Una storia di resistenza nel cuore petrolifero dell’Amazzonia ecuadoriana.
Lago Agrio. Sour Lake. Letteralmente, la traduzione dall’inglese – dal Texas all’Ecuador. Un posto nato da una cinquantina d’anni per l’esplorazione petrolifera della Texaco – oggi Chevron – che iniziò a setacciare l’area nordorientale del paese nel 1963, e che l’anno successivo perforò il primo pozzo petrolifero di tutta l’Amazzonia. Là dove oggi sorge il centro urbano di Nueva Loja – capitale del cantone di Lago Agrio, provincia di Sucumbíos.
La Texaco era un’importante azienda petrolifera americana, fondata nel 1901 con il nome di Texas Fuel Company e assorbita – esattamente un secolo dopo, nel 2001 – dalla Chevron Corporation, una multinazionale che opera nel settore dell’energia, specializzata in petrolio e gas.
Questa impresa, dagli anni Sessanta agli anni Novanta, ha inquinato intenzionalmente la regione amazzonica dell’Ecuador con oltre sessanta miliardi di litri di acqua tossica e oltre seicento mila barili di petrolio sversati in natura, più di mille km di strade ricoperte di petrolio, milioni di metri cubi di gas bruciati, provocando il più grave disastro ambientale e sociale della storia (Luque et al. 2025).
Malgrado il potere economico, politico e mediatico di Texaco-Chevron, malgrado l’arbitrato internazionale e le pressioni della politica locale, i popoli amazzonici insieme a Udapt – Unión de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de Texaco – resistono da oltre trent’anni (Cepak, Michael C., 2005; Carlson, 2020). In tre decenni di lotta globale per la giustizia – sostenuta anche da numerose ONG internazionali come Amigos de la tierra, Amazon Frontlines, Engim, Caritas, Clínica Ambiental per citarne alcuni – Udapt è riuscita a ottenere una sentenza giudiziaria in Ecuador contro la multinazionale, che dovrebbe risarcire danni pari a nove miliardi e mezzo di dollari all’Amazzonia ecuadoriana.
Tale sentenza — ratificata in tre istanze superiori — però, non è stata eseguita.
Io mi trovo qui da quasi tre mesi e ci rimarrò altri sette. Il motivo per il quale mi fermerò così a lungo in un posto così peculiare, nel cuore della foresta amazzonica, è proprio la battaglia di Udapt, con cui lavorerò fino a marzo dell’anno prossimo in qualità di comunicatrice.
Ma la mia idea non è solo lavorare con Udapt, anzi, prima ancora che a collaborare, sono venuta a conoscere.
Nel territorio avvelenato
Sono le otto e mezza del mattino, piove ma non c’è da stupirsi, quello che stupisce davvero è che io, Silvia, Sophia e Giulia arriviamo tutte puntuali all’appuntamento che ci siamo date il giorno prima a Udapt.
Vestite da campo, munite di botas de agua nuove di zecca e pronte a infangarci, montiamo sul pick-up di Donald con facce serie e ancora assonnate, ma soprattutto con le facce di chi non sa che sta per imprimere un importante ricordo nella memoria. D’altronde, nessuno è preparato a cambiare: si tratta di un processo che avviene lentamente, a causa di uno o più fattori scatenanti, i cui effetti si vedono sul lungo termine. A un certo punto, improvvisamente, ci accorgiamo di non essere più quelli che eravamo.
Dunque, sono le otto e mezza del mattino e stiamo uscendo a caccia del dragón, ma prima ci dirigiamo ai pozzi petroliferi.
Cominciamo da quello più lontano – per scampare alla pioggia che si rovescia su Lago Agrio – per cui ci inoltriamo per una buona mezz’ora verso est, e attraversiamo il fiume Aguarico su una chiatta, fino a raggiungere una delle mille “piscine” disseminate nella foresta e poi la finca – la piantagione – della signora Carmen, dove c’era stato un derrame – una fuoriuscita – non molto tempo prima.
Donald avvia una playlist struggente, in compenso lui è allegro, racconta barzellette e aneddoti, parla di tutt’altro pur di non andare dritto al punto: è stanco, si nota. Quando sposi una causa per la quale non esiste confine tra vita privata e vita lavorativa, a volte hai voglia di uscirne ma nessun luogo dove andare.
