mano sul pomel­lo in accia­io, quel­lo si girò e, non appe­na fece click, qual­co­sa di for­tis­si­mo, al pari di una deto­na­zio­ne, col­pì la por­ta che si spa­lan­cò vio­len­te­men­te. Divel­ti i car­di­ni,  fu sca­ra­ven­ta­ta all’interno andan­do a col­pi­re l’ombra che urlò di dolo­re e ini­ziò a invei­re con­tro Baza­na che non si era defi­la­ta pron­ta­men­te; così i due cad­de­ro all’indietro e ini­zia­ro­no ad azzuf­far­si. Men­tre si azzuf­fa­va­no, pro­prio davan­ti ai loro occhi appar­ve un gros­so maia­le rosa, minac­cio­so e fuman­te, tut­to in lui lascia­va inten­de­re chia­ra­men­te che le sue inten­zio­ni non era­no del­le miglio­ri. Il maia­le ave­va le stes­se ammac­ca­tu­re sui fian­chi di quel­lo che poco pri­ma ave­va­no visto dal bal­co­ne. 

Nei pres­si del­le nati­che por­ta­va mar­chia­to il nome Gil­les, il ric­cio del­la coda fre­me­va in modo irrea­le come se fos­se azio­na­to da un mec­ca­ni­smo elet­tri­co, gli occhi por­ci­ni era­no iniet­ta­ti vio­len­te­men­te di san­gue. Baza­na urlò, quel­lo allo­ra gru­gnì come impaz­zi­to e si mos­se per cari­car­la ma lei e l’ombra que­sta vol­ta scat­ta­ro­no sul fian­co, si rimi­se­ro in pie­di mala­men­te e, con un sal­to oltre la por­ta atter­ra­ta, furo­no lun­go il cor­ri­do­io dell’albergo. Subi­to si mise­ro a cor­re­re, si vol­ta­ro­no la pri­ma vol­ta per vede­re se tut­to quel­lo fos­se rea­le, e non ebbe­ro dub­bi quan­do Gil­les sbu­cò con una bru­sca impen­na­ta sul cor­ri­do­io e, urlan­do ter­ri­bil­men­te, comin­ciò a inse­guir­li. Baza­na e la sua ombra ave­va­no la sen­sa­zio­ne di non riu­sci­re a cor­re­re più di tan­to, come se i loro pas­si affon­das­se­ro nel­la moquet­te ver­de bot­ti­glia. 

Dal­le gra­te gru­mo­se lun­go le pare­ti gial­le del cor­ri­do­io, che non era mai sem­bra­to loro così angu­sto, mai così allu­ci­nan­te in quel gial­lo insop­por­ta­bi­le, veni­va fuo­ri aria cal­da, stan­tia e spes­sa come se si affet­tas­se. Gros­se chiaz­ze di sudo­re comin­cia­ro­no a for­mar­si sul pigia­ma color men­ta di Baza­na, i ric­ci le si appic­ci­ca­va­no sul­la fron­te, per l’ombra inve­ce tut­to quel suda­re non signi­fi­ca­va gran­ché. 

Giun­se­ro bru­sca­men­te di fron­te le por­te metal­li­che dell’ascensore che però por­ta­va l’immagine del segna­le di Peri­co­lo con una gros­sa fac­cia di maia­le den­tro; immo­bi­liz­za­ti dal­la sor­pre­sa, con i sen­si dila­ta­ti dal­la per­ce­zio­ne di una rea­le minac­cia, si accor­se­ro che dall’interno del­la cabi­na dell’ascensore arri­va­va un gran fra­cas­so di gru­gni­ti impaz­zi­ti. 

“Non ti azzar­da­re a chia­ma­re l’ascensore. Di qua!” dis­se l’ombra. 

Il loro tem­po per­so ne ave­va fat­to gua­da­gna­re all’orribile Gil­les sca­te­na­to, men­tre li cari­ca­va i due si ritro­va­ro­no per un pelo a svol­ta­re bru­sca­men­te in una ram­pa di sca­le dal­la rin­ghie­ra ver­de oli­va, di cui stra­na­men­te non si era­no mai accor­ti di quan­to bas­sa fos­se. Così, per non fini­re tra­gi­ca­men­te di sot­to, si lascia­ro­no cade­re con un col­po mol­to dolo­ro­so addos­so alla pare­te, poi ini­zia­ro­no a pre­ci­pi­tar­si a pas­si e sal­ti con­vul­si giù lun­go la sca­la, pos­se­du­ti da una stra­na ver­ti­gi­ne al limi­te tra il con­trol­lo e la tota­le per­di­ta di esso; era come se la mate­ria pul­vi­sco­la­re del­le sca­le sot­to i loro pie­di a vol­te si fon­des­se sal­da­men­te con quel­la del­la car­ne, oppu­re all’improvviso minac­cias­se di fra­nar­gli irri­me­dia­bil­men­te addos­so e sep­pel­lir­li in un bara­tro di cemen­to. 

