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4 Dicembre 2023

TRAFFICO DEI MIGRANTI: DAL FILM “IO CAPITANO” UNA LETTURA DELL’EVOLUZIONE DELLA TRATTA DEGLI ESSERI UMANI IN LIBIA

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Per il tema trattato e per la visibilità ottenuta, il film di Garrone Io Capitano è, oltre che un fatto estetico, un evento sociale. L’opera contribuisce infatti a colmare un vuoto importante nel dibattito pubblico italiano sui flussi migratori provenienti dalla Libia, offrendo un’immagine visiva del viaggio a cui centinaia di migliaia di persone sono state obbligate, negli ultimi vent’anni, per fuggire da povertà, guerre, persecuzioni e catastrofi naturali, e giungere in Europa. In particolare, viene rappresentato, in modo anche piuttosto crudo, il modus operandi delle reti del traffico libiche. L’efferatezza e la mancanza di scrupoli dei trafficanti libici è cosa piuttosto nota in Italia, ma le immagini memorabili di Io Capitano rendono ancora più amara l’indifferenza verso le storie dei sopravvissuti, intrappolati nei nostri kafkiani sistemi di accoglienza o, peggio, di rimpatrio. Queste immagini possono essere utili per ricostruire le ragioni storiche che hanno portato a questa situazione. Inquadrare e analizzare l’evoluzione dell’immigrazione illegale nel contesto sociale, politico ed economico libico degli ultimi vent’anni consente di comprendere le cause profonde dei metodi di lavoro dei trafficanti libici, e, quindi, delle atrocità subite dai migranti.

L’Economia Politica del Traffico di Migranti in Libia

Per realizzare la sceneggiatura del film, gli autori si sono avvalsi di varie storie personali, fra cui quelle di Mamadou Kouassì e Fofana Amara che hanno svolto il viaggio in Libia rispettivamente nel 2008 e nel 2014. Due storie separate a livello cronologico dalla Rivoluzione del 2011, che portò alla caduta del regime di Gheddafi e a una situazione di relativa anarchia che perdura ancora oggi e che vede titolare della sovranità sul territorio libico non più un’autorità statale ma una pletora di attori non statali, milizie armate relativamente autonome e fondate su legami etnici, ideologici e tribali. Finanziate anche da governi stranieri (Turchia, Russia, Italia, Arabia Saudita…) interessati a mantenere il controllo delle risorse naturali (petrolio e gas) del paese, esse si contendono in modo predatorio l’accesso alle varie fonti di guadagno, legali e illegali. Nel film si fa riferimento soprattutto a quest’ultima fase della Storia libica. Tuttavia, per avere un quadro completo, è necessario approfondire come il traffico dei migranti si è sviluppato in Libia dagli inizi del Duemila.

2002–2008: Nasce un nuovo settore dell’economia informale, controllato dal regime di Gheddafi

Fino alla fine degli anni Novanta, la Tunisia era stata il principale punto di partenza dei migranti decisi a raggiungere via mare l’Europa. Ma, ostacolati in patria dagli accordi sui rimpatri fra Italia e Tunisia del 1998, i trafficanti tunisini furono costretti a spostarsi. La chiusura di altre tratte, come quelle dal Marocco o dal Senegal verso la Spagna, fece della Libia l’unico punto di partenza verso le coste europee a disposizione dei trafficanti. Passare illegalmente il confine marittimo fra Nord-Africa ed Europa era di gran lunga più vantaggioso per i migranti. Questo perché, in quel periodo, raggiungere qualsiasi aeroporto europeo da uno scalo africano, con documenti falsi, poteva costare fino a 7000 dollari. Il prezzo dello stesso viaggio via terra fino alle coste libiche e poi via mare attraverso il Canale di Sicilia, seppur più lungo, ne costava appena 3000 (fonte). Inizialmente i trafficanti si stabilirono a Zuwara, la stessa località da cui i due protagonisti si imbarcano per l’Italia in Io Capitano. La città venne scelta perché vicina al luogo d’origine dei trafficanti, e per la sua ‘vicinanza’ (trecento chilometri) con Lampedusa.

Per questioni politiche, logistiche e sociali, la Libia fu uno snodo ideale per le rotte dei migranti e luogo florido per gli affari dei trafficanti.

Sanzionata dalle Nazioni Unite per il coinvolgimento di agenti libici nell’attentato aereo di Lockerbie, in Scozia (21 dicembre 1988), la Libia non aveva in quel periodo rapporti diplomatici con i paesi europei. Nel breve periodo i governi europei non poterono stringere col paese accordi sul controllo dei flussi migratori, come quelli firmati con Tunisia e Marocco.

Sviluppandosi in mare aperto, la rotta del Mediterraneo Centrale risultò molto più difficile da controllare della rotta tunisina o marocchina. Meta di immigrazione sin dalla scoperta del petrolio negli anni Sessanta, la Libia era inoltre già strettamente collegata con i circuiti migratori dell’Africa Sub-Sahariana e del Corno d’Africa. Durante il suo regime, Gheddafi utilizzò spesso le politiche migratorie come strumento diplomatico per mettere sotto pressione i partner regionali, a prescindere dalle reali esigenze dell’economia. Ciò rese estremamente precaria la figura del migrante in Libia e contribuì a creare un’infrastruttura illegale per il trasporto transfrontaliero di persone. Alcune località del Sahara, come Sabah e Kufrah, divennero centri economici estremamente vitali e predisposti al transito di migranti economici, regolari e irregolari, diretti verso le coste. Nel film, la scena del venditore di passaporti falsi che i protagonisti di Io Capitano incontrano prima di entrare in Niger, richiama l’importanza di questi centri nella rotta verso la Libia. I trafficanti tunisini poterono approfittare di questa infrastruttura informale già esistente, in cui attori fondamentali erano i membri delle popolazioni nomadi Tebu e Tuareg ai confini meridionali del paese, in grado di traghettare i migranti nel deserto.

Quest’infrastruttura prosperò grazie alla naturale difficoltà di sorvegliare una frontiera meridionale lunga migliaia di chilometri in pieno deserto, e al definanziamento e la disorganizzazione del sistema di controllo delle frontiere dello Stato libico, frutto di una presa di posizione politica ben precisa da parte del regime di Muammar Gheddafi.

L’industria del traffico dei migranti beneficiò infatti della generale tolleranza del Colonnello verso l’economia illegale. Le risorse e le opportunità dell’economia legale venivano distribuite tramite un sistema clientelare che privilegiava le etnie, le tribù o le città del paese più vicine al regime (fonte). Agli esclusi da questo sistema, come le popolazioni nomadi nel sud del paese, Gheddafi concedeva di affidarsi all’economia illegale per sopravvivere. Ciò non impedì al regime di trarre profitto anche dall’economia illegale tramite la riscossione di tributi da contrabbