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Luglio
23 Luglio 2025

A CAC­CIA DEL DRA­GÓN

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Una sto­ria di resi­sten­za nel cuo­re petro­li­fe­ro dell’Amazzonia ecua­do­ria­na.

Lago Agrio. Sour Lake. Let­te­ral­men­te, la tra­du­zio­ne dall’inglese – dal Texas all’Ecuador. Un posto nato da una cin­quan­ti­na d’anni per l’esplorazione petro­li­fe­ra del­la Texa­co –  oggi Che­vron – che ini­ziò a setac­cia­re l’area nor­do­rien­ta­le del pae­se nel 1963, e che l’anno suc­ces­si­vo per­fo­rò il pri­mo poz­zo petro­li­fe­ro di tut­ta l’Amazzonia. Là dove oggi sor­ge il cen­tro urba­no di Nue­va Loja –  capi­ta­le del can­to­ne di Lago Agrio, pro­vin­cia di Sucum­bíos.

La Texa­co era un’importante azien­da petro­li­fe­ra ame­ri­ca­na, fon­da­ta nel 1901 con il nome di Texas Fuel Com­pa­ny e assor­bi­ta –  esat­ta­men­te un seco­lo dopo, nel 2001 –  dal­la Che­vron Cor­po­ra­tion, una mul­ti­na­zio­na­le che ope­ra nel set­to­re dell’energia, spe­cia­liz­za­ta in petro­lio e gas.

Que­sta impre­sa, dagli anni Ses­san­ta agli anni Novan­ta, ha inqui­na­to inten­zio­nal­men­te la regio­ne amaz­zo­ni­ca dell’Ecuador con oltre ses­san­ta miliar­di di litri di acqua tos­si­ca e oltre sei­cen­to mila bari­li di petro­lio sver­sa­ti in natu­ra, più di mil­le km di stra­de rico­per­te di petro­lio, milio­ni di metri cubi di gas bru­cia­ti, pro­vo­can­do il più gra­ve disa­stro ambien­ta­le e socia­le del­la sto­ria (Luque et al. 2025). 

Mal­gra­do il pote­re eco­no­mi­co, poli­ti­co e media­ti­co di Texa­co-Che­vron, mal­gra­do l’arbitrato inter­na­zio­na­le e le pres­sio­ni del­la poli­ti­ca loca­le, i popo­li amaz­zo­ni­ci insie­me a Udapt –  Unión de Afec­ta­dos y Afec­ta­das por las Ope­ra­cio­nes Petro­le­ras de Texa­co –  resi­sto­no da oltre trent’anni (Cepak, Michael C., 2005; Carl­son, 2020). In tre decen­ni di lot­ta glo­ba­le per la giu­sti­zia –  soste­nu­ta anche da nume­ro­se ONG inter­na­zio­na­li come Ami­gos de la tier­ra, Ama­zon Fron­tli­nes, Engim, Cari­tas, Clí­ni­ca Ambien­tal per citar­ne alcu­ni –  Udapt è riu­sci­ta a otte­ne­re una sen­ten­za giu­di­zia­ria in Ecua­dor con­tro la mul­ti­na­zio­na­le, che dovreb­be risar­ci­re dan­ni pari a nove miliar­di e mez­zo di dol­la­ri all’Amazzonia ecua­do­ria­na.

Tale sen­ten­za — rati­fi­ca­ta in tre istan­ze supe­rio­ri — però, non è sta­ta ese­gui­ta.

Io mi tro­vo qui da qua­si tre mesi e ci rimar­rò altri set­te. Il moti­vo per il qua­le mi fer­me­rò così a lun­go in un posto così pecu­lia­re, nel cuo­re del­la fore­sta amaz­zo­ni­ca, è pro­prio la bat­ta­glia di Udapt, con cui lavo­re­rò fino a mar­zo dell’anno pros­si­mo in qua­li­tà di comu­ni­ca­tri­ce. 

Ma la mia idea non è solo lavo­ra­re con Udapt, anzi, pri­ma anco­ra che a col­la­bo­ra­re, sono venu­ta a cono­sce­re

Nel ter­ri­to­rio avve­le­na­to

Sono le otto e mez­za del mat­ti­no, pio­ve ma non c’è da stu­pir­si, quel­lo che stu­pi­sce dav­ve­ro è che io, Sil­via, Sophia e Giu­lia arri­via­mo tut­te pun­tua­li all’appuntamento che ci sia­mo date il gior­no pri­ma a Udapt.

Vesti­te da cam­po, muni­te di botas de agua nuo­ve di zec­ca e pron­te a infan­gar­ci, mon­tia­mo sul pick-up di Donald con fac­ce serie e anco­ra asson­na­te, ma soprat­tut­to con le fac­ce di chi non sa che sta per impri­me­re un impor­tan­te ricor­do nel­la memo­ria. D’altronde, nes­su­no è pre­pa­ra­to a cam­bia­re: si trat­ta di un pro­ces­so che avvie­ne len­ta­men­te, a cau­sa di uno o più fat­to­ri sca­te­nan­ti, i cui effet­ti si vedo­no sul lun­go ter­mi­ne. A un cer­to pun­to, improv­vi­sa­men­te, ci accor­gia­mo di non esse­re più quel­li che era­va­mo.

Dun­que, sono le otto e mez­za del mat­ti­no e stia­mo uscen­do a cac­cia del dra­gón, ma pri­ma ci diri­gia­mo ai poz­zi petro­li­fe­ri.

Comin­cia­mo da quel­lo più lon­ta­no – per scam­pa­re alla piog­gia che si rove­scia su Lago Agrio – per cui ci inol­tria­mo per una buo­na mezz’ora ver­so est, e attra­ver­sia­mo il fiu­me Agua­ri­co su una chiat­ta, fino a rag­giun­ge­re una del­le mil­le “pisci­ne” dis­se­mi­na­te nel­la fore­sta e poi la fin­ca – la pian­ta­gio­ne – del­la signo­ra Car­men, dove c’era sta­to un der­ra­me – una fuo­riu­sci­ta – non mol­to tem­po pri­ma.

Donald avvia una play­li­st strug­gen­te, in com­pen­so lui è alle­gro, rac­con­ta bar­zel­let­te e aned­do­ti, par­la di tutt’altro pur di non anda­re drit­to al pun­to: è stan­co, si nota. Quan­do spo­si una cau­sa per la qua­le non esi­ste con­fi­ne tra vita pri­va­ta e vita lavo­ra­ti­va, a vol­te hai voglia di uscir­ne ma nes­sun luo­go dove anda­re.

Da anni Donald por­ta in giro gen­te loca­le e fore­stie­ra in quel­lo che è sta­to bat­tez­za­to come toxic tour, con l’obiettivo di far cono­sce­re i dan­ni che le com­pa­gnie petro­li­fe­re han­no arre­ca­to alla regio­ne amaz­zo­ni­ca ecua­do­ria­na. 

Arri­va­ti alla “pisci­na”, il nostro accom­pa­gna­to­re ci chie­de iro­ni­ca­men­te se abbia­mo por­ta­to i costu­mi da bagno, ci por­ge dei guan­ti di lat­ti­ce e ci dice di non muo­ver­ci, men­tre lui cam­mi­na con pas­so sicu­ro sul­la super­fi­cie di quel­lo che sem­bra un mate­ras­so ad acqua. La pisci­na di cui sto par­lan­do è un’immensa vasca di petro­lio, coper­ta da pochi metri di ter­ra su cui, negli anni, sono riu­sci­te a pro­spe­ra­re pian­te fito­de­pu­ra­ti­ve – un tipo di vege­ta­zio­ne in gra­do di estrar­re ele­va­ti livel­li di cro­mo dal suo­lo e, in caso di con­ta­mi­na­zio­ne petro­li­fe­ra, con­te­ne­re e par­zial­men­te decom­por­re gli idro­car­bu­ri (Tapia Bor­ja, A. I. et al. 2024).

Ciò che sto veden­do è para­dos­sa­le, il suo­lo, che sia­mo abi­tua­ti a sen­ti­re soli­do sot­to ai nostri pie­di, è in real­tà un miscu­glio visco­so, un humus di ter­ra e petro­lio, e oscil­la spa­ven­to­sa­men­te al pas­sag­gio di Donald, che pren­de un basto­ne alto alme­no tre metri e lo con­fic­ca den­tro per mostrar­ne la pro­fon­di­tà.

Sot­to la super­fi­cie mol­le e nera si nascon­de la memo­ria geo­lo­gi­ca di un cri­mi­ne, l’e­re­di­tà vele­no­sa lascia­ta da Texa­co. Per capi­re fino in fon­do cosa stia­mo guar­dan­do, occor­re riav­vol­ge­re il nastro e tor­na­re là dove tut­to è comin­cia­to: al pri­mo poz­zo, al pri­mo silen­zio, e alla pri­ma azio­ne giu­di­zia­ria.

San­gue nero 

La com­pa­gnia petro­li­fe­ra Texa­co, tra il 1964 ed il 1992 ha sca­va­to più di tre­cen­to poz­zi nell’Amazzonia ecua­do­ria­na. 

Il pro­ces­so con­tro la Texa­co è ini­zia­to ben tren­ta­due anni fa, per mano di quel­la che oggi si chia­ma Udapt, un’organizzazione nata per far fron­te a quel­la che vie­ne defi­ni­ta “La Cher­no­byl dell’Amazzonia”, in rap­pre­sen­tan­za di più di tren­ta­mi­la per­so­ne che abi­ta­no le ter­re con­ta­mi­na­te e dei que­re­lan­ti che han­no avvia­to ricor­si giu­di­zia­ri con­tro la mul­ti­na­zio­na­le. (Luque et al. 2025; Patel 2012).

La Texa­co è infat­ti col­pe­vo­le di aver avve­le­na­to il Río Agua­ri­co, il Cuya­be­no, il Paca­ya­cu, e altri cor­si d’acqua con rela­ti­vi affluen­ti, non­ché quat­tro­cen­to ottan­ta­mi­la etta­ri di ter­re­no, a cui è segui­to un for­te innal­za­men­to dell’indice di tumo­ri – soprat­tut­to tra le don­ne –  malat­tie respi­ra­to­rie, abor­ti spon­ta­nei e ulte­rio­ri pato­lo­gie tra i resi­den­ti del­la zona (John­ston et al. 2019). Ad oggi, Udapt non si occu­pa solo di assi­sten­za lega­le, ma anche di assi­sten­za sani­ta­ria e psi­co­lo­gi­ca alle per­so­ne mala­te di can­cro, sostie­ne cam­pa­gne per la pre­ven­zio­ne, lavo­ra per la pro­mo­zio­ne e la dife­sa dei dirit­ti uma­ni, e ha una sua Comi­sión de muje­res che pro­muo­ve i dirit­ti del­le don­ne sul ter­ri­to­rio.

La sen­ten­za igno­ra­ta

Nel 2011, la cor­te di Sucum­bíos ha dichia­ra­to la Texa­co col­pe­vo­le di eco­ci­dio e l’ha con­dan­na­ta a paga­re nove miliar­di e mez­zo all’Amazzonia per la reme­dia­ción: que­sti sol­di non sareb­be­ro desti­na­ti ai sin­go­li que­re­lan­ti né agli avvo­ca­ti dell’azione giu­di­zia­ria, ma alla sel­va, alle sue tera­pie, ergo a inter­ven­ti di puli­zia vol­te al risa­na­men­to, che la stes­sa mul­ti­na­zio­na­le avreb­be dovu­to svol­ge­re (Patel 2012).

Nel 1995 – anni pri­ma del­la sen­ten­za –, la Texa­co fir­mò un accor­do con il gover­no per far­si cari­co di alcu­ni pas­si­vi ambien­ta­li, attuò un con­trat­to e il gover­no libe­rò l’azienda da respon­sa­bi­li­tà suc­ces­si­ve.

Pec­ca­to che la reme­dia­ción – il risa­na­men­to – ope­ra­ta sia sta­ta una pre­sa in giro bel­la e buo­na, in quan­to il petro­lio non è sta­to rimos­so, ma nasco­sto – le pisci­ne sono sta­te coper­te da cumu­li di ter­ra – e dun­que con­ti­nua a con­ta­mi­na­re, con gra­vi con­se­guen­ze su salu­te, agri­col­tu­ra e cul­tu­ra del­le popo­la­zio­ni indi­ge­ne di cui la fore­sta è casa, dispen­sa e far­ma­cia (Cepak 2005; Luque et al. 2025)

La sen­ten­za del 2011 è sta­ta con­fer­ma­ta da tre istan­ze giu­di­zia­rie ecua­do­ria­ne, fino alla Cor­te Costi­tu­zio­na­le nel 2018. Tut­ta­via, Che­vron ha igno­ra­to il giu­di­zio, spo­stan­do i suoi beni all’estero e atti­van­do un arbi­tra­to inter­na­zio­na­le nei Pae­si Bas­si, otte­nen­do un lodo favo­re­vo­le che ribal­ta la respon­sa­bi­li­tà sul­lo Sta­to ecua­do­ria­no.

Da quan­do è ini­zia­ta la bat­ta­glia lega­le, Che­vron ha mobi­li­ta­to oltre 2000 avvo­ca­ti e deci­ne di agen­zie di spio­nag­gio – come Kroll Inc. – per scre­di­ta­re avvo­ca­ti avver­sa­ri e atti­vi­sti, influen­zan­do gover­ni e media (Far­ring­ton 2024). Il gover­no ecua­do­ria­no, sot­to pres­sio­ne inter­na­zio­na­le – soprat­tut­to dagli Sta­ti Uni­ti – si è pro­gres­si­va­men­te alli­nea­to alla posi­zio­ne del­la mul­ti­na­zio­na­le, cer­can­do di rispet­ta­re il lodo arbi­tra­le inve­ce del­la sen­ten­za nazio­na­le

Dun­que, otte­nu­ta la vit­to­ria in tri­bu­na­le, i popo­li amaz­zo­ni­ci si sono visti costret­ti a con­ti­nua­re la lot­ta: que­sta vol­ta per far vale­re la sen­ten­za. Ades­so la loro sfi­da è quel­la di denun­cia­re un siste­ma glo­ba­le di impu­ni­tà del­le trans­na­zio­na­li (The Yale Review of Inter­na­tio­nal Stu­dies, 2020).

La sel­va, lo Sta­to, il mito del pro­gres­so

Cosa c’era quan­do arri­vò l’impresa sta­tu­ni­ten­se? “Nien­te”, rispon­de­reb­be­ro in mol­ti.  Un’affermazione che la dice lun­ga su uno sguar­do colo­nia­le anco­ra ben radi­ca­to: per­ché se è vero che non c’era lo Sta­to – alme­no non nel­la sua for­ma cen­tra­liz­za­ta ed effi­ca­ce, c’era la sel­va con il suo ordi­ne ance­stra­le, già lì da milio­ni di anni con nume­ro­si abi­tan­ti.

C’erano i popo­li Shuar, i Sie­ko­pai, i Wao­ra­ni, gli A’I Kofan, i Sio­na, i Kich­wa, i Tete­te ed altri anco­ra, oltre ai con­ta­di­ni figli di colo­ni – i cosid­det­ti mesti­zos – ma non solo, per­ché pri­ma che arri­vas­se la Texa­co c’era già un ric­co eco­si­ste­ma di spe­cie vege­ta­li e ani­ma­li eser­ci­tan­ti il sem­pli­ce dirit­to alla vita (Carl­son 2020; Tava­res 2024).

Quan­do l’Ecuador otten­ne l’indipendenza dal­la Spa­gna – nel 1822 – gran par­te dell’Amazzonia rima­se fuo­ri dal con­trol­lo effet­ti­vo del­lo Sta­to cen­tra­le. In epo­ca repub­bli­ca­na, la regio­ne amaz­zo­ni­ca era per­ce­pi­ta come el orien­te: peri­fe­ri­ca, sel­vag­gia, ine­splo­ra­ta. La pene­tra­zio­ne sta­ta­le fu len­ta, discon­ti­nua e spes­so media­ta da atto­ri ester­ni, come mis­sio­na­ri, mili­ta­ri o impre­se pri­va­te (Cepak 2005).

Fu solo tra gli anni ’60 e ’70 del Nove­cen­to che l’Ecuador comin­ciò a pro­muo­ve­re una colo­niz­za­zio­ne inter­na dell’oriente, apren­do le por­te all’estrattivismo petro­li­fe­ro e alle com­pa­gnie stra­nie­re. La Texa­co non fu dun­que solo un atto­re eco­no­mi­co, ma uno stru­men­to attra­ver­so cui lo Sta­to pene­trò in ter­ri­to­ri fino ad allo­ra esclu­si dal pro­get­to nazio­na­le, in nome del­lo “svi­lup­po”. Una pene­tra­zio­ne che si fece vio­len­ta, siste­ma­ti­ca, silen­zio­sa­men­te auto­riz­za­ta.

Tut­ta­via, nel 2008 si ha un cam­bio di rot­ta e vie­ne rico­no­sciu­to il “dirit­to del­la sel­va” dal­la Costi­tu­zio­ne ecua­do­ria­na  In quell’anno, a segui­to dell’elezione del pre­si­den­te Rafael Cor­rea – che rifor­ma il pae­se, rom­pen­do con il neo­li­be­ri­smo e acco­glien­do la richie­sta di giu­sti­zia socia­le dei movi­men­ti indi­ge­ni – lo sta­to ecua­do­ria­no vie­ne rifon­da­to sul con­cet­to andi­no del Sumak Kaw­say, el “Buen vivir”. Una sor­ta di model­lo oli­sti­co di armo­nia tra esse­ri uma­ni e natu­ra, in oppo­si­zio­ne al model­lo capi­ta­li­sta occi­den­ta­le (Gudy­nas 2011; Coda­to et al. 2024).

Nono­stan­te gli scan­da­li che emer­go­no nel 2019 a segui­to del man­da­to di Cor­rea e che lo tac­cia­no – tra le nume­ro­se accu­se – anche di aver tra­di­to gli idea­li eco­lo­gi­sti, l’eredità di uno dei pre­si­den­ti più gio­va­ni che il pae­se ha avu­to si può leg­ge­re sul­la Car­ta Costi­tu­zio­na­le, la qua­le rico­no­sce espli­ci­ta­men­te i dirit­ti del­la Pacha­ma­ma in quat­tro arti­co­li.

La pro­spet­ti­va anti­spe­ci­sta è rivo­lu­zio­na­ria, le paro­le ado­pe­ra­te sono ammi­re­vo­li: 

La Natu­ra­le­za o Pacha­ma­ma, don­de se repro­du­ce y rea­li­za la vida, tie­ne dere­cho a que se respe­te inte­gral­men­te su exi­sten­cia y el man­te­ni­mien­to y rege­ne­ra­ción de sus ciclos vita­les, estruc­tu­ra, fun­cio­nes y pro­ce­sos evo­lu­ti­vos.

“La Natu­ra o Pacha­ma­ma, dove si ripro­du­ce e si rea­liz­za la vita, ha il dirit­to che ven­ga rispet­ta­ta inte­gral­men­te la sua esi­sten­za e il man­te­ni­men­to e la rige­ne­ra­zio­ne dei suoi cicli vita­li, del­la sua strut­tu­ra, del­le sue fun­zio­ni e dei suoi pro­ces­si evo­lu­ti­vi”.

Que­sto reci­ta l’articolo 71, ma come ben sap­pia­mo, tra il dire e il fare – soprat­tut­to in poli­ti­ca – c’è di mez­zo un mare di mer­da.