Da anni Donald porta in giro gente locale e forestiera in quello che è stato battezzato come toxic tour, con l’obiettivo di far conoscere i danni che le compagnie petrolifere hanno arrecato alla regione amazzonica ecuadoriana.
Arrivati alla “piscina”, il nostro accompagnatore ci chiede ironicamente se abbiamo portato i costumi da bagno, ci porge dei guanti di lattice e ci dice di non muoverci, mentre lui cammina con passo sicuro sulla superficie di quello che sembra un materasso ad acqua. La piscina di cui sto parlando è un’immensa vasca di petrolio, coperta da pochi metri di terra su cui, negli anni, sono riuscite a prosperare piante fitodepurative – un tipo di vegetazione in grado di estrarre elevati livelli di cromo dal suolo e, in caso di contaminazione petrolifera, contenere e parzialmente decomporre gli idrocarburi (Tapia Borja, A. I. et al. 2024).
Ciò che sto vedendo è paradossale, il suolo, che siamo abituati a sentire solido sotto ai nostri piedi, è in realtà un miscuglio viscoso, un humus di terra e petrolio, e oscilla spaventosamente al passaggio di Donald, che prende un bastone alto almeno tre metri e lo conficca dentro per mostrarne la profondità.
Sotto la superficie molle e nera si nasconde la memoria geologica di un crimine, l’eredità velenosa lasciata da Texaco. Per capire fino in fondo cosa stiamo guardando, occorre riavvolgere il nastro e tornare là dove tutto è cominciato: al primo pozzo, al primo silenzio, e alla prima azione giudiziaria.
Sangue nero
La compagnia petrolifera Texaco, tra il 1964 ed il 1992 ha scavato più di trecento pozzi nell’Amazzonia ecuadoriana.
Il processo contro la Texaco è iniziato ben trentadue anni fa, per mano di quella che oggi si chiama Udapt, un’organizzazione nata per far fronte a quella che viene definita “La Chernobyl dell’Amazzonia”, in rappresentanza di più di trentamila persone che abitano le terre contaminate e dei querelanti che hanno avviato ricorsi giudiziari contro la multinazionale. (Luque et al. 2025; Patel 2012).
La Texaco è infatti colpevole di aver avvelenato il Río Aguarico, il Cuyabeno, il Pacayacu, e altri corsi d’acqua con relativi affluenti, nonché quattrocento ottantamila ettari di terreno, a cui è seguito un forte innalzamento dell’indice di tumori – soprattutto tra le donne – malattie respiratorie, aborti spontanei e ulteriori patologie tra i residenti della zona (Johnston et al. 2019). Ad oggi, Udapt non si occupa solo di assistenza legale, ma anche di assistenza sanitaria e psicologica alle persone malate di cancro, sostiene campagne per la prevenzione, lavora per la promozione e la difesa dei diritti umani, e ha una sua Comisión de mujeres che promuove i diritti delle donne sul territorio.
La sentenza ignorata
Nel 2011, la corte di Sucumbíos ha dichiarato la Texaco colpevole di ecocidio e l’ha condannata a pagare nove miliardi e mezzo all’Amazzonia per la remediación: questi soldi non sarebbero destinati ai singoli querelanti né agli avvocati dell’azione giudiziaria, ma alla selva, alle sue terapie, ergo a interventi di pulizia volte al risanamento, che la stessa multinazionale avrebbe dovuto svolgere (Patel 2012).
Nel 1995 – anni prima della sentenza –, la Texaco firmò un accordo con il governo per farsi carico di alcuni passivi ambientali, attuò un contratto e il governo liberò l’azienda da responsabilità successive.
Peccato che la remediación – il risanamento – operata sia stata una presa in giro bella e buona, in quanto il petrolio non è stato rimosso, ma nascosto – le piscine sono state coperte da cumuli di terra – e dunque continua a contaminare, con gravi conseguenze su salute, agricoltura e cultura delle popolazioni indigene di cui la foresta è casa, dispensa e farmacia (Cepak 2005; Luque et al. 2025)
La sentenza del 2011 è stata confermata da tre istanze giudiziarie ecuadoriane, fino alla Corte Costituzionale nel 2018. Tuttavia, Chevron ha ignorato il giudizio, spostando i suoi beni all’estero e attivando un arbitrato internazionale nei Paesi Bassi, ottenendo un lodo favorevole che ribalta la responsabilità sullo Stato ecuadoriano.
