Ora, per esempio, Bazana beveva una tisana digestiva senza bisogno di dover digerire.
Era di notte, l’aria era madida dopo il temporale corto, e sulla parete a lato del letto persino la sua ombra era più grande di lei.
Il motivo di quella tisana, non proprio gradevole a quell’ora della notte, era che da quando, assai casualmente, aveva iniziato a farne uso la sua ombra aveva cominciato a parlarle. Ora, perché mai quella non avrebbe dovuto avere la voce del corpo, quello di carne? Eppure parlava con una voce diversa, una voce di uomo. Si era sollevata dentro il pigiama color menta e aveva pensato a quella volta in cui un uomo, appena sveglio al mattino, aveva usato l’espressione ora mi incastro dentro i vestiti e vado ad azzannare qualche passante. Solo dopo si era venuto a sapere che, quel giorno, quello aveva effettivamente aggredito alcune persone lungo la strada di casa sua, mentre a lei era piaciuta molto l’idea dei corpi umani che, era vero, ogni giorno non facevano che incastrarsi dentro i vestiti.
La sua ombra la seguiva mentre si alzava e si affacciava al balcone, con la punta dei piedi aveva schiacciato un sottile rivolo di acqua stagna nella fuga biancastra tra le mattonelle annerite. L’odore di urina e acqua piovana, di carne arrosto e cemento fradicio, di terra e grasso che sfrigola, fumo e fiori di qualche pianta grassa. Il cielo sembrava nero, dove i lampioni lo biforcavano si vedeva un vapore fumoso giallo mobile. Nel cortile rotto, ogni notte passava veloce un ragazzino magro in pantaloncini e canottiera, sul capo sopra il berretto scuro teneva in equilibrio con una mano una tavola di legno con un maiale sopra, supino, morto.
Il luccicore della pelle meticcia e sudata del ragazzo diceva di qualche folklore sospeso, di un’allegria da un’ altra parte, come di una festa lontana da lì e interrotta a mezz’aria; si vociferava di sopravvivenza, una parola inaccessibile al giovane, eppure l’aveva presa assai sul serio. Lui incedeva con gli occhi così bassi da sembrare un sonnambulo cieco ed esperto. La peluria rada sul petto e sul viso invece portava con sé il ricordo di qualcos’altro, di qualcuno che gli scorreva nel sangue e che non c’era più; la discendenza era privilegio dei corpi — solo quelli — e portavano memoria di chi e cosa era trascorso. Lontano anonimi, automobili, motorette, sirene e clamori a intermittenza di uomini frequentavano l’atmosfera. Sull’unico muretto verticale la solita bambina col caschetto nero e i calzini bianchi giocava male con il suo hula hoop rosa, lo usava come voleva lei. Sul suo viso regnava costante l’espressione di un fasullo divertimento, coatto, prepotente, una sfida solo per esibire il suo potere di avere ragione su qualsiasi cosa, ogni volta che lei lo avesse deciso. Così, notte dopo notte, non migliorava affatto.
Dietro di lei sullo sfondo, oltre un arco vetusto e bucato da erbacce, stavano appese delle lenzuola al filo tra le fronde di certe palme. Proprio adesso che il ragazzo passava sotto il balcone si vedeva come il maiale avesse delle cicatrici lungo i fianchi, come di percosse; a ben guardare la bestia e il ragazzo avevano la stessa espressione, occhi chiusi e assorti.
“Ogni notte un maiale, che ci faranno con tutti questi maiali.”
“Li mangeranno suppongo” rispose l’ombra e lei trasalì. Lo faceva ogni volta che quella parlava, non si abituava. Diede un altro sorso a quella tisana.
“A dirla tutta, se guardi bene, non sembra tanto morto, sembra più a riposo, assorto…”
“… Sembra si, in effetti, come se il ragazzo lo stesse scortando…”
All’improvviso si sentì un tonfo tremendo fuori dalla porta. Sia Bazana che l’ombra sobbalzarono: “Cosa è stato?” disse lei. Al tonfo seguì un silenzio spezzato, subito dopo qualcosa come uno zoccolo bussò forte alla porta, due colpi netti.
“Vai a vedere chi è” disse l’ombra.
“Se io vado tu vieni con me”.
“No aspetta, prima chiedi chi è”.
“Chi è?” chiese lei allora. Di là non rispose nessuno ma seguirono due colpi netti come prima.
