Fino alla morte del corpo, esso si muove. Se fuori appare fermo, esso si muove all’interno, tra le viscere e i nervi. È la morte, grembo eterno che tutti accoglie, che pone la fine definitiva e ineluttabile ad ogni cosa, come la gravità, che spinge i corpi a terra fino a farli sprofondare per trasformarli a nuova vita. E nel processo ciclico di vita e morte, i complessi meccanismi energetici stabiliti universalmente muovono le cose affinché tutto riconduca al medesimo ciclo. Tutti noi sperimenteremo la fine con i nostri corpi e con essi le nostre menti, in quella “irruzione del reale” che secondo Lacan (1964) si manifesta attraverso l’emergere dell’inconscio nella vita conscia, ovvero quando i contenuti repressi – desideri, traumi, impulsi – fanno irruzione nella coscienza o si manifestano attraverso sintomi, sogni o atti. Il reale è spesso associato ai limiti dell’esperienza umana e alle verità più radicali e ineludibili, come la morte. È la paura della morte che non ci permette di vivere pienamente.
Tutto è intrinsecamente morte perché tutta la vita conduce in quella direzione, smentendo nei fatti il concetto di vita eterna, di somma importanza per la cultura cristiana e post-cristiana. Se fossimo davvero convinti di una qualche plausibile rinascita oltre questa vita, probabilmente in pochi piangerebbero ai funerali e soffrirebbero per una perdita definitiva. La morte spaventa perché con essa, ciò che si perde è la mente, essa stessa parte del corpo e non viceversa. Come ad esempio sostiene Lowen:
“Come la morte, la follia rappresenta una grande minaccia per la personalità umana. È una specie di morte, poiché il sé, come lo viviamo normalmente, nello stato psicotico è annullato” (Lowen 1980, 105).
La mente è una parte del corpo e non qualcosa di separato o trascendente. Questo pensiero può spaventare perché implica che, con la fine del corpo, si perda anche tutto ciò che consideriamo “noi stessi” – pensieri, coscienza, identità. Non farsi ingannare del contrario è il primo esercizio che ci serve per condurre una vita degna e piena di significato: “se abbiamo paura di morire, abbiamo paura di vivere o di essere” (Lowen 1980, 102). La vita, per la sua palese temporaneità e vulnerabilità, è meno sacra di quel che immaginiamo – almeno nel significato religioso – ma non per questo meno degna d’essere vissuta pienamente e consapevolmente con tutti i nostri corpi, menti incluse.
La nostra epoca svuota i corpi della loro funzione sulla realtà, esaltando l’irreale, il virtuale, generando una rete a maglie sempre più larghe, spezzata e divisa in più punti, concedendoci solo l’angoscia della solitudine. Cosa possono fare i governi occidentali, sempre più incistati nel regime sociale attuale che si basa sullo sfruttamento della vita? Non possiamo che ricordare il concetto di alienazione nel capitalismo, in cui i lavoratori perdono il controllo su ciò che producono e su se stessi, diventando estranei al proprio lavoro e così alla vita sociale. La solitudine – qui intesa come il riflesso perpetuo dell’individualismo metodologico – è utile al sistema capitalista della vita e non servono a granché le esperienze pseudo-illuminate come Il “Ministero della Solitudine” inglese, istituito nel 2018. In un contesto capitalista, la solitudine diventa utile al sistema perché isola l’individuo, favorendo una continua ricerca di soluzioni individuali ai problemi della vita. La necessità di colmare il vuoto interiore creato dall’isolamento spinge al consumo costante di beni materiali – dall’intrattenimento all’auto-miglioramento – per dare senso alla propria esistenza.
La solitudine genera morte nella vita, ne incancrenisce il movimento e lo sviluppo, inibisce il progresso dei corpi, sia individualmente che collettivamente. Il corpo in solitudine è un corpo morto. Cosa diversa sarebbe “rimanere soli con il circostante”, come definiva la solitudine il poeta cantautore De André nel suo “Elogio alla Solitudine”. In questo caso la solitudine sarebbe temporanea, una contemplazione che ci permette di guardare al nostro ambiente, di osservarlo e di capirlo. Quello che intendo qui per “solitudine” è l’individualismo del corpo.