Da quando è iniziata la battaglia legale, Chevron ha mobilitato oltre 2000 avvocati e decine di agenzie di spionaggio – come Kroll Inc. – per screditare avvocati avversari e attivisti, influenzando governi e media (Farrington 2024). Il governo ecuadoriano, sotto pressione internazionale – soprattutto dagli Stati Uniti – si è progressivamente allineato alla posizione della multinazionale, cercando di rispettare il lodo arbitrale invece della sentenza nazionale.
Dunque, ottenuta la vittoria in tribunale, i popoli amazzonici si sono visti costretti a continuare la lotta: questa volta per far valere la sentenza. Adesso la loro sfida è quella di denunciare un sistema globale di impunità delle transnazionali (The Yale Review of International Studies, 2020).
La selva, lo Stato, il mito del progresso
Cosa c’era quando arrivò l’impresa statunitense? “Niente”, risponderebbero in molti. Un’affermazione che la dice lunga su uno sguardo coloniale ancora ben radicato: perché se è vero che non c’era lo Stato – almeno non nella sua forma centralizzata ed efficace, c’era la selva con il suo ordine ancestrale, già lì da milioni di anni con numerosi abitanti.
C’erano i popoli Shuar, i Siekopai, i Waorani, gli A’I Kofan, i Siona, i Kichwa, i Tetete ed altri ancora, oltre ai contadini figli di coloni – i cosiddetti mestizos – ma non solo, perché prima che arrivasse la Texaco c’era già un ricco ecosistema di specie vegetali e animali esercitanti il semplice diritto alla vita (Carlson 2020; Tavares 2024).
Quando l’Ecuador ottenne l’indipendenza dalla Spagna – nel 1822 – gran parte dell’Amazzonia rimase fuori dal controllo effettivo dello Stato centrale. In epoca repubblicana, la regione amazzonica era percepita come el oriente: periferica, selvaggia, inesplorata. La penetrazione statale fu lenta, discontinua e spesso mediata da attori esterni, come missionari, militari o imprese private (Cepak 2005).
Fu solo tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento che l’Ecuador cominciò a promuovere una colonizzazione interna dell’oriente, aprendo le porte all’estrattivismo petrolifero e alle compagnie straniere. La Texaco non fu dunque solo un attore economico, ma uno strumento attraverso cui lo Stato penetrò in territori fino ad allora esclusi dal progetto nazionale, in nome dello “sviluppo”. Una penetrazione che si fece violenta, sistematica, silenziosamente autorizzata.
Tuttavia, nel 2008 si ha un cambio di rotta e viene riconosciuto il “diritto della selva” dalla Costituzione ecuadoriana In quell’anno, a seguito dell’elezione del presidente Rafael Correa – che riforma il paese, rompendo con il neoliberismo e accogliendo la richiesta di giustizia sociale dei movimenti indigeni – lo stato ecuadoriano viene rifondato sul concetto andino del Sumak Kawsay, el “Buen vivir”. Una sorta di modello olistico di armonia tra esseri umani e natura, in opposizione al modello capitalista occidentale (Gudynas 2011; Codato et al. 2024).
Nonostante gli scandali che emergono nel 2019 a seguito del mandato di Correa e che lo tacciano – tra le numerose accuse – anche di aver tradito gli ideali ecologisti, l’eredità di uno dei presidenti più giovani che il paese ha avuto si può leggere sulla Carta Costituzionale, la quale riconosce esplicitamente i diritti della Pachamama in quattro articoli.
La prospettiva antispecista è rivoluzionaria, le parole adoperate sono ammirevoli:
“La Naturaleza o Pachamama, donde se reproduce y realiza la vida, tiene derecho a que se respete integralmente su existencia y el mantenimiento y regeneración de sus ciclos vitales, estructura, funciones y procesos evolutivos.”
“La Natura o Pachamama, dove si riproduce e si realizza la vita, ha il diritto che venga rispettata integralmente la sua esistenza e il mantenimento e la rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi”.
Questo recita l’articolo 71, ma come ben sappiamo, tra il dire e il fare – soprattutto in politica – c’è di mezzo un mare di merda.
