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Dicembre
2 Dicembre 2024

IL TRAU­MA COME RISVE­GLIO DEI COR­PI

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Fino alla mor­te del cor­po, esso si muo­ve. Se fuo­ri appa­re fer­mo, esso si muo­ve all’in­ter­no, tra le visce­re e i ner­vi. È la mor­te, grem­bo eter­no che tut­ti acco­glie, che pone la fine defi­ni­ti­va e ine­lut­ta­bi­le ad ogni cosa, come la gra­vi­tà, che spin­ge i cor­pi a ter­ra fino a far­li spro­fon­da­re per tra­sfor­mar­li a nuo­va vita. E nel pro­ces­so cicli­co di vita e mor­te, i com­ples­si mec­ca­ni­smi ener­ge­ti­ci sta­bi­li­ti uni­ver­sal­men­te muo­vo­no le cose affin­ché tut­to ricon­du­ca al mede­si­mo ciclo. Tut­ti noi spe­ri­men­te­re­mo la fine con i nostri cor­pi e con essi le nostre men­ti, in quel­la “irru­zio­ne del rea­le” che secon­do Lacan (1964) si mani­fe­sta attra­ver­so l’e­mer­ge­re del­l’in­con­scio nel­la vita con­scia, ovve­ro quan­do i con­te­nu­ti repres­si – desi­de­ri, trau­mi, impul­si – fan­no irru­zio­ne nel­la coscien­za o si mani­fe­sta­no attra­ver­so sin­to­mi, sogni o atti. Il rea­le è spes­so asso­cia­to ai limi­ti dell’esperienza uma­na e alle veri­tà più radi­ca­li e ine­lu­di­bi­li, come la mor­te. È la pau­ra del­la mor­te che non ci per­met­te di vive­re pie­na­men­te.

Tut­to è intrin­se­ca­men­te mor­te per­ché tut­ta la vita con­du­ce in quel­la dire­zio­ne, smen­ten­do nei fat­ti il con­cet­to di vita eter­na, di som­ma impor­tan­za per la cul­tu­ra cri­stia­na e post-cri­stia­na. Se fos­si­mo dav­ve­ro con­vin­ti di una qual­che plau­si­bi­le rina­sci­ta oltre que­sta vita, pro­ba­bil­men­te in pochi pian­ge­reb­be­ro ai fune­ra­li e sof­fri­reb­be­ro per una per­di­ta defi­ni­ti­va. La mor­te spa­ven­ta per­ché con essa, ciò che si per­de è la men­te, essa stes­sa par­te del cor­po e non vice­ver­sa. Come ad esem­pio sostie­ne Lowen: 

“Come la mor­te, la fol­lia rap­pre­sen­ta una gran­de minac­cia per la per­so­na­li­tà uma­na. È una spe­cie di mor­te, poi­ché il sé, come lo vivia­mo nor­mal­men­te, nel­lo sta­to psi­co­ti­co è annul­la­to” (Lowen 1980, 105).

La men­te è una par­te del cor­po e non qual­co­sa di sepa­ra­to o tra­scen­den­te. Que­sto pen­sie­ro può spa­ven­ta­re per­ché impli­ca che, con la fine del cor­po, si per­da anche tut­to ciò che con­si­de­ria­mo “noi stes­si” – pen­sie­ri, coscien­za, iden­ti­tà.  Non far­si ingan­na­re del con­tra­rio è il pri­mo eser­ci­zio che ci ser­ve per con­dur­re una vita degna e pie­na di signi­fi­ca­to: “se abbia­mo pau­ra di mori­re, abbia­mo pau­ra di vive­re o di esse­re” (Lowen 1980, 102). La vita, per la sua pale­se tem­po­ra­nei­tà e vul­ne­ra­bi­li­tà, è meno sacra di quel che imma­gi­nia­mo – alme­no nel signi­fi­ca­to reli­gio­so – ma non per que­sto meno degna d’essere vis­su­ta pie­na­men­te e con­sa­pe­vol­men­te con tut­ti i nostri cor­pi, men­ti inclu­se.

