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Ottobre
9 Ottobre 2025

IL GIO­CO COME STRA­NO STRU­MEN­TO

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Nes­su­no ci ha inse­gna­to a gio­ca­re. Ma tut­ti i gio­chi che cono­scia­mo ci sono sta­ti inse­gna­ti da qual­cu­no. Que­sta sem­pli­ce con­sta­ta­zio­ne basta a dimo­stra­re due cose: pri­mo che ‘il gio­ca­re’ e ‘i gio­chi’ sono due cose distin­te, secon­do che il gio­ca­re può pre­scin­de­re dai gio­chi, ovve­ro che si può gio­ca­re in assen­za di gio­chi. Mi pre­me evi­den­zia­re fin da subi­to que­sta distin­zio­ne tra, da un lato, il gio­ca­re come atti­vi­tà spon­ta­nea e inna­ta nel­l’es­se­re uma­no e quin­di pre-cul­tu­ra­le e a suo modo per­va­si­va del­la nostra esi­sten­za; e, dall’altro, il gio­co-arte­fat­to, cioè il gio­co come pro­dot­to cul­tu­ra­le che qual­cu­no crea e che si tra­man­da attra­ver­so le varie for­me con cui si per­pe­tua­no tut­ti gli ogget­ti cul­tu­ra­li, ad esem­pio per via ora­le — come è il caso dei gio­chi tra­di­zio­na­li -, per iscrit­to — nei manua­li d’i­stru­zio­ni — o digi­tal­men­te — nei codi­ci dei video­gio­chi. Mi impor­ta sta­bi­li­re que­sta dif­fe­ren­za, per­ché nel­le righe che seguo­no vor­rei inda­ga­re il rap­por­to tra que­ste due dimen­sio­ni. Se abbia­mo det­to che il gio­ca­re è inna­to men­tre ogni gio­co è una costru­zio­ne cul­tu­ra­le, va da sé che il gio­ca­re pre­ce­de i gio­chi. Ma com’è che dal gio­ca­re si pas­sa ai gio­chi? Che tipo di ope­ra­zio­ne vie­ne fat­ta quan­do vie­ne crea­to un gio­co-arte­fat­to? In che rela­zio­ne si pone con ciò che pre­ce­de e resta ester­no al gio­co? E se pos­sia­mo gio­ca­re in assen­za di gio­chi, cosa gio­chia­mo quan­do non stia­mo gio­can­do un gio­co? 

Con una meta­fo­ra si potreb­be dire che il rap­por­to tra il gio­ca­re e i gio­chi è lo stes­so tra il vede­re e le imma­gi­ni, inten­den­do con ‘imma­gi­ne’ qua­lun­que cosa — un dise­gno o una foto­gra­fia ad esem­pio — che sia sta­ta crea­ta con lo sco­po di tra­smet­te­re del­l’in­for­ma­zio­ne visi­va, cioè di esse­re vista. Ovvia­men­te noi non vedia­mo sol­tan­to imma­gi­ni. Pos­sia­mo chia­ma­re real­tà visi­bi­le tut­to ciò che vedia­mo ma non è pro­pria­men­te un’immagine. Il rap­por­to più fre­quen­te che si può sta­bi­li­re tra la real­tà e un’im­ma­gi­ne è quel­lo di rap­pre­sen­ta­zio­ne: l’im­ma­gi­ne allu­de alla real­tà. Tale rap­por­to può esse­re più o meno stret­to, facen­do­si meno evi­den­te man mano che le imma­gi­ni pre­se in con­si­de­ra­zio­ne si fan­no più sti­liz­za­te o astrat­te, ma resto con­vin­to che una mini­ma rela­zio­ne tra imma­gi­ni e real­tà visi­bi­le riman­ga, se non altro per­ché entram­be coin­vol­go­no comun­que l’at­to del vede­re. Altro pun­to inte­res­san­te: anche se vede­re la real­tà è una facol­tà che pre­ce­de, cro­no­lo­gi­ca­men­te e logi­ca­men­te, le imma­gi­ni, la loro frui­zio­ne può cam­bia­re il modo con cui vedia­mo la real­tà. 