Il sapore amaro della resistenza
Donald ci fa toccare con mano l’intruglio fetido, ce lo passiamo come una patata bollente, trattenendo i conati di vomito, poi ci fa addentrare un po’ di più a esaminare un tubo chiamato cuello de ganso: riversa petrolio in un bacino che confluisce in un torrente, che a sua volta si immette nell’Aguarico, che sfocia nell’oceano Atlantico. È paradossale che una compagnia transnazionale – che può lavorare su scala mondiale proprio grazie alla globalizzazione – non abbia un pensiero globale anche quando si tratta di pensare alle ripercussioni delle proprie azioni.
Pur di risparmiare due soldi hanno preferito eseguire male i lavori, pensando che sarebbe passato tutto inosservato – lontano dal Texas e da quella che a lungo abbiamo definito civilizzazione, in contrapposizione alla barbarie dei popoli indigeni.
Ma chi sono i veri incivili?
Il silenzio ci accompagna fino al ritorno alla macchina. Ci sistemiamo sul cassone, per non insozzare i sedili di dietro, e nessuno proferisce parola fino alla sosta successiva. Solo la voce rotta di Sophi irrompe nella selva: «Io proprio non capisco la gente che non se ne frega un cazzo degli altri».
La tappa successiva di questa singolare escursione è l’ispezione della finca della signora Carmen, dove pochi mesi prima si era verificato un derrame, vale a dire una fuoriuscita di petrolio, che le aveva avvelenato tutto, meno l’animo. Quando riusciamo a scovarla, nella sua piantagione di cacao, ci accoglie con un largo sorriso, senza smettere di spaccare – con movimenti precisi e meccanici – le cabosse per estrarne i semi che poi avrebbe messo a seccare. Il suono laconico della lama del machete scandisce un ritmo che ci fa entrare in trance: non riusciamo a distogliere lo sguardo dalle mani di Carmen e di suo marito che, imperterriti, continuano il loro lavoro mentre chiacchierano con noi.
Ci danno da assaggiare i semi del cacao e noi li ciucciamo per poi risputarli nel secchio; è cacao di varietà rossa, non il più prelibato, ma mi sembra così speciale poter mangiare questo frutto che poco me ne importa della qualità. Gringas.
Comunque, non eravamo di certo venute a “gringare”, Donald si congeda e noi facciamo altrettanto, seguendolo per recarci sul luogo dove sono ancora visibili i segni del disastro. Camminando lungo il fiumiciattolo che attraversa la proprietà di doña Carmen, notiamo non solo la colorazione marrone e l’anomala densità delle sue acque, ma anche un decadimento della vegetazione che cresce sulle sue sponde: ci basta sollevare una zolletta di terra sull’argine per vedere il petrolio affiorare sul pelo dell’acqua.
Io mi sento inerme e incazzata. Non oso immaginare la rabbia di queste persone, eppure appaiono così inspiegabilmente calme, Donald, la signora Carmen, tutti loro, saranno stati tanto abituati a subire da aver esaurito la rabbia. Penso al colonialismo, a certe espressioni del castigliano di qui, come mande? letteralmente “comandi?”, equivalente al nostro “come?” quando non capiamo qualcosa, o a la orden, letteralmente “agli ordini”, pronunciato dai commessi appena entra un cliente in negozio. Penso a seicento anni di sfruttamento e soprusi ed è come se potessi leggere nei loro volti l’oltraggio che hanno ricevuto dai tempi di Cristoforo Colombo.
Oltre alla collera, abbiamo accumulato anche la fame: la nostra guida ci porta a pranzo in una bettola in una località chiamata Primavera – il cui attributo più primaverile sono i due chioschetti colorati che vendono gelati e caramelle al bordo della strada. Qui mangiamo un bolón impossibile da mandare giù senza l’abituale succo di accompagnamento, mentre osserviamo incuriosite e sconfortate i titoli del telegiornale in onda a tutto volume.
Ripartiamo in direzione Lago, saliamo nuovamente sulla chiatta per tornare sull’altro lato del fiume, e adesso sì che comincia la caccia al dragón.
Il tragitto dura una ventina di minuti fino alla tana del mostro a cui stiamo dando la caccia, guardo instancabilmente fuori dal finestrino un panorama dalle molteplici tonalità di verde – apparentemente sempre identico, eppure, in realtà, straordinariamente eterogeneo – dove convivono infinite specie vegetali: è quasi impossibile pensare che, dietro quel manto rigoglioso, si nascondano centinaia di pozzi petroliferi.