La socialità che contraddistingue tutti gli esseri viventi è scritta anche nel nostro codice genetico e tra i testimoni vi sono antropologi, neuroscienziati, finanche i parroci e i medici. Non meno importante è restare sociali, prima che umani, anche nella risoluzione dei problemi. La determinazione e la curiosità, e con essa l’atto della ricerca, sono tra i fattori che hanno reso possibile la nostra sopravvivenza e l’evoluzione delle nostre società, influenzando i modi in cui ci adattiamo e sopravviviamo. Ci rende più felici cercare una soluzione ad un problema comune, piuttosto che aspettare un autobus in ritardo. Non solo perché il nostro corpo non è biologicamente progettato per restare fermo ad aspettare, ma anche perché l’attesa si esprime sempre e comunque in solitudine. Se risolvere un problema, cercare una soluzione è importante per il senso di gratificazione che ne deriva, farlo assieme risponde all’esigenza dell’appartenenza.
Quando l’intelligenza artificiale studierà al posto nostro, dove finirà il nostro senso di determinazione? E qual è il limite oltre il quale raggiungiamo la soddisfazione della curiosità senza più l’atto del cercare, perché ci sarà un’altra “intelligenza” a cercare per noi? Sarà allora la morte dei corpi e con essi delle menti.
Il corpo è un complesso reale di nervi, muscoli e psiche e questo corpo si è evoluto per noi homo sapiens da almeno duecentomila anni. I nostri sensi sono un groviglio quasi inscrutabile che percepiscono il mondo, lo osservano, lo analizzano e lo modificano all’occorrenza. Ben diverso è farlo virtualmente, fuori dalla realtà, in solitudine. Usare una tecnologia avanzata non ci rende più efficaci a modificare il nostro ambiente circostante, anzi: nell’era della dittatura della tecnica usiamo strumenti che non siamo in grado di gestire, di aggiustare, né di replicare. Chi sarebbe in grado di costruire da zero un computer e collegarlo ad una rete di comunicazione globale? Per questo motivo, con il venir meno dell’uso di quel complesso reale che è il nostro corpo, sostituito dalla virtualità della tecnologia, si esaurisce ogni forma di intervento e di cambiamento reale fuori dal nostro corpo, nel mondo.
Alexander Lowen, fondatore della bioenergetica, ha esplorato il corpo come il centro dell’esperienza e dell’autenticità dell’individuo, sostenendo che il corpo racchiude sia la memoria emotiva che la capacità di esprimere e agire in modo autentico. Secondo Lowen, i traumi e i conflitti interiori si riflettono nel corpo attraverso tensioni muscolari croniche e blocchi energetici, impedendo la piena espressione di sé e limitandone la vitalità. La società occidentale esaspera queste tensioni, ma riesce comunque a stabilire un equilibrio, seppur precario, mantenendo questi blocchi e tensioni, come una sorta di “controllo” collettivo delle pulsioni e delle energie individuali.
Così, pur di sopravvivere, concentriamo la nostra attenzione, nell’ambito della nostra solitudine, a soddisfare quel bisogno narcisistico di auto-accettazione. È come la masturbazione che sostituisce perennemente il rapporto sessuale. Ci si rinchiude così nell’intimità di un social network, chiamato così solo per tradire la sua reale funzione che è, forse più precisamente, un individual space, così da restare al sicuro dal mondo perché esso appare troppo difficile da cambiare. Ci rinchiudiamo perché abbiamo fondamentalmente paura. Credo che siano questi i motivi che ci impediscono di sentire come possibile ogni cambiamento fuori dal nostro corpo. Perciò, in Occidente, spopolano i libri che ci guidano verso il cambiamento interiore nei quali ci invitano a cambiare noi stessi. Non tanto per modificare il mondo, ma per adattarci meglio ad esso. Un classico insieme di idee, valori e atteggiamenti tipici della piccola borghesia, dove l’auto-miglioramento sostituisce l’azione collettiva trasformativa nel mondo reale. Le discipline meditative e le filosofie orientali nulla hanno a che vedere con la visione miope occidentale del benessere mentale “da supermercato”, non possiamo comprare la consapevolezza, possiamo però sperimentarla:
“La pace è ogni passo. La gioia è ogni respiro. La consapevolezza può essere sempre e ovunque, non è qualcosa da raggiungere, ma da vivere” (Thich Nhat Hanh 1991).
L’attenzione al cambiamento interiore, senza mai estenderlo al di fuori di sé, disinnesca il potenziale per un’azione collettiva dei corpi, trasformando tutti gli individui in piccoli “Amleto” moderni, dilaniati da dubbi e indecisioni, pur giurando una vendetta che non saranno mai in grado di soddisfare, se non rientrando in possesso del proprio corpo e della consapevolezza della morte come destino ultimo della vita. Sarà allora un sentimento di impotenza a prendere il sopravvento, ma “Amleto non è migliore del peccatore che dovrebbe punire” scrisse Freud (1915, 4). Come il personaggio shakespeariano, conosciamo la verità, comprendiamo l’ingiustizia, riconosciamo il nemico, ma non facciamo abbastanza per cambiare: l’impotenza si trasforma ben presto in passività, con evidente mancanza di interesse, energia e motivazione. La passività diventa poi un vizio comodo da perpetuare. In questo modo le manifestazioni di piazza – soprattutto nel nostro Paese – diventano un semplice “atto di consumo” come scrissi su Ātman qualche tempo fa.