Ora, se que­sta meta­fo­ra è buo­na, vie­ne da doman­dar­si cosa sta ai gio­chi come la real­tà visi­bi­le sta alle imma­gi­ni. Non si può dire che un gio­co rap­pre­sen­ti qual­co­sa di ester­no a sé nel­lo stes­so modo in cui lo fa un’im­ma­gi­ne, ma cer­ta­men­te un rap­por­to tra il gio­co e una real­tà che lo pre­ce­de — una real­tà gio­ca­bile? — deve esi­ste­re. Ma se riu­scia­mo facil­men­te a capi­re il rap­por­to tra imma­gi­ni e real­tà è anche per­ché intui­ti­va­men­te ci è chia­ro cosa signi­fi­ca ‘vede­re qual­co­sa’. Cosa signi­fi­ca ‘gio­ca­re’, inve­ce, è meno scon­ta­to. Sarà quin­di bene cer­ca­re di capir­lo pri­ma di pro­ce­de­re.

Ini­zia­mo dicen­do che una defi­ni­zio­ne con­di­vi­sa di ‘gio­ca­re’, così come di ‘gio­co’, non esi­ste. Ma pen­so che un buon modo per ini­zia­re a sta­bi­lir­ne gli aspet­ti essen­zia­li sia par­ti­re da Roger Cail­lois che, con il suo I gio­chi e gli uomi­ni (1958), ha scrit­to quel­lo che rima­ne uno dei testi più impor­tan­ti ed esau­sti­vi sul­la natu­ra del gio­ca­re. Qui, in uno dei pri­mi capi­to­li, Cail­lois defi­ni­sce quel­le che sono le carat­te­ri­sti­che fon­da­men­ta­li di ogni atti­vi­tà ludi­ca, ovve­ro l’es­se­re “libe­ra”, “sepa­ra­ta”, “incer­ta”, “impro­dut­ti­va”, “rego­la­ta” e “fit­ti­zia” (Cal­lois 1958, 26).

Sono tut­te e sei carat­te­ri­sti­che che vale la pena di tene­re in con­si­de­ra­zio­ne, ma a mio avvi­so alcu­ne sono più impor­tan­ti di altre per affer­ra­re il signi­fi­ca­to del gio­ca­re. Io, ad esem­pio, met­te­rei par­ti­co­lar­men­te l’ac­cen­to sul­l’incer­tez­za che carat­te­riz­za le atti­vi­tà ludi­che. Quan­do ini­zia­mo a gio­ca­re signi­fi­ca che ci stia­mo pre­stan­do a un’attività di cui non pos­sia­mo sape­re con sicu­rez­za come si con­clu­de­rà né come si svi­lup­pe­rà. Del resto, capia­mo anche intui­ti­va­men­te che un gio­co di cui si pos­sa cono­sce­re a prio­ri l’esito non sareb­be inte­res­san­te e quin­di non var­reb­be la pena di esse­re gio­ca­to.

Anche la liber­tà è asso­lu­ta­men­te fon­da­men­ta­le per ogni atti­vi­tà ludi­ca. E cre­do lo sia in alme­no due sen­si, uno ester­no e l’al­tro inter­no al gio­ca­re, potrem­mo dire. Gio­ca­re è un’at­ti­vi­tà libe­ra in sen­so ester­no per­ché gio­chia­mo sem­pre volon­ta­ria­men­te: gio­chia­mo per­ché sce­glia­mo di far­lo; se si sta facen­do qual­co­sa per coer­ci­zio­ne o neces­si­tà, allo­ra non si sta gio­can­do. Ma gio­ca­re pre­ve­de anche una liber­tà inter­na, per­ché com­por­ta sem­pre di fare del­le scel­te che con­di­zio­ne­ran­no lo svi­lup­po del­l’at­ti­vi­tà — e qui capia­mo come la liber­tà sia anche una del­le fon­ti del­l’in­cer­tez­za del gio­ca­re. 

Un’al­tra carat­te­ri­sti­ca essen­zia­le del gio­ca­re sem­bra entra­re in con­tra­sto con la liber­tà, cioè il fat­to che si trat­ti di una atti­vi­tà rego­la­ta. Gio­ca­re signi­fi­ca sem­pre segui­re del­le rego­le, più o meno com­ples­se e più o meno fis­se, che defi­ni­sco­no l’at­ti­vi­tà e che insie­me limi­ta­no quel­lo che pos­sia­mo fare. Anche il sem­pli­ce ‘fac­cia­mo che…’ dei gio­chi infan­ti­li, in fon­do, è una rego­la. Ma come può un’attività esse­re con­tem­po­ra­nea­men­te libe­ra e limi­ta­ta da rego­le? La rispo­sta è faci­le: gio­ca­re signi­fi­ca atte­ner­si a del­le rego­le, ma poi­ché sce­glia­mo sem­pre libe­ra­men­te di gio­ca­re, tali rego­le sono sem­pre non neces­sa­rie. Non c’è nes­sun rea­le obbli­go che ci impo­ne quel­le rego­le, le seguia­mo per­ché deci­dia­mo di far­lo. 