La nostra epo­ca svuo­ta i cor­pi del­la loro fun­zio­ne sul­la real­tà, esal­tan­do l’irreale, il vir­tua­le, gene­ran­do una rete a maglie sem­pre più lar­ghe, spez­za­ta e divi­sa in più pun­ti, con­ce­den­do­ci solo l’angoscia del­la soli­tu­di­ne. Cosa pos­so­no fare i gover­ni occi­den­ta­li, sem­pre più inci­sta­ti nel regi­me socia­le attua­le che si basa sul­lo sfrut­ta­men­to del­la vita? Non pos­sia­mo che ricor­da­re il con­cet­to di alie­na­zio­ne nel capi­ta­li­smo, in cui i lavo­ra­to­ri per­do­no il con­trol­lo su ciò che pro­du­co­no e su se stes­si, diven­tan­do estra­nei al pro­prio lavo­ro e così alla vita socia­le. La soli­tu­di­ne – qui inte­sa come il rifles­so per­pe­tuo dell’individualismo meto­do­lo­gi­co – è uti­le al siste­ma capi­ta­li­sta del­la vita e non ser­vo­no a gran­ché le espe­rien­ze pseu­do-illu­mi­na­te come Il “Mini­ste­ro del­la Soli­tu­di­ne” ingle­se, isti­tui­to nel 2018. In un con­te­sto capi­ta­li­sta, la soli­tu­di­ne diven­ta uti­le al siste­ma per­ché iso­la l’individuo, favo­ren­do una con­ti­nua ricer­ca di solu­zio­ni indi­vi­dua­li ai pro­ble­mi del­la vita. La neces­si­tà di col­ma­re il vuo­to inte­rio­re crea­to dall’isolamento spin­ge al con­su­mo costan­te di beni mate­ria­li – dall’intrattenimento all’auto-miglioramento – per dare sen­so alla pro­pria esi­sten­za. 

La soli­tu­di­ne gene­ra mor­te nel­la vita, ne incan­cre­ni­sce il movi­men­to e lo svi­lup­po, ini­bi­sce il pro­gres­so dei cor­pi, sia indi­vi­dual­men­te che col­let­ti­va­men­te. Il cor­po in soli­tu­di­ne è un cor­po mor­to. Cosa diver­sa sareb­be “rima­ne­re soli con il cir­co­stan­te”, come defi­ni­va la soli­tu­di­ne il poe­ta can­tau­to­re De André nel suo “Elo­gio alla Soli­tu­di­ne”. In que­sto caso la soli­tu­di­ne sareb­be tem­po­ra­nea, una con­tem­pla­zio­ne che ci per­met­te di guar­da­re al nostro ambien­te, di osser­var­lo e di capir­lo. Quel­lo che inten­do qui per “soli­tu­di­ne” è l’individualismo del cor­po.

La socia­li­tà che con­trad­di­stin­gue tut­ti gli esse­ri viven­ti è scrit­ta anche nel nostro codi­ce gene­ti­co e tra i testi­mo­ni vi sono antro­po­lo­gi, neu­ro­scien­zia­ti, finan­che i par­ro­ci e i medi­ci. Non meno impor­tan­te è resta­re socia­li, pri­ma che uma­ni, anche nel­la riso­lu­zio­ne dei pro­ble­mi. La deter­mi­na­zio­ne e la curio­si­tà, e con essa l’at­to del­la ricer­ca, sono tra i fat­to­ri che han­no reso pos­si­bi­le la nostra soprav­vi­ven­za e l’e­vo­lu­zio­ne del­le nostre socie­tà, influen­zan­do i modi in cui ci adat­tia­mo e soprav­vi­via­mo. Ci ren­de più feli­ci cer­ca­re una solu­zio­ne ad un pro­ble­ma comu­ne, piut­to­sto che aspet­ta­re un auto­bus in ritar­do. Non solo per­ché il nostro cor­po non è bio­lo­gi­ca­men­te pro­get­ta­to per resta­re fer­mo ad aspet­ta­re, ma anche per­ché l’attesa si espri­me sem­pre e comun­que in soli­tu­di­ne. Se risol­ve­re un pro­ble­ma, cer­ca­re una solu­zio­ne è impor­tan­te per il sen­so di gra­ti­fi­ca­zio­ne che ne deri­va, far­lo assie­me rispon­de all’esigenza dell’appartenenza.

Quan­do l’in­tel­li­gen­za arti­fi­cia­le stu­die­rà al posto nostro, dove fini­rà il nostro sen­so di deter­mi­na­zio­ne? E qual è il limi­te oltre il qua­le rag­giun­gia­mo la sod­di­sfa­zio­ne del­la curio­si­tà sen­za più l’at­to del cer­ca­re, per­ché ci sarà un’al­tra “intel­li­gen­za” a cer­ca­re per noi? Sarà allo­ra la mor­te dei cor­pi e con essi del­le men­ti. 