“Vai a vedere chi è”
“Se io vado tu vieni con me”. Bazana e la sua ombra, con improvvisa apprensione e il cuore in petto che aveva trovato un altro modo di battere, si avvicinarono alla porta; molto lentamente sollevarono la mano sul pomello in acciaio, quello si girò e, non appena fece click, qualcosa di fortissimo, al pari di una detonazione, colpì la porta che si spalancò violentemente. Divelti i cardini, fu scaraventata all’interno andando a colpire l’ombra che urlò di dolore e iniziò a inveire contro Bazana che non si era defilata prontamente; così i due caddero all’indietro e iniziarono ad azzuffarsi. Mentre si azzuffavano, proprio davanti ai loro occhi apparve un grosso maiale rosa, minaccioso e fumante, tutto in lui lasciava intendere chiaramente che le sue intenzioni non erano delle migliori. Il maiale aveva le stesse ammaccature sui fianchi di quello che poco prima avevano visto dal balcone.
Nei pressi delle natiche portava marchiato il nome Gilles, il riccio della coda fremeva in modo irreale come se fosse azionato da un meccanismo elettrico, gli occhi porcini erano iniettati violentemente di sangue. Bazana urlò, quello allora grugnì come impazzito e si mosse per caricarla ma lei e l’ombra questa volta scattarono sul fianco, si rimisero in piedi malamente e, con un salto oltre la porta atterrata, furono lungo il corridoio dell’albergo. Subito si misero a correre, si voltarono la prima volta per vedere se tutto quello fosse reale, e non ebbero dubbi quando Gilles sbucò con una brusca impennata sul corridoio e, urlando terribilmente, cominciò a inseguirli. Bazana e la sua ombra avevano la sensazione di non riuscire a correre più di tanto, come se i loro passi affondassero nella moquette verde bottiglia.
Dalle grate grumose lungo le pareti gialle del corridoio, che non era mai sembrato loro così angusto, mai così allucinante in quel giallo insopportabile, veniva fuori aria calda, stantia e spessa come se si affettasse. Grosse chiazze di sudore cominciarono a formarsi sul pigiama color menta di Bazana, i ricci le si appiccicavano sulla fronte, per l’ombra invece tutto quel sudare non significava granché.
Giunsero bruscamente di fronte le porte metalliche dell’ascensore che però portava l’immagine del segnale di Pericolo con una grossa faccia di maiale dentro; immobilizzati dalla sorpresa, con i sensi dilatati dalla percezione di una reale minaccia, si accorsero che dall’interno della cabina dell’ascensore arrivava un gran fracasso di grugniti impazziti.
“Non ti azzardare a chiamare l’ascensore. Di qua!” disse l’ombra.
Il loro tempo perso ne aveva fatto guadagnare all’orribile Gilles scatenato, mentre li caricava i due si ritrovarono per un pelo a svoltare bruscamente in una rampa di scale dalla ringhiera verde oliva, di cui stranamente non si erano mai accorti di quanto bassa fosse. Così, per non finire tragicamente di sotto, si lasciarono cadere con un colpo molto doloroso addosso alla parete, poi iniziarono a precipitarsi a passi e salti convulsi giù lungo la scala, posseduti da una strana vertigine al limite tra il controllo e la totale perdita di esso; era come se la materia pulviscolare delle scale sotto i loro piedi a volte si fondesse saldamente con quella della carne, oppure all’improvviso minacciasse di franargli irrimediabilmente addosso e seppellirli in un baratro di cemento.
Una sorte diversa toccò al maiale che, sconvolto e impreparato dal loro improvviso deviare, non seppe affatto frenare e andò a schiantarsi malamente contro lo stesso muro che però lo rimbalzò all’indietro oltre la ringhiera, come se fosse fatto di gomma. Allora, mentre Bazana e l’ombra, sfiatati, si trovavano ormai quasi ai primi piani, dovettero alzare lo sguardo quasi che avessero avvertito l’improvviso spostamento d’aria; sopra le loro teste videro levitare questo mammifero dapprima piccolo piccolo, lento come fosse sospeso, poi farsi sempre più grande e reale fino a sferzare l’aria con un grugnito diabolico. Per un istante, nella sua caduta libera, era passato per il punto in cui si trovavano ed in men che non si dica era precipitato oltre. Continuarono a correre, presi dall’automatismo di una chimica dei nervi e del corpo oramai innescata e, appoggiandosi al corrimano, videro in basso l’inevitabile schianto, un’esplosione di viscere e sangue.
Giunti sul pianerottolo, vollero accertarsi che quell’assurdo Gilles fosse finalmente kaputt, quindi calmarono il respiro e si avvicinarono in silenzio alla pozza di sangue.
“Oh mio dio, perché mi sta venendo fame?” disse l’ombra.
Bazana lo guardò costernata, nauseata, entrambi scoppiarono in una risata dapprima nervosa, poi sempre più nevrotica.