Una sor­te diver­sa toc­cò al maia­le che, scon­vol­to e impre­pa­ra­to dal loro improv­vi­so devia­re, non sep­pe affat­to fre­na­re e andò a schian­tar­si mala­men­te con­tro lo stes­so muro che però lo rim­bal­zò all’indietro oltre la rin­ghie­ra, come se fos­se fat­to di gom­ma. Allo­ra, men­tre Baza­na e l’ombra, sfia­ta­ti, si tro­va­va­no ormai qua­si ai pri­mi pia­ni, dovet­te­ro alza­re lo sguar­do qua­si che aves­se­ro avver­ti­to l’improvviso spo­sta­men­to d’aria; sopra le loro teste vide­ro levi­ta­re que­sto mam­mi­fe­ro dap­pri­ma pic­co­lo pic­co­lo, len­to come fos­se sospe­so, poi far­si sem­pre più gran­de e rea­le fino a sfer­za­re l’aria con un gru­gni­to dia­bo­li­co. Per un istan­te, nel­la sua cadu­ta libe­ra, era pas­sa­to per il pun­to in cui si tro­va­va­no ed in men che non si dica era pre­ci­pi­ta­to oltre. Con­ti­nua­ro­no a cor­re­re, pre­si dall’automatismo di una chi­mi­ca dei ner­vi e del cor­po ora­mai inne­sca­ta e, appog­gian­do­si al cor­ri­ma­no, vide­ro in bas­so l’inevitabile schian­to, un’esplosione di visce­re e san­gue. 

Giun­ti sul pia­ne­rot­to­lo, vol­le­ro accer­tar­si che quell’assurdo Gil­les fos­se final­men­te kaputt, quin­di cal­ma­ro­no il respi­ro e si avvi­ci­na­ro­no in silen­zio alla poz­za di san­gue. 

“Oh mio dio, per­ché mi sta venen­do fame?” dis­se l’ombra.

Baza­na lo guar­dò coster­na­ta, nau­sea­ta, entram­bi scop­pia­ro­no in una risa­ta dap­pri­ma ner­vo­sa, poi sem­pre più nevro­ti­ca.

D’un trat­to con­tro il vetro fumé del por­to­ne si schiac­ciò pao­naz­zo, con un ful­mi­neo spruz­zo di san­gue e l’occhio fuo­ri dall’orbita, il pro­fi­lo di un altro maia­le. Di nuo­vo Baza­na e l’ombra entra­ro­no in uno sta­to di allar­me. Si accor­se­ro come fuo­ri sul­la stra­da stes­se sfi­lan­do un’ amal­ga­ma infor­me, den­sa, scu­ra. 

Men­tre l’ombra pro­va­va a dis­sua­der­la, Bal­za­na già era usci­ta fuo­ri sul­la lin­gua di mar­cia­pie­de sgan­ghe­ra­to di poz­zan­ghe­re e pie­tre rot­te come den­ti spez­za­ti, come se fino a quel momen­to, col cuo­re in gola e il san­gue alle orec­chie, aves­se eli­mi­na­to qual­sia­si suo­no ester­no che non fos­se il tre­men­do gri­do di Gil­les. Ora, tut­ti insie­me, rin­tro­na­va­no i lamen­ti di una cit­tà in sub­bu­glio, sire­ne del­le for­ze del­la poli­zia, di ambu­lan­ze, di allar­mi, ver­si bestia­li oppu­re urla uma­ne; da qual­che par­te dal­la stra­da arri­va­va anco­ra l’odore fami­lia­re di car­ne arro­sto oltre a quel­lo dei fumo­ge­ni. In quel­la stri­scia di oscu­ri­tà vol­ti ano­ni­mi, can­cel­la­ti dai caschi oscu­ra­ti e mani di not­te stret­te intor­no a gros­si man­ga­nel­li, mar­cia­va­no come se fos­se­ro sca­ra­fag­gi, Baza­na si vol­ta­va a cer­ca­re la sua ombra, ma i lam­pio­ni era­no sta­ti col­pi­ti e la luna for­se se l’era svi­gna­ta, offe­sa, ed era a dare chia­ro­re a qual­co­sa che vales­se la pena. 