Il sapo­re ama­ro del­la resi­sten­za

Donald ci fa toc­ca­re con mano l’intruglio feti­do, ce lo pas­sia­mo come una pata­ta bol­len­te, trat­te­nen­do i cona­ti di vomi­to, poi ci fa adden­tra­re un po’ di più a esa­mi­na­re un tubo chia­ma­to cuel­lo de gan­so: river­sa petro­lio in un baci­no che con­flui­sce in un tor­ren­te, che a sua vol­ta si immet­te nell’Aguarico, che sfo­cia nell’oceano Atlan­ti­co. È para­dos­sa­le che una com­pa­gnia trans­na­zio­na­le – che può lavo­ra­re su sca­la mon­dia­le pro­prio gra­zie alla glo­ba­liz­za­zio­ne – non abbia un pen­sie­ro glo­ba­le anche quan­do si trat­ta di pen­sa­re alle riper­cus­sio­ni del­le pro­prie azio­ni. 

Pur di rispar­mia­re due sol­di han­no pre­fe­ri­to ese­gui­re male i lavo­ri, pen­san­do che sareb­be pas­sa­to tut­to inos­ser­va­to – lon­ta­no dal Texas e da quel­la che a lun­go abbia­mo defi­ni­to civi­liz­za­zio­ne, in con­trap­po­si­zio­ne alla bar­ba­rie dei popo­li indi­ge­ni.

Ma chi sono i veri inci­vi­li?

Il silen­zio ci accom­pa­gna fino al ritor­no alla mac­chi­na. Ci siste­mia­mo sul cas­so­ne, per non insoz­za­re i sedi­li di die­tro, e nes­su­no pro­fe­ri­sce paro­la fino alla sosta suc­ces­si­va. Solo la voce rot­ta di Sophi irrom­pe nel­la sel­va: «Io pro­prio non capi­sco la gen­te che non se ne fre­ga un caz­zo degli altri».

La tap­pa suc­ces­si­va di que­sta sin­go­la­re escur­sio­ne è l’ispezione del­la fin­ca del­la signo­ra Car­men, dove pochi mesi pri­ma si era veri­fi­ca­to un der­ra­me, vale a dire una fuo­riu­sci­ta di petro­lio, che le ave­va avve­le­na­to tut­to, meno l’animo. Quan­do riu­scia­mo a sco­var­la, nel­la sua pian­ta­gio­ne di cacao, ci acco­glie con un lar­go sor­ri­so, sen­za smet­te­re di spac­ca­re – con movi­men­ti pre­ci­si e mec­ca­ni­ci – le cabos­se per estrar­ne i semi che poi avreb­be mes­so a sec­ca­re. Il suo­no laco­ni­co del­la lama del mache­te scan­di­sce un rit­mo che ci fa entra­re in tran­ce: non riu­scia­mo a disto­glie­re lo sguar­do dal­le mani di Car­men e di suo mari­to che, imper­ter­ri­ti, con­ti­nua­no il loro lavo­ro men­tre chiac­chie­ra­no con noi.

Ci dan­no da assag­gia­re i semi del cacao e noi li ciuc­cia­mo per poi rispu­tar­li nel sec­chio; è cacao di varie­tà ros­sa, non il più pre­li­ba­to, ma mi sem­bra così spe­cia­le poter man­gia­re que­sto frut­to che poco me ne impor­ta del­la qua­li­tà. Grin­gas.

Comun­que, non era­va­mo di cer­to venu­te a “grin­ga­re”, Donald si con­ge­da e noi fac­cia­mo altret­tan­to, seguen­do­lo per recar­ci sul luo­go dove sono anco­ra visi­bi­li i segni del disa­stro. Cam­mi­nan­do lun­go il fiu­mi­ciat­to­lo che attra­ver­sa la pro­prie­tà di doña Car­men, notia­mo non solo la colo­ra­zio­ne mar­ro­ne e l’anomala den­si­tà del­le sue acque, ma anche un deca­di­men­to del­la vege­ta­zio­ne che cre­sce sul­le sue spon­de: ci basta sol­le­va­re una zol­let­ta di ter­ra sull’argine per vede­re il petro­lio affio­ra­re sul pelo dell’acqua.

Io mi sen­to iner­me e incaz­za­ta. Non oso imma­gi­na­re la rab­bia di que­ste per­so­ne, eppu­re appa­io­no così inspie­ga­bil­men­te cal­me, Donald, la signo­ra Car­men, tut­ti loro, saran­no sta­ti tan­to abi­tua­ti a subi­re da aver esau­ri­to la rab­bia. Pen­so al colo­nia­li­smo, a cer­te espres­sio­ni del casti­glia­no di qui, come man­de? let­te­ral­men­te “coman­di?”, equi­va­len­te al nostro “come?” quan­do non capia­mo qual­co­sa, o a la orden, let­te­ral­men­te “agli ordi­ni”, pro­nun­cia­to dai com­mes­si appe­na entra un clien­te in nego­zio. Pen­so a sei­cen­to anni di sfrut­ta­men­to e sopru­si ed è come se potes­si leg­ge­re nei loro vol­ti l’oltraggio che han­no rice­vu­to dai tem­pi di Cri­sto­fo­ro Colom­bo.