Il cor­po è un com­ples­so rea­le di ner­vi, musco­li e psi­che e que­sto cor­po si è evo­lu­to per noi homo sapiens da alme­no due­cen­to­mi­la anni. I nostri sen­si sono un gro­vi­glio qua­si inscru­ta­bi­le che per­ce­pi­sco­no il mon­do, lo osser­va­no, lo ana­liz­za­no e lo modi­fi­ca­no all’oc­cor­ren­za. Ben diver­so è far­lo vir­tual­men­te, fuo­ri dal­la real­tà, in soli­tu­di­ne. Usa­re una tec­no­lo­gia avan­za­ta non ci ren­de più effi­ca­ci a modi­fi­ca­re il nostro ambien­te cir­co­stan­te, anzi: nell’era del­la dit­ta­tu­ra del­la tec­ni­ca usia­mo stru­men­ti che non sia­mo in gra­do di gesti­re, di aggiu­sta­re, né di repli­ca­re. Chi sareb­be in gra­do di costrui­re da zero un com­pu­ter e col­le­gar­lo ad una rete di comu­ni­ca­zio­ne glo­ba­le? Per que­sto moti­vo, con il venir meno dell’uso di quel com­ples­so rea­le che è il nostro cor­po, sosti­tui­to dal­la vir­tua­li­tà del­la tec­no­lo­gia, si esau­ri­sce ogni for­ma di inter­ven­to e di cam­bia­men­to rea­le fuo­ri dal nostro cor­po, nel mon­do. 

Ale­xan­der Lowen, fon­da­to­re del­la bio­e­ner­ge­ti­ca, ha esplo­ra­to il cor­po come il cen­tro dell’esperienza e dell’autenticità dell’individuo, soste­nen­do che il cor­po rac­chiu­de sia la memo­ria emo­ti­va che la capa­ci­tà di espri­me­re e agi­re in modo auten­ti­co. Secon­do Lowen, i trau­mi e i con­flit­ti inte­rio­ri si riflet­to­no nel cor­po attra­ver­so ten­sio­ni musco­la­ri cro­ni­che e bloc­chi ener­ge­ti­ci, impe­den­do la pie­na espres­sio­ne di sé e limi­tan­do­ne la vita­li­tà. La socie­tà occi­den­ta­le esa­spe­ra que­ste ten­sio­ni, ma rie­sce comun­que a sta­bi­li­re un equi­li­brio, sep­pur pre­ca­rio, man­te­nen­do que­sti bloc­chi e ten­sio­ni, come una sor­ta di “con­trol­lo” col­let­ti­vo del­le pul­sio­ni e del­le ener­gie indi­vi­dua­li. 

Così, pur di soprav­vi­ve­re, con­cen­tria­mo la nostra atten­zio­ne, nell’ambito del­la nostra soli­tu­di­ne, a sod­di­sfa­re quel biso­gno nar­ci­si­sti­co di auto-accet­ta­zio­ne. È come la mastur­ba­zio­ne che sosti­tui­sce peren­ne­men­te il rap­por­to ses­sua­le. Ci si rin­chiu­de così nell’intimità di un social net­work, chia­ma­to così solo per tra­di­re la sua rea­le fun­zio­ne che è, for­se più pre­ci­sa­men­te, un indi­vi­dual spa­ce, così da resta­re al sicu­ro dal mon­do per­ché esso appa­re trop­po dif­fi­ci­le da cam­bia­re. Ci rin­chiu­dia­mo per­ché abbia­mo fon­da­men­tal­men­te pau­ra. Cre­do che sia­no que­sti i moti­vi che ci impe­di­sco­no di sen­ti­re come pos­si­bi­le ogni cam­bia­men­to fuo­ri dal nostro cor­po. Per­ciò, in Occi­den­te, spo­po­la­no i libri che ci gui­da­no ver­so il cam­bia­men­to inte­rio­re nei qua­li ci invi­ta­no a cam­bia­re noi stes­si. Non tan­to per modi­fi­ca­re il mon­do, ma per adat­tar­ci meglio ad esso. Un clas­si­co insie­me di idee, valo­ri e atteg­gia­men­ti tipi­ci del­la pic­co­la bor­ghe­sia, dove l’auto-miglioramento sosti­tui­sce l’azione col­let­ti­va tra­sfor­ma­ti­va nel mon­do rea­le. Le disci­pli­ne medi­ta­ti­ve e le filo­so­fie orien­ta­li nul­la han­no a che vede­re con la visio­ne mio­pe occi­den­ta­le del benes­se­re men­ta­le “da super­mer­ca­to”, non pos­sia­mo com­pra­re la con­sa­pe­vo­lez­za, pos­sia­mo però spe­ri­men­tar­la: 

“La pace è ogni pas­so. La gio­ia è ogni respi­ro. La con­sa­pe­vo­lez­za può esse­re sem­pre e ovun­que, non è qual­co­sa da rag­giun­ge­re, ma da vive­re” (Thich Nhat Hanh 1991). 