Parcheggiamo il pick-up e, per non destare sospetti, gettiamo tra gli arbusti la pala e gli utensili che ci stavamo portando dietro. Donald impugna il machete per farci strada – inizio a pensare che ne vorrei uno anche io, da queste parti sembra indispensabile – e man mano che avanziamo sentiamo il respiro del dragón farsi sempre più vicino.
Più ci addentriamo e più la vegetazione ci inghiotte, più la vegetazione ci inghiotte e più avanza l’oscurità, più avanza l’oscurità e più demoniaci sembrano i boati che echeggiano nel groviglio di foglie che ci avvolge.
Procediamo con passo felpato nella penombra, il fragore diventa insopportabile, la foresta si squarcia e lascia allo scoperto il possente dragón.
Si erge immobile, tenebroso, su una distesa rovente e deserta strappata alla selva, sputando fuoco da due bocche sottili che svettano nel cielo ora azzurro dopo le piogge del mattino che sembravano interminabili. Il mostro in questione si chiama mechero.
I mecheros – accendini, in italiano – sono torce di combustione a cielo aperto, usate per bruciare il gas derivato dall’estrazione del petrolio. Il nome proprio di questi apparati sarebbe l’inglese gas flares, strutture verticali metalliche alte dai tre ai dodici metri, piantate direttamente sul suolo; alla base ci sono tubi collegati ai pozzi petroliferi, mentre da una bocca in sommità fuoriesce il gas, ventiquattr’ore su ventiquattro.
L’inquietante fiamma prodotta assume colorazioni che variano dal rosso, all’arancio, al blu, a seconda dei gas emessi e della pressione, arrivando a temperature fino ai 400 gradi celsius.
Questi mecheros liberano nell’ambiente gas serra, diossine, metalli pesanti, particolato e altre sostanze altamente nocive che soffocano il diritto alla salute delle persone che vivono nelle loro vicinanze sotto una coltre di polveri tossiche. (Johnston et al. 2019)
Non c’è nessuna recinzione attorno, né un cartello che segnali il pericolo, chiunque può tranquillamente avvicinarsi e passeggiare sulla terra nera, secca e sterile tutt’attorno.
Nella provincia di Sucumbíos e Orellana, attualmente ci sono quattrocentoottantasei mecheros.
Le guerriere dell’Amazzonia
Nel 2021, un gruppo di nove bambine mestizas, “las guerreras de la Amazonía”, ha presentato una causa costituzionale contro lo Stato ecuadoriano per la presenza dei mecheros, chiedendone l’eliminazione.
Queste bambine e le loro famiglie vivono nelle immediate vicinanze delle torce di combustione e tutte hanno almeno un parente malato o morto di cancro, motivo che le ha spinte, con il supporto legale di Udapt, a reclamare giustizia ai piani alti.
Nel momento in cui cominciarono le operazioni petrolifere, nessuno andò a chiedere il permesso né tantomeno ad informare le popolazioni indigene che abitavano nella zona. Molte comunità si videro costrette ad allontanarsi e ricostruire i propri villaggi altrove, alcune nazionalità come quella dei Tetete si sono addirittura estinte per via della deforestazione massiccia, dell’inquinamento e dell’invasione subita nel loro territorio ancestrale.
Il caso Mecheros è un procedimento giuridico pionieristico in America Latina. Sostenute da Udapt, le nove bambine querelanti hanno intrapreso una battaglia che travalica i confini locali per assumere una portata globale: la combustione dei gas dei mecheros non solo viola diritti garantiti dalla costituzione ecuadoriana, come il diritto alla salute e ad un ambiente sano, ma al tempo stesso viola anche la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) (Codato et al. 2024).
Fiamme che non si estinguono: tra legge e realtà
La Corte Costituzionale ha riconosciuto alle ragazzine la violazione dei diritti e ha ordinato allo Stato ecuadoriano di elaborare un programma per il progressivo smantellamento, programma che non è stato ancora neanche lontanamente messo in atto.
Nel frattempo il numero di mecheros non è diminuito: al contrario, è cresciuto nel corso degli anni. Parallelamente, però, è cresciuta anche la forza del movimento: le bambine che hanno dato inizio a questa lotta non sono più soltanto nove, oggi sono diventate quindici.