Tra l’al­tro, la non-neces­si­tà del­le rego­le di qua­lun­que atti­vi­tà ludi­ca spie­ga anche un’al­tra carat­te­ri­sti­ca meno impor­tan­te ma comun­que pre­sen­te nel­l’e­len­co di Cail­lois, ovve­ro la natu­ra fit­ti­zia del gio­co. Tut­te le atti­vi­tà di gio­co sono fit­ti­zie, que­sto può sem­bra­re ovvio per alcu­ni gio­chi — come ad esem­pio i gio­chi di ruo­lo o i video­ga­me simu­la­ti­vi — meno per altri. Ma a ben vede­re vale per tut­te: per­ché quan­do gio­chia­mo accet­tia­mo un pat­to fin­zio­na­le simi­le a quel­lo che sta­bi­li­sce la sospen­sio­ne del­l’in­cre­du­li­tà richie­sta da un’o­pe­ra nar­ra­ti­va di fin­zio­ne. Infat­ti, se leg­gen­do un roman­zo o guar­dan­do un film, seguia­mo del­le sto­rie come se fos­se­ro vere anche se sap­pia­mo che non lo sono, allo stes­so modo gio­can­do rispet­tia­mo del­le rego­le come se fos­se neces­sa­rio far­lo, anche se non è così.  

In estre­ma sin­te­si, dun­que, una defi­ni­zio­ne abba­stan­za ampia da poter inclu­de­re tut­ta la gran­dis­si­ma varie­tà di atti­vi­tà ludi­che potreb­be esse­re que­sta: gio­ca­re signi­fi­ca svol­ge­re un’at­ti­vi­tà incer­ta, libe­ra e defi­ni­ta da rego­le che non sono neces­sa­rie. 

Par­ten­do da que­sta defi­ni­zio­ne si pos­so­no fare imme­dia­ta­men­te un paio di con­si­de­ra­zio­ni. Innan­zi­tut­to, che ho igno­ra­to due del­le sei carat­te­ri­sti­che elen­ca­te da Cail­lois, cioè che gio­ca­re sareb­be anche una atti­vi­tà sepa­ra­ta e impro­dut­ti­va. Le ho lascia­te da par­te per ora per­ché cre­do che sia­no carat­te­ri­sti­che pro­prie del gio­co piut­to­sto che del gio­ca­re: più avan­ti cer­che­rò di spie­ga­re per­ché. Ma il pun­to più impor­tan­te è che tale defi­ni­zio­ne si potreb­be appli­ca­re anche ad atti­vi­tà che non defi­ni­rem­mo gio­chi: anche tra le nostre occu­pa­zio­ni ‘serie’ ci sono tan­tis­si­me atti­vi­tà rego­la­te che svol­gia­mo volon­ta­ria­men­te — nel sen­so che non c’è nes­su­na neces­si­tà in sen­so stret­to che ci obbli­ga a far­le -, che ci lascia­no un mar­gi­ne di scel­ta al loro inter­no e il cui esi­to o svi­lup­po non è com­ple­ta­men­te cono­sci­bi­le a prio­ri.

Per sem­pli­ci­tà chia­me­rò atti­vi­tà rego­la­te tut­te que­ste atti­vi­tà che han­no le carat­te­ri­sti­che fon­da­men­ta­li del gio­ca­re ma che non sono gio­chi, o per lo meno che ten­dia­mo a non con­si­de­ra­re tali. Ora, la mia teo­ria è che le atti­vi­tà rego­la­te stan­no ai gio­chi come la real­tà visi­bi­le sta alle imma­gi­ni. Per soste­ne­re que­sta teo­ria voglio appog­giar­mi a un libro: Stra­ni stru­men­ti di Alva Noë (2015). 