L’at­ten­zio­ne al cam­bia­men­to inte­rio­re, sen­za mai esten­der­lo al di fuo­ri di sé, disin­ne­sca il poten­zia­le per un’a­zio­ne col­let­ti­va dei cor­pi, tra­sfor­man­do tut­ti gli indi­vi­dui in pic­co­li “Amle­to” moder­ni, dila­nia­ti da dub­bi e inde­ci­sio­ni, pur giu­ran­do una ven­det­ta che non saran­no mai in gra­do di sod­di­sfa­re, se non rien­tran­do in pos­ses­so del pro­prio cor­po e del­la con­sa­pe­vo­lez­za del­la mor­te come desti­no ulti­mo del­la vita. Sarà allo­ra un sen­ti­men­to di impo­ten­za a pren­de­re il soprav­ven­to, ma “Amle­to non è miglio­re del pec­ca­to­re che dovreb­be puni­re” scris­se Freud (1915, 4).  Come il per­so­nag­gio sha­ke­spea­ria­no, cono­scia­mo la veri­tà, com­pren­dia­mo l’ingiustizia, rico­no­scia­mo il nemi­co, ma non fac­cia­mo abba­stan­za per cam­bia­re: l’impotenza si tra­sfor­ma ben pre­sto in pas­si­vi­tà, con evi­den­te man­can­za di inte­res­se, ener­gia e moti­va­zio­ne. La pas­si­vi­tà diven­ta poi un vizio como­do da per­pe­tua­re. In que­sto modo le mani­fe­sta­zio­ni di piaz­za – soprat­tut­to nel nostro Pae­se – diven­ta­no un sem­pli­ce “atto di con­su­mo” come scris­si su Ātman qual­che tem­po fa.

Tut­to, là fuo­ri, sem­bra dir­ci che nul­la può cam­bia­re, ma è dav­ve­ro così? È pro­ba­bil­men­te vero rite­ne­re che nel­le socie­tà eco­no­mi­ca­men­te avan­za­te, le per­so­ne per­ce­pi­sco­no mino­ri rischi per la soprav­vi­ven­za e quin­di spo­sta­no la loro atten­zio­ne ver­so valo­ri più imma­te­ria­li, irrea­li, vir­tua­li: il tem­po a dispo­si­zio­ne per­met­te­reb­be di per­ce­pi­re quel­la “sicu­rez­za esi­sten­zia­le” di cui par­lò Ronald Ingle­hart in Moder­ni­za­tion and Post­mo­der­ni­za­tion nel 1997. Ma trat­ta­si, appun­to, di una per­ce­zio­ne. Le ener­gie si rivol­go­no spes­so all’impegno per i dirit­ti civi­li, desti­nan­do l’azione col­let­ti­va alla sem­pli­ce espe­rien­za di sup­por­to o com­me­mo­ra­zio­ne, qua­si mai vio­len­to, per cau­se che non inten­do­no ero­de­re i mec­ca­ni­smi dell’organizzazione socia­le, poi­ché quei mec­ca­ni­smi ci garan­ti­sco­no la “sicu­rez­za esi­sten­zia­le” e il ripe­ter­si del­la pas­si­vi­tà nel­la sua cro­ni­ca como­di­tà . 

Que­sto è il tem­po dove le neces­si­tà imma­te­ria­li supe­ra­no, in valo­re per­ce­pi­to, quel­le mate­ria­li. Que­sto è il desti­no, tem­po­ra­neo come tut­ti gli even­ti e le cose, del­la socie­tà occi­den­ta­le. Quan­do que­sto acca­de vi è immo­bi­li­smo e i cam­bia­men­ti socia­li fati­ca­no a com­pier­si. È qui che si ren­de evi­den­te il decli­no eti­co, mora­le e ideo­lo­gi­co dell’Occidente.