Oltre alla col­le­ra, abbia­mo accu­mu­la­to anche la fame: la nostra gui­da ci por­ta a pran­zo in una bet­to­la in una loca­li­tà chia­ma­ta Pri­ma­ve­ra – il cui attri­bu­to più pri­ma­ve­ri­le sono i due chio­schet­ti colo­ra­ti che ven­do­no gela­ti e cara­mel­le al bor­do del­la stra­da. Qui man­gia­mo un bolón impos­si­bi­le da man­da­re giù sen­za l’abituale suc­co di accom­pa­gna­men­to, men­tre osser­via­mo incu­rio­si­te e scon­for­ta­te i tito­li del tele­gior­na­le in onda a tut­to volu­me.

Ripar­tia­mo in dire­zio­ne Lago, salia­mo nuo­va­men­te sul­la chiat­ta per tor­na­re sull’altro lato del fiu­me, e ades­so sì che comin­cia la cac­cia al dra­gón.

Il tra­git­to dura una ven­ti­na di minu­ti fino alla tana del mostro a cui stia­mo dan­do la cac­cia, guar­do instan­ca­bil­men­te fuo­ri dal fine­stri­no un pano­ra­ma dal­le mol­te­pli­ci tona­li­tà di ver­de –  appa­ren­te­men­te sem­pre iden­ti­co, eppu­re, in real­tà, straor­di­na­ria­men­te ete­ro­ge­neo – dove con­vi­vo­no infi­ni­te spe­cie vege­ta­li: è qua­si impos­si­bi­le pen­sa­re che, die­tro quel man­to rigo­glio­so, si nascon­da­no cen­ti­na­ia di poz­zi petro­li­fe­ri. 

Par­cheg­gia­mo il pick-up e, per non desta­re sospet­ti, get­tia­mo tra gli arbu­sti la pala e gli uten­si­li che ci sta­va­mo por­tan­do die­tro. Donald impu­gna il mache­te per far­ci stra­da – ini­zio a pen­sa­re che ne vor­rei uno anche io, da que­ste par­ti sem­bra indi­spen­sa­bi­le – e man mano che avan­zia­mo sen­tia­mo il respi­ro del dra­gón far­si sem­pre più vici­no.

Più ci adden­tria­mo e più la vege­ta­zio­ne ci inghiot­te, più la vege­ta­zio­ne ci inghiot­te e più avan­za l’oscurità, più avan­za l’oscurità e più demo­nia­ci sem­bra­no i boa­ti che echeg­gia­no nel gro­vi­glio di foglie che ci avvol­ge.

Pro­ce­dia­mo con pas­so fel­pa­to nel­la penom­bra, il fra­go­re diven­ta insop­por­ta­bi­le, la fore­sta si squar­cia e lascia allo sco­per­to il pos­sen­te dra­gón.

Si erge immo­bi­le, tene­bro­so, su una diste­sa roven­te e deser­ta strap­pa­ta alla sel­va, spu­tan­do fuo­co da due boc­che sot­ti­li che svet­ta­no nel cie­lo ora azzur­ro dopo le piog­ge del mat­ti­no che sem­bra­va­no inter­mi­na­bi­li. Il mostro in que­stio­ne si chia­ma meche­ro.

I meche­ros – accen­di­ni, in ita­lia­no – sono tor­ce di com­bu­stio­ne a cie­lo aper­to, usa­te per bru­cia­re il gas deri­va­to dall’estrazione del petro­lio. Il nome pro­prio di que­sti appa­ra­ti sareb­be l’inglese gas fla­res, strut­tu­re ver­ti­ca­li metal­li­che alte dai tre ai dodi­ci metri, pian­ta­te diret­ta­men­te sul suo­lo; alla base ci sono tubi col­le­ga­ti ai poz­zi petro­li­fe­ri, men­tre da una boc­ca in som­mi­tà fuo­rie­sce il gas, ventiquattr’ore su ven­ti­quat­tro.

L’inquietante fiam­ma pro­dot­ta assu­me colo­ra­zio­ni che varia­no dal ros­so, all’arancio, al blu, a secon­da dei gas emes­si e del­la pres­sio­ne, arri­van­do a tem­pe­ra­tu­re fino ai 400 gra­di cel­sius.

Que­sti meche­ros libe­ra­no nell’ambiente gas ser­ra, dios­si­ne, metal­li pesan­ti, par­ti­co­la­to e altre sostan­ze alta­men­te noci­ve che sof­fo­ca­no il dirit­to alla salu­te del­le per­so­ne che vivo­no nel­le loro vici­nan­ze sot­to una col­tre di pol­ve­ri tos­si­che. (John­ston et al. 2019) 

Non c’è nes­su­na recin­zio­ne attor­no, né un car­tel­lo che segna­li il peri­co­lo, chiun­que può tran­quil­la­men­te avvi­ci­nar­si e pas­seg­gia­re sul­la ter­ra nera, sec­ca e ste­ri­le tutt’attorno.

Nel­la pro­vin­cia di Sucum­bíos e Orel­la­na, attual­men­te ci sono quat­tro­cen­toot­tan­ta­sei meche­ros.

Le guer­rie­re dell’Amazzonia

Nel 2021, un grup­po di nove bam­bi­ne mesti­zas, “las guer­re­ras de la Ama­zo­nía”, ha pre­sen­ta­to una cau­sa costi­tu­zio­na­le con­tro lo Sta­to ecua­do­ria­no per la pre­sen­za dei meche­ros, chie­den­do­ne l’eliminazione.

Que­ste bam­bi­ne e le loro fami­glie vivo­no nel­le imme­dia­te vici­nan­ze del­le tor­ce di com­bu­stio­ne e tut­te han­no alme­no un paren­te mala­to o mor­to di can­cro, moti­vo che le ha spin­te, con il sup­por­to lega­le di Udapt, a recla­ma­re giu­sti­zia ai pia­ni alti.

Nel momen­to in cui comin­cia­ro­no le ope­ra­zio­ni petro­li­fe­re, nes­su­no andò a chie­de­re il per­mes­so né tan­to­me­no ad infor­ma­re le popo­la­zio­ni indi­ge­ne che abi­ta­va­no nel­la zona. Mol­te comu­ni­tà si vide­ro costret­te ad allon­ta­nar­si e rico­strui­re i pro­pri vil­lag­gi altro­ve, alcu­ne nazio­na­li­tà come quel­la dei Tete­te si sono addi­rit­tu­ra estin­te per via del­la defo­re­sta­zio­ne mas­sic­cia, dell’inquinamento e dell’invasione subi­ta nel loro ter­ri­to­rio ance­stra­le. 

Il caso Meche­ros è un pro­ce­di­men­to giu­ri­di­co pio­nie­ri­sti­co in Ame­ri­ca Lati­na. Soste­nu­te da Udapt, le nove bam­bi­ne que­re­lan­ti han­no intra­pre­so una bat­ta­glia che tra­va­li­ca i con­fi­ni loca­li per assu­me­re una por­ta­ta glo­ba­le: la com­bu­stio­ne dei gas dei meche­ros non solo vio­la dirit­ti garan­ti­ti dal­la costi­tu­zio­ne ecua­do­ria­na, come il dirit­to alla salu­te e ad un ambien­te sano, ma al tem­po stes­so vio­la anche la Con­ven­zio­ne del­le Nazio­ni Uni­te sui cam­bia­men­ti cli­ma­ti­ci (UNFCCC) (Coda­to et al. 2024).

Fiam­me che non si estin­guo­no: tra leg­ge e real­tà

La Cor­te Costi­tu­zio­na­le ha rico­no­sciu­to alle ragaz­zi­ne la vio­la­zio­ne dei dirit­ti e ha ordi­na­to allo Sta­to ecua­do­ria­no di ela­bo­ra­re un pro­gram­ma per il pro­gres­si­vo sman­tel­la­men­to, pro­gram­ma che non è sta­to anco­ra nean­che lon­ta­na­men­te mes­so in atto

Nel frat­tem­po il nume­ro di meche­ros non è dimi­nui­to: al con­tra­rio, è cre­sciu­to nel cor­so degli anni. Paral­le­la­men­te, però, è cre­sciu­ta anche la for­za del movi­men­to: le bam­bi­ne che han­no dato ini­zio a que­sta lot­ta non sono più sol­tan­to nove, oggi sono diven­ta­te quin­di­ci.

Cre­pu­sco­lo tos­si­co

La super­fi­cie attor­no al dra­gón è un cimi­te­ro di inset­ti di pic­co­le e gran­di dimen­sio­ni car­bo­niz­za­ti, ne foto­gra­fia­mo alcu­ni, subli­ma­ti nel­la mor­te del loro ulti­mo volo.

L’aria è incan­de­scen­te, sia­mo suda­te, stan­che e pro­va­te, lo sono anche i nostri tele­fo­ni e le nostre mac­chi­ne foto­gra­fi­che, è stan­co Donald che lot­ta da trent’anni, è stan­co il gior­no che si appros­si­ma al cre­pu­sco­lo.

L’impotenza è la sen­sa­zio­ne che suo­le per­va­de­re la nostra gene­ra­zio­ne mas­si­va­men­te affet­ta dall’ecoansia: pri­ma anco­ra di chie­der­ci cosa pos­sia­mo fare, sia­mo costret­ti a doman­dar­ci se pos­sia­mo fare qual­co­sa. Se il popo­lo esi­ste anco­ra come sog­get­to poli­ti­co o se sia­mo già mer­ce. Se il capi­ta­li­smo può dav­ve­ro capi­to­la­re o se, a un cer­to pun­to del­la resi­sten­za, fini­re­mo inve­ce per desi­ste­re. E allo­ra ci riti­re­re­mo in micro­co­smi alter­na­ti­vi, rifu­gi buco­li­ci e queer-friend­ly, comu­ni­tà hip­py ultra-orga­ni­che e auto­cer­ti­fi­ca­te, dove col­ti­va­re pomo­do­ri, sogni e iden­ti­tà – lon­ta­ne dal­le cit­tà: sim­bo­li ormai esau­sti di un siste­ma poli­ti­co-eco­no­mi­co che non ci rap­pre­sen­ta.

Da otti­mi­sta, pen­so che pos­sia­mo sem­pre fare qual­co­sa.