Noë è un filo­so­fo ame­ri­ca­no che si è occu­pa­to prin­ci­pal­men­te di que­stio­ni lega­te alla per­ce­zio­ne e alla coscien­za. Con Stra­ni stru­men­ti ha ela­bo­ra­to una sua per­so­na­le teo­ria del­l’ar­te. Nel libro non si par­la mai di gio­chi, eppu­re tro­vo che la sua teo­ria si pre­sti par­ti­co­lar­men­te bene per descri­ve­re il rap­por­to tra gio­chi e atti­vi­tà rego­la­te. Inol­tre, se con­si­de­ria­mo la crea­zio­ne di gio­chi una for­ma d’ar­te — e nel momen­to in cui ammet­tia­mo che un gio­co sia un ogget­to cul­tu­ra­le non c’è nes­sun moti­vo per cui non dovrem­mo far­lo — allo­ra sia­mo auto­riz­za­ti ad appli­car­ci sopra una teo­ria este­ti­ca. 

Per spie­ga­re cos’è l’ar­te, Noë par­la di due livel­li del­le atti­vi­tà che com­pon­go­no la nostra vita. Nel pri­mo livel­lo stan­no tut­te quel­le che il filo­so­fo chia­ma “atti­vi­tà orga­niz­za­te”, inten­den­do tut­te quel­le atti­vi­tà che in qual­che modo ‘ci orga­niz­za­no’, cioè deter­mi­na­no la nostra natu­ra diven­tan­do abi­tu­di­ni. “Guar­da­re, leg­ge­re, cam­mi­na­re, par­la­re, bal­la­re”, sono esem­pi di atti­vi­tà orga­niz­za­te. Anche tut­te quel­le che io ho chia­ma­to ‘atti­vi­tà rego­la­te’ pos­so­no esse­re fat­te rien­tra­re tra le atti­vi­tà orga­niz­za­te (Noë 2015, 17). Il secon­do livel­lo è, inve­ce, quel­lo del­l’ar­te, che ha lo sco­po di inda­ga­re con­sa­pe­vol­men­te le atti­vi­tà del pri­mo livel­lo. 

Noë per spie­ga­re meglio come fun­zio­na l’ar­te pren­de come esem­pio la coreo­gra­fia. Bal­la­re è una atti­vi­tà di pri­mo livel­lo, la coreo­gra­fia, inve­ce, è una atti­vi­tà arti­sti­ca  — quin­di di secon­do livel­lo che “met­te in sce­na” il bal­la­re. Insom­ma: 

“La coreo­gra­fia ha a che fare con le moda­li­tà attra­ver­so le qua­li sia­mo orga­niz­za­ti dal bal­lo. Bal­la­re ci vie­ne natu­ra­le, ed esse­re assor­bi­ti in atti­vi­tà orga­niz­za­te ci è con­na­tu­ra­to […] Sia­mo bal­le­ri­ni incon­sa­pe­vo­li, e lo sia­mo per natu­ra; la coreo­gra­fia ci dà l’op­por­tu­ni­tà di riflet­te­re su que­sto aspet­to del­la nostra natu­ra” (Noë 2015, 19).

Lo stes­so discor­so lo si può fare per le arti visi­ve: vede­re è un’at­ti­vi­tà che ci orga­niz­za su cui nor­mal­men­te non riflet­tia­mo. La crea­zio­ne e la frui­zio­ne di un’immagine arti­sti­ca com­por­ta sem­pre una rifles­sio­ne su quel­lo che si vede, por­tan­do quin­di con­sa­pe­vo­lez­za su un’at­ti­vi­tà che nor­mal­men­te è auto­ma­ti­ca. 

In que­sto sen­so l’ar­te è sem­pre filo­so­fi­ca, per­ché fina­liz­za­ta a inda­ga­re degli aspet­ti del­la natu­ra uma­na, a far­ci cono­sce­re par­ti di noi che altri­men­ti ci reste­reb­be­ro nasco­ste, occul­ta­te dal­l’a­bi­tu­di­ne. L’ar­te è una sor­ta di car­to­gra­fia: crea map­pe del­le atti­vi­tà orga­niz­za­te. Ma le map­pe ser­vo­no per orien­tar­ci lad­do­ve altri­men­ti ci per­de­rem­mo. Le atti­vi­tà orga­niz­za­te strut­tu­ra­no la nostra vita, ma sia­mo tal­men­te assor­bi­ti in esse che ci per­dia­mo al loro inter­no: agia­mo per abi­tu­di­ne ma per lo più non abbia­mo con­sa­pe­vo­lez­za di come e per­ché lo fac­cia­mo. Arte e filo­so­fia esi­sto­no per ten­ta­re di ritro­var­si dopo che ci si è per­si, per que­sto l’ar­te può susci­ta­re emo­zio­ni tan­to inten­se. 