D’un tratto contro il vetro fumé del portone si schiacciò paonazzo, con un fulmineo spruzzo di sangue e l’occhio fuori dall’orbita, il profilo di un altro maiale. Di nuovo Bazana e l’ombra entrarono in uno stato di allarme. Si accorsero come fuori sulla strada stesse sfilando un’ amalgama informe, densa, scura.
Mentre l’ombra provava a dissuaderla, Balzana già era uscita fuori sulla lingua di marciapiede sgangherato di pozzanghere e pietre rotte come denti spezzati, come se fino a quel momento, col cuore in gola e il sangue alle orecchie, avesse eliminato qualsiasi suono esterno che non fosse il tremendo grido di Gilles. Ora, tutti insieme, rintronavano i lamenti di una città in subbuglio, sirene delle forze della polizia, di ambulanze, di allarmi, versi bestiali oppure urla umane; da qualche parte dalla strada arrivava ancora l’odore familiare di carne arrosto oltre a quello dei fumogeni. In quella striscia di oscurità volti anonimi, cancellati dai caschi oscurati e mani di notte strette intorno a grossi manganelli, marciavano come se fossero scarafaggi, Bazana si voltava a cercare la sua ombra, ma i lampioni erano stati colpiti e la luna forse se l’era svignata, offesa, ed era a dare chiarore a qualcosa che valesse la pena.
Bazana chiamò la sua ombra più volte senza avere risposta. D’un tratto si sentì perduta, ma non ne ebbe tempo più di tanto che un subbuglio più grande aveva accelerato l’incedere scuro del corteo trascinandola con lui. Ecco che ebbe modo di vedere come una fiumana di maiali rosa avanzasse schiacciata e caotica verso di loro, come venisse massacrata dai manganelli, e come gli stessi uomini coi manganelli venissero massacrati oppure mangiati dai maiali rosa. Un colpo cieco subìto all’orecchio di Bazana le fece percepire l’odore del suo sangue aggiungersi a quello del sangue di tutti; perse per un istante l’equilibrio, si lasciò cadere di lato vicino alla carcassa di un maiale agonizzante, che ancora cercava di masticare la mano di qualcuno. Veniva calpestata senza tregua, capì che sarebbe stata uccisa, e poco più in là vide carcasse di uomini.
All’improvviso si sorprese a chiedersi, dov’erano andati a finire tutti? Dov’erano per esempio i bambini, i vecchi e le donne? Perché in quel finimondo non si vedevano nient’altro che uomini armati e maiali? Da quant’era che quella storia andava avanti? La faccia schiacciata a terra, il corpo gonfio che si tumefaceva a vista d’occhio. Bazana pensò all’America, poi a un viaggio che voleva fare, alla sua famiglia, a un fiume, a una città italiana, al gelato alla stracciatella e lo zabaione nel cono che poi divenne la canna di una pistola infilata nella gola di un uomo, ad un palazzo civile in un Oriente di macerie, un piazza grigia deserta battuta dal vento, al vento, al mare, alle Due donne tahitiane di Gauguin, a tutti i musei del mondo, a quello di Copenhagen con la scala che portava in cima al terrazzo assolato con due persone, al tetto di un grattacielo di una megalopoli dove non era mai stata. E, mentre si sentiva svenire, o forse morire, a guardar bene proprio quel tetto era diventato il cortile rotto sotto il suo balcone. Questa non era un’illusione. Dalla posizione schiacciata a terra in cui si trovava, in un ritorno di lucidità, vide una stradina secondaria che sbucava in un cortile identico a quello sotto il suo balcone. In cima al muretto c’era un maiale triste con un hula hoop rosa intorno al muso che avrebbe voluto soltanto che qualcuno gli insegnasse a usarlo quelll’hula hoop. Per tutto il cortile c’era un via vai di maiali con uomini morti sulla groppa. Quando qualche arto umano penzolone gli sfiorava i fianchi percossi dai manganelli, quelli grugnivano forte e si mettevano a ridere dal solletico.
Bazana moriva e mentre moriva da quella strada, sul cortile, vide un maiale venirle incontro allegramente, pronto a caricarla sulla sua groppa e divorarla.
Ma vide pure le piastrelle del cortile lastricato e sfrantumato, lo smalto residuo brillava quando veniva colpito dalla imprevedibilità corpuscolare dei raggi della luna, che era tornata, e diventava bello come gli esoscheletri sfavillanti delle ostriche. Dalle ferite polverose uscivano certi fiori dai colori chiassosi, chissà perché credette che loro fossero eterni. Poi perfetti. Poi fragili e inutili. Alla fine pensò solo che erano bellissimi.