Pos­sia­mo ritor­na­re a sen­tir­ci attra­ver­so il dolo­re, con un trau­ma “cor­po­reo” col­let­ti­vo, che è anche men­ta­le ed emo­ti­vo? Così come Amle­to gio­ca la sua par­ti­ta quan­do per­de tut­to, così noi risen­ti­re­mo i nostri cor­pi con la muti­la­zio­ne di qual­co­sa di impor­tan­te, di mate­ria­le, che ci fac­cia supe­ra­re la pau­ra del­la mor­te e con essa la pau­ra di vive­re. Se è, ad esem­pio, fos­se la fame vera a pro­cu­rar­ci dolo­re? Oppu­re la guer­ra o la malat­tia? La mor­te di Ofe­lia segna un pun­to di svol­ta nel per­cor­so di Amle­to: dopo la sua per­di­ta, il prin­ci­pe sem­bra supe­ra­re quel­la para­li­si inte­rio­re che fino a quel momen­to lo ave­va trat­te­nu­to dal com­pie­re l’at­to di ven­det­ta. Nel momen­to in cui si get­ta nel­la fos­sa duran­te il fune­ra­le di Ofe­lia, la sua ango­scia rag­giun­ge l’a­pi­ce e si mani­fe­sta in modo fisi­co e vio­len­to.

La neces­si­tà del trau­ma – del­la “fos­sa amle­ti­ca” – come scin­til­la dell’azione, inte­sa come neces­si­tà socia­le e col­let­ti­va, per cam­bia­re il nostro sen­ti­re è la con­di­zio­ne neces­sa­ria per riac­qui­si­re la capa­ci­tà e il pote­re (dal lati­no potis, che può) di inter­ve­ni­re nel mon­do. Il trau­ma inte­so come even­to che scuo­te le fon­da­men­ta del nostro pen­sa­re comu­ne, che si tra­du­ce poi in azio­ne col­let­ti­va dei cor­pi. Neces­sa­ria­men­te que­sta azio­ne dei cor­pi sareb­be vio­len­ta – nel sen­so di vio­lens, che signi­fi­ca “for­te, ener­gi­co, impe­tuo­so” –, per­ché sca­tu­ri­reb­be da una neces­si­tà impel­len­te e urgen­te di cam­bia­men­to: l’al­ter­na­ti­va sareb­be l’inazione e quin­di la “mor­te” del cor­po socia­le e indi­vi­dua­le.

Un esem­pio di trau­ma col­let­ti­vo potreb­be esse­re una cri­si ambien­ta­le estre­ma, come il rapi­do e deva­stan­te cam­bia­men­to cli­ma­ti­co che met­te in peri­co­lo le con­di­zio­ni di vita sul­la Ter­ra. Quan­do il cam­bia­men­to cli­ma­ti­co si mani­fe­sta in even­ti trau­ma­ti­ci – incen­di incon­trol­la­ti, allu­vio­ni, deser­ti­fi­ca­zio­ni – scuo­te le fon­da­men­ta stes­se del­la nostra esi­sten­za e sfi­da l’idea di “nor­ma­li­tà”. Que­sto trau­ma agi­sce da “fos­sa amle­ti­ca”: costrin­ge a una rifles­sio­ne su quan­to stia­mo per­den­do e ad un’azione urgen­te, impos­si­bi­le da evi­ta­re.

La doman­da che si pone final­men­te è que­sta: atten­de­re che si veri­fi­chi un trau­ma? O for­se, il sen­ti­re non deve esse­re neces­sa­ria­men­te gene­ra­to dal­la per­di­ta, ma può fio­ri­re come scel­ta con­sa­pe­vo­le, un atto di volon­tà deci­so che ci resti­tui­sce a noi stes­si, come fram­men­ti cor­po­rei ricom­po­sti? Pri­ma che la fos­sa ci recla­mi tut­ti, dive­nia­mo il trau­ma col­let­ti­vo di noi stes­si. 

Foto­gra­fia di Daria Lazo/@_darialazo_

Biblio­gra­fia:

Freud S. [1915] 1976. Con­si­de­ra­zio­ni attua­li sul­la guer­ra e sul­la mor­te, New­ton Comp­ton Edi­to­ri, Mila­no.

Freud S. 2011. L’interpretazione dei sogni, Fel­tri­nel­li, Mila­no.

Ingle­hart R.. 1997. Moder­ni­za­tion and Post­mo­der­ni­za­tion: Cul­tu­ral, Eco­no­mic, and Poli­ti­cal Chan­ge in 43 Socie­ties, Prin­ce­ton Uni­ver­si­ty Press, Prin­ce­ton (NJ).

Lacan J. 1964. Semi­na­rio XI: I quat­tro con­cet­ti fon­da­men­ta­li del­la psi­coa­na­li­si, Einau­di, Tori­no

Lowen A. 1982. Pau­ra di vive­re, Astro­la­bio, Roma.

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