Tutto, là fuori, sembra dirci che nulla può cambiare, ma è davvero così? È probabilmente vero ritenere che nelle società economicamente avanzate, le persone percepiscono minori rischi per la sopravvivenza e quindi spostano la loro attenzione verso valori più immateriali, irreali, virtuali: il tempo a disposizione permetterebbe di percepire quella “sicurezza esistenziale” di cui parlò Ronald Inglehart in Modernization and Postmodernization nel 1997. Ma trattasi, appunto, di una percezione. Le energie si rivolgono spesso all’impegno per i diritti civili, destinando l’azione collettiva alla semplice esperienza di supporto o commemorazione, quasi mai violento, per cause che non intendono erodere i meccanismi dell’organizzazione sociale, poiché quei meccanismi ci garantiscono la “sicurezza esistenziale” e il ripetersi della passività nella sua cronica comodità .
Questo è il tempo dove le necessità immateriali superano, in valore percepito, quelle materiali. Questo è il destino, temporaneo come tutti gli eventi e le cose, della società occidentale. Quando questo accade vi è immobilismo e i cambiamenti sociali faticano a compiersi. È qui che si rende evidente il declino etico, morale e ideologico dell’Occidente.
Possiamo ritornare a sentirci attraverso il dolore, con un trauma “corporeo” collettivo, che è anche mentale ed emotivo? Così come Amleto gioca la sua partita quando perde tutto, così noi risentiremo i nostri corpi con la mutilazione di qualcosa di importante, di materiale, che ci faccia superare la paura della morte e con essa la paura di vivere. Se è, ad esempio, fosse la fame vera a procurarci dolore? Oppure la guerra o la malattia? La morte di Ofelia segna un punto di svolta nel percorso di Amleto: dopo la sua perdita, il principe sembra superare quella paralisi interiore che fino a quel momento lo aveva trattenuto dal compiere l’atto di vendetta. Nel momento in cui si getta nella fossa durante il funerale di Ofelia, la sua angoscia raggiunge l’apice e si manifesta in modo fisico e violento.
La necessità del trauma – della “fossa amletica” – come scintilla dell’azione, intesa come necessità sociale e collettiva, per cambiare il nostro sentire è la condizione necessaria per riacquisire la capacità e il potere (dal latino potis, che può) di intervenire nel mondo. Il trauma inteso come evento che scuote le fondamenta del nostro pensare comune, che si traduce poi in azione collettiva dei corpi. Necessariamente questa azione dei corpi sarebbe violenta – nel senso di violens, che significa “forte, energico, impetuoso” –, perché scaturirebbe da una necessità impellente e urgente di cambiamento: l’alternativa sarebbe l’inazione e quindi la “morte” del corpo sociale e individuale.
Un esempio di trauma collettivo potrebbe essere una crisi ambientale estrema, come il rapido e devastante cambiamento climatico che mette in pericolo le condizioni di vita sulla Terra. Quando il cambiamento climatico si manifesta in eventi traumatici – incendi incontrollati, alluvioni, desertificazioni – scuote le fondamenta stesse della nostra esistenza e sfida l’idea di “normalità”. Questo trauma agisce da “fossa amletica”: costringe a una riflessione su quanto stiamo perdendo e ad un’azione urgente, impossibile da evitare.
La domanda che si pone finalmente è questa: attendere che si verifichi un trauma? O forse, il sentire non deve essere necessariamente generato dalla perdita, ma può fiorire come scelta consapevole, un atto di volontà deciso che ci restituisce a noi stessi, come frammenti corporei ricomposti? Prima che la fossa ci reclami tutti, diveniamo il trauma collettivo di noi stessi.
Fotografia di Daria Lazo/@_darialazo_
Bibliografia:
Freud S. [1915] 1976. Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Newton Compton Editori, Milano.
Freud S. 2011. L’interpretazione dei sogni, Feltrinelli, Milano.
Inglehart R.. 1997. Modernization and Postmodernization: Cultural, Economic, and Political Change in 43 Societies, Princeton University Press, Princeton (NJ).
Lacan J. 1964. Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino
Lowen A. 1982. Paura di vivere, Astrolabio, Roma.