Lo stes­so fan­no i gio­chi. Se l’at­ti­vi­tà di pri­mo livel­lo a cui fa rife­ri­men­to la coreo­gra­fia è il bal­la­re e quel­la del­le arti è il vede­re, per i gio­chi sono quel­le che ho defi­ni­to appros­si­ma­ti­va­men­te ‘atti­vi­tà rego­la­te’ e che costi­tui­sco­no buo­na par­te di quel­lo che fac­cia­mo ogni gior­no. Il gio­co-arte­fat­to, inte­so come ogget­to cul­tu­ra­le, crea pos­si­bi­li­tà di riflet­te­re con­sa­pe­vol­men­te sui nostri modi di agi­re. 

Come lo fa? Secon­do Noë, lo stra­nia­men­to è il mec­ca­ni­smo base su cui si fon­da la crea­zio­ne arti­sti­ca. Le atti­vi­tà orga­niz­za­te usa­no cer­ti stru­men­ti (anche in sen­so lato) per i loro sco­pi: l’ar­te ripren­de que­gli stru­men­ti, li rimuo­ve dai loro con­te­sti, li pri­va dei loro sco­pi e in que­sto modo “li ren­de stra­ni, e ren­den­do­li stra­ni por­ta allo sco­per­to ciò che era nasco­sto, le moda­li­tà e le stria­tu­re del loro esse­re inte­gra­ti. Un’o­pe­ra d’ar­te è uno stra­no stru­men­to, un attrez­zo alie­no” (Noë 2015, 37). Pren­dia­mo di nuo­vo come esem­pio le imma­gi­ni. Nel­la vita quo­ti­dia­na le imma­gi­ni non-arti­sti­che sono stru­men­ti con una fun­zio­ne pre­ci­sa: tra­smet­te­re infor­ma­zio­ni visi­ve che in un cer­to con­te­sto han­no un cer­to sco­po. L’im­ma­gi­ne arti­sti­ca, inve­ce, è pri­va di un con­te­sto e di uno sco­po pre­ci­so: è uno stru­men­to che non pos­sia­mo usa­re, per que­sto por­ta la nostra atten­zio­ne su come fun­zio­na. 

Nei gio­chi ci tro­via­mo ad agi­re in manie­ra sostan­zial­men­te simi­le rispet­to alle atti­vi­tà rego­la­te del­la vita seria. Ugual­men­te, ci tro­via­mo a com­pie­re azio­ni e a pren­de­re del­le deci­sio­ni nei limi­ti di rego­le che abbia­mo accet­ta­to. Solo che a dif­fe­ren­za del­le altre atti­vi­tà pra­ti­che il gio­co è — pro­prio come gli ‘stra­ni stru­men­ti’ arti­sti­ci — iso­la­to rispet­to al con­te­sto del­la vita quo­ti­dia­na, in quan­to è una atti­vi­tà sepa­ra­ta, ed è pri­vo di uno sco­po ester­no a sé stes­so, ovve­ro­sia è impro­dut­ti­vo - e così abbia­mo recu­pe­ra­to tut­te le carat­te­ri­sti­che fon­da­men­ta­li indi­vi­dua­te da Cail­lois. 

Nel­le occu­pa­zio­ni del­la vita le atti­vi­tà che fac­cia­mo van­no spes­so a for­ma­re un gro­vi­glio con­fu­so di inten­zio­ni e auto­ma­ti­smi, rego­le e sco­pi ete­ro­ge­nei e tal­vol­ta in con­flit­to; un gro­vi­glio nel qua­le è dif­fi­ci­le rac­ca­pez­zar­si — sia­mo per­si in esso, direb­be Noë. I gio­chi, inve­ce, all’in­ter­no del loro ‘cer­chio magi­co’ che li sepa­ra dal resto del­la nostra vita, for­ni­sco­no la pos­si­bi­li­tà di agi­re con una luci­di­tà e una auto­con­sa­pe­vo­lez­za che nor­mal­men­te non è affat­to scon­ta­ta: ci per­met­to­no di por­re mag­gio­re atten­zio­ne su noi stes­si come indi­vi­dui che agi­sco­no libe­ra­men­te. 