Se non la pen­sas­si così, non sarei venu­ta dall’altra par­te del mon­do, in un posto scia­gu­ra­to, ben lon­ta­no dal­la visio­ne roman­ti­ciz­za­ta dell’America Lati­na che la nostra gene­ra­zio­ne ecoan­sia­ta però mochi­le­ra ha costrui­to in Euro­pa.

Pri­ma di veni­re qui, per anni ho ascol­ta­to i rac­con­ti di ami­ci e ami­che – ma anche di per­fet­ti sco­no­sciu­ti – sull’Amazzonia e in gene­ra­le su que­sto con­ti­nen­te-pana­cea per tut­ti i mali occi­den­ta­li. Per anni ho sogna­to di cam­mi­na­re sul­le Ande, sten­der­mi al sole sul­le spiag­ge carai­bi­che, ammi­ra­re pae­sag­gi moz­za­fia­to, entra­re in con­tat­to con popo­li abo­ri­ge­ni in ter­ri­to­ri ver­gi­ni, impa­ra­re a bal­la­re la sal­sa e ave­re così, anche io, il mio pac­chet­to di sto­rie emo­zio­nan­ti sul viag­gio in Suda­me­ri­ca che ti cam­bia la vita.

Cer­to, il Suda­me­ri­ca è anche que­sto: è pana­cea, è idil­lio, è il viag­gio che ti cam­bia la vita – che duri due set­ti­ma­ne, due mesi o due anni. Però, ahi­mé, la real­tà è più sfac­cet­ta­ta e com­ples­sa del­le nostre fan­ta­sie, e spes­so si nascon­de lon­ta­no dagli occhi sognan­ti del­le nostre visi­te tem­po­ra­nee, in cui non fac­cia­mo in tem­po a rego­la­re i livel­li di adre­na­li­na e sero­to­ni­na che già stia­mo pre­no­tan­do il pros­si­mo ostel­lo sul Coto­pa­xi.

Con que­sto non inten­do bia­si­ma­re nes­su­no, anzi, rin­gra­zio chiun­que abbia spe­so del tem­po pre­zio­so a nar­rar­mi le sue avven­tu­re, per­ché han­no con­tri­bui­to a spin­ger­mi ad arri­va­re fin qui. Chi mi cono­sce mi avrà sen­ti­to con­dan­na­re più vol­te il turi­smo ed è al cor­ren­te del­la mia per­so­na­le con­ce­zio­ne di “viag­gio”: per me spo­star­si da un luo­go all’altro deve pro­prio vale­re la pena, per un qual­co­sa o un qual­cu­no che mi moti­va a impac­chet­ta­re le mie cose e pren­de­re un aereo.

Det­to ciò, il pun­to era: fare qual­co­sa.

Nel­la tota­le per­di­ta di sen­so in cui vivia­mo, ciò che ci resta è la fede; non una fede reli­gio­sa, ma la fede inte­sa come fidu­cia nel­la veri­tà e giu­stez­za di un assun­to, un’intima con­vin­zio­ne in gra­do di supe­ra­re la real­tà, sen­za bana­liz­zar­la né idea­liz­zar­la, abi­tan­do­la nel­le sue cre­pe e ten­tan­do di rimar­gi­nar­le.

In uno sce­na­rio così com­ples­so, le pos­si­bi­li­tà di inter­ven­to indi­vi­dua­le pos­so­no sem­bra­re limi­ta­te. Tut­ta­via, è fon­da­men­ta­le rico­no­sce­re il valo­re dell’informazione, del­la dif­fu­sio­ne cri­ti­ca dei con­te­nu­ti, del­le scel­te di con­su­mo con­sa­pe­vo­li e del­la coe­ren­za tra valo­ri e pra­ti­che quo­ti­dia­ne. Oggi più che mai, davan­ti a un siste­ma che nor­ma­liz­za lo sfrut­ta­men­to e l’occultamento del­la vio­len­za, ser­ve agi­re: una pre­sa di posi­zio­ne coscien­te diven­ta uno stru­men­to essen­zia­le di lot­ta. 

I pro­ble­mi che afflig­go­no l’Amazzonia e le sue comu­ni­tà non sono il risul­ta­to di fata­li­tà geo­gra­fi­che, ma di scel­te poli­ti­che ed eco­no­mi­che inter­na­zio­na­li; fron­teg­gia­re que­ste real­tà richie­de un ripen­sa­men­to radi­ca­le del nostro modo di rap­por­tar­ci al mon­do.

Viag­gia­re in Suda­me­ri­ca – o in qua­lun­que altro con­te­sto del Sud glo­ba­le – com­por­ta una respon­sa­bi­li­tà: quel­la di anda­re oltre l’osservazione pas­si­va, inter­ro­gan­do­si sui retro­sce­na poli­ti­ci, ambien­ta­li e socia­li dei ter­ri­to­ri attra­ver­sa­ti. La con­sa­pe­vo­lez­za, se non può tra­sfor­ma­re da sola le strut­tu­re, è quan­to­me­no il pri­mo pas­so per non esser­ne com­pli­ci.

Testo e foto­gra­fie a cura di Ali­ce Cor­bo

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