Crepuscolo tossico
La superficie attorno al dragón è un cimitero di insetti di piccole e grandi dimensioni carbonizzati, ne fotografiamo alcuni, sublimati nella morte del loro ultimo volo.
L’aria è incandescente, siamo sudate, stanche e provate, lo sono anche i nostri telefoni e le nostre macchine fotografiche, è stanco Donald che lotta da trent’anni, è stanco il giorno che si approssima al crepuscolo.
L’impotenza è la sensazione che suole pervadere la nostra generazione massivamente affetta dall’ecoansia: prima ancora di chiederci cosa possiamo fare, siamo costretti a domandarci se possiamo fare qualcosa. Se il popolo esiste ancora come soggetto politico o se siamo già merce. Se il capitalismo può davvero capitolare o se, a un certo punto della resistenza, finiremo invece per desistere. E allora ci ritireremo in microcosmi alternativi, rifugi bucolici e queer-friendly, comunità hippy ultra-organiche e autocertificate, dove coltivare pomodori, sogni e identità – lontane dalle città: simboli ormai esausti di un sistema politico-economico che non ci rappresenta.
Da ottimista, penso che possiamo sempre fare qualcosa.
Se non la pensassi così, non sarei venuta dall’altra parte del mondo, in un posto sciagurato, ben lontano dalla visione romanticizzata dell’America Latina che la nostra generazione ecoansiata però mochilera ha costruito in Europa.
Prima di venire qui, per anni ho ascoltato i racconti di amici e amiche – ma anche di perfetti sconosciuti – sull’Amazzonia e in generale su questo continente-panacea per tutti i mali occidentali. Per anni ho sognato di camminare sulle Ande, stendermi al sole sulle spiagge caraibiche, ammirare paesaggi mozzafiato, entrare in contatto con popoli aborigeni in territori vergini, imparare a ballare la salsa e avere così, anche io, il mio pacchetto di storie emozionanti sul viaggio in Sudamerica che ti cambia la vita.
Certo, il Sudamerica è anche questo: è panacea, è idillio, è il viaggio che ti cambia la vita – che duri due settimane, due mesi o due anni. Però, ahimé, la realtà è più sfaccettata e complessa delle nostre fantasie, e spesso si nasconde lontano dagli occhi sognanti delle nostre visite temporanee, in cui non facciamo in tempo a regolare i livelli di adrenalina e serotonina che già stiamo prenotando il prossimo ostello sul Cotopaxi.
Con questo non intendo biasimare nessuno, anzi, ringrazio chiunque abbia speso del tempo prezioso a narrarmi le sue avventure, perché hanno contribuito a spingermi ad arrivare fin qui. Chi mi conosce mi avrà sentito condannare più volte il turismo ed è al corrente della mia personale concezione di “viaggio”: per me spostarsi da un luogo all’altro deve proprio valere la pena, per un qualcosa o un qualcuno che mi motiva a impacchettare le mie cose e prendere un aereo.
Detto ciò, il punto era: fare qualcosa.
Nella totale perdita di senso in cui viviamo, ciò che ci resta è la fede; non una fede religiosa, ma la fede intesa come fiducia nella verità e giustezza di un assunto, un’intima convinzione in grado di superare la realtà, senza banalizzarla né idealizzarla, abitandola nelle sue crepe e tentando di rimarginarle.
In uno scenario così complesso, le possibilità di intervento individuale possono sembrare limitate. Tuttavia, è fondamentale riconoscere il valore dell’informazione, della diffusione critica dei contenuti, delle scelte di consumo consapevoli e della coerenza tra valori e pratiche quotidiane. Oggi più che mai, davanti a un sistema che normalizza lo sfruttamento e l’occultamento della violenza, serve agire: una presa di posizione cosciente diventa uno strumento essenziale di lotta.
I problemi che affliggono l’Amazzonia e le sue comunità non sono il risultato di fatalità geografiche, ma di scelte politiche ed economiche internazionali; fronteggiare queste realtà richiede un ripensamento radicale del nostro modo di rapportarci al mondo.
Viaggiare in Sudamerica – o in qualunque altro contesto del Sud globale – comporta una responsabilità: quella di andare oltre l’osservazione passiva, interrogandosi sui retroscena politici, ambientali e sociali dei territori attraversati. La consapevolezza, se non può trasformare da sola le strutture, è quantomeno il primo passo per non esserne complici.
Testo e fotografie a cura di Alice Corbo
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