Ma nel libro di Noë c’è un ulte­rio­re gra­do di com­ples­si­tà: tra atti­vi­tà di pri­mo e secon­do livel­lo il rap­por­to va in due sen­si, crean­do una sor­ta di loop: l’ar­te ci fa capi­re come sia­mo orga­niz­za­ti dal­le atti­vi­tà di pri­mo livel­lo e facen­do que­sto ci dà la pos­si­bi­li­tà di ‘rior­ga­niz­zar­ci’. In altre paro­le, le atti­vi­tà di secon­do livel­lo retroa­gi­sco­no su quel­le del pri­mo. Pos­sia­mo così ritro­var­ci a bal­la­re imi­tan­do del­le mos­se che abbia­mo visto in una coreo­gra­fia. O a guar­da­re la real­tà con lo stes­so tipo di atten­zio­ne che abbia­mo svi­lup­pa­to con­tem­plan­do dei dipin­ti.

Cosa suc­ce­de se faces­si­mo lo stes­so per i gio­chi? Se ini­zias­si­mo a com­por­tar­ci fuo­ri dai gio­chi come se stes­si­mo gio­can­do? È una doman­da a cui pro­va espli­ci­ta­men­te a rispon­de­re la gami­fi­ca­tion, che con­si­ste appun­to nel por­ta­re ele­men­ti ludi­ci in atti­vi­tà che non sono gio­chi. Ma la gami­fi­ca­tion è sol­tan­to un espe­dien­te per ren­de­re più gra­ti­fi­can­ti e invi­tan­ti atti­vi­tà che altri­men­ti non lo sareb­be­ro, è un uso stru­men­ta­le del valo­re dei gio­chi.  

Appli­ca­re nel­la vita ciò che impli­ci­ta­men­te appren­dia­mo gio­can­do potreb­be signi­fi­ca­re mol­to di più. Ritor­nan­do alle carat­te­ri­sti­che essen­zia­li del­le atti­vi­tà ludi­che, ripe­tia­mo che gio­ca­re signi­fi­ca esse­re libe­ri e aper­ti all’i­na­spet­ta­to. Signi­fi­ca tene­re pre­sen­te che le rego­le che seguia­mo sono non neces­sa­rie, quin­di sem­pre suscet­ti­bi­li a esse­re rifiu­ta­te o rine­go­zia­te. 

Secon­do James Car­se, auto­re del bel­lis­si­mo sag­gio Gio­chi fini­ti e infi­ni­ti (1987), la serie­tà è qual­co­sa che ha a che fare con la ten­den­za a segui­re un “copio­ne”, è dun­que ciò che nega spa­zio alla liber­tà e all’in­cer­tez­za tipi­ca del gio­ca­re. Il con­tra­rio del­la serie­tà è appun­to l’“inclinazione al gio­co”, che è pre­ci­sa­men­te la pie­na accet­ta­zio­ne di liber­tà e incer­tez­za, l’apertura alla scel­ta e alla sor­pre­sa. ‘Per­der­ci’ nel­le atti­vi­tà rego­la­te che dan­no for­ma alla nostra vita ci con­du­ce fatal­men­te a irri­gi­di­re la nostra vita nel­la serie­tà, cioè alla con­ti­nua e auto­ma­ti­ca ripe­ti­zio­ne di qual­co­sa che è più subì­to che scel­to, finen­do per cre­de­re neces­sa­rio ciò che non lo è dav­ve­ro. ‘Ritro­var­ci’ gio­can­do signi­fi­ca poter iniet­ta­re anche nel­la nostra quo­ti­dia­ni­tà alme­no un po’ del­la flui­di­tà del­l’in­cli­na­zio­ne al gio­co, capi­re che pos­sia­mo sem­pre rimet­te­re in discus­sio­ne le rego­le e aprir­ci a pos­si­bi­li­tà diver­se e non pro­gram­ma­bi­li a prio­ri. In que­st’ot­ti­ca gio­ca­re signi­fi­ca pren­de­re con­sa­pe­vo­lez­za del­la pro­pria liber­tà.

Foto­gra­fia di Gre­ta Valen­te

Biblio­gra­fia

Cail­lois, R. [1958] 2017, I gio­chi e gli uomi­ni. La masche­ra e la ver­ti­gi­ne, Bom­pia­ni, Mila­no

Car­se, J. 1987, Gio­chi fini­ti e infi­ni­ti. La vita come gio­co e pos­si­bi­li­tà, Mon­da­do­ri, Mila­no

Noë, A. [2015] 2022, Stra­ni stru­men­ti. L’arte e la natu­ra uma­na, Einau­di, Tori­no

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