Baza­na chia­mò la sua ombra più vol­te sen­za ave­re rispo­sta. D’un trat­to si sen­tì per­du­ta, ma non ne ebbe tem­po più di tan­to che un sub­bu­glio più gran­de ave­va acce­le­ra­to l’incedere scu­ro del cor­teo tra­sci­nan­do­la con lui. Ecco che ebbe modo di vede­re come una fiu­ma­na di maia­li rosa avan­zas­se schiac­cia­ta e cao­ti­ca ver­so di loro, come venis­se mas­sa­cra­ta dai man­ga­nel­li, e come gli stes­si uomi­ni coi man­ga­nel­li venis­se­ro  mas­sa­cra­ti oppu­re man­gia­ti dai maia­li rosa. Un col­po cie­co subì­to all’orecchio di Baza­na le fece per­ce­pi­re l’odore del suo san­gue aggiun­ger­si a quel­lo del san­gue di tut­ti; per­se per un istan­te l’equilibrio, si lasciò cade­re di lato vici­no alla car­cas­sa di un maia­le ago­niz­zan­te, che anco­ra cer­ca­va di masti­ca­re la mano di qual­cu­no. Veni­va cal­pe­sta­ta sen­za tre­gua, capì che sareb­be sta­ta ucci­sa, e poco più in là vide car­cas­se di uomi­ni. 

All’improvviso si sor­pre­se a chie­der­si, dov’erano anda­ti a fini­re tut­ti? Dov’erano per esem­pio i bam­bi­ni, i vec­chi e le don­ne? Per­ché in quel fini­mon­do non si vede­va­no nient’altro che uomi­ni arma­ti e maia­li? Da quant’era che quel­la sto­ria anda­va avan­ti? La fac­cia schiac­cia­ta a ter­ra, il cor­po gon­fio che si tume­fa­ce­va a vista d’occhio. Baza­na pen­sò all’America, poi a un viag­gio che vole­va fare, alla sua fami­glia, a un fiu­me, a una cit­tà ita­lia­na, al gela­to alla strac­cia­tel­la e lo zaba­io­ne nel cono che poi diven­ne la can­na di una pisto­la infi­la­ta nel­la gola di un uomo, ad un palaz­zo civi­le in un Orien­te di mace­rie, un piaz­za gri­gia deser­ta bat­tu­ta dal ven­to, al ven­to, al mare, alle Due don­ne tahi­tia­ne di Gau­guin, a tut­ti i musei del mon­do, a quel­lo di Cope­n­ha­gen con la sca­la che por­ta­va in cima al ter­raz­zo asso­la­to con due per­so­ne, al tet­to di un grat­ta­cie­lo di una mega­lo­po­li dove non era mai sta­ta. E, men­tre si sen­ti­va sve­ni­re, o for­se mori­re, a guar­dar bene pro­prio quel tet­to era diven­ta­to il cor­ti­le rot­to sot­to il suo bal­co­ne. Que­sta non era un’illusione. Dal­la posi­zio­ne schiac­cia­ta a ter­ra in cui si tro­va­va, in un ritor­no di luci­di­tà, vide una stra­di­na secon­da­ria che sbu­ca­va in un cor­ti­le iden­ti­co a quel­lo sot­to il suo bal­co­ne. In cima al muret­to c’era un maia­le tri­ste con un hula hoop rosa intor­no al muso che avreb­be volu­to sol­tan­to che qual­cu­no gli inse­gnas­se a usar­lo quelll’hula hoop. Per tut­to il cor­ti­le c’era un via vai di maia­li con uomi­ni mor­ti sul­la grop­pa. Quan­do qual­che arto uma­no pen­zo­lo­ne gli sfio­ra­va i fian­chi per­cos­si dai man­ga­nel­li, quel­li gru­gni­va­no for­te e si met­te­va­no a ride­re dal sol­le­ti­co. 

Baza­na mori­va e men­tre mori­va da quel­la stra­da, sul cor­ti­le, vide un maia­le venir­le incon­tro alle­gra­men­te, pron­to a cari­car­la sul­la sua grop­pa e divo­rar­la.

Ma vide pure le pia­strel­le del cor­ti­le lastri­ca­to e sfran­tu­ma­to, lo smal­to resi­duo bril­la­va quan­do veni­va col­pi­to dal­la impre­ve­di­bi­li­tà cor­pu­sco­la­re dei rag­gi del­la luna, che era tor­na­ta, e diven­ta­va bel­lo come gli eso­sche­le­tri sfa­vil­lan­ti del­le ostri­che. Dal­le feri­te pol­ve­ro­se usci­va­no cer­ti fio­ri dai colo­ri chias­so­si, chis­sà per­ché cre­det­te che loro fos­se­ro eter­ni. Poi per­fet­ti. Poi fra­gi­li e inu­ti­li. Alla fine pen­sò solo che era­no bel­lis­si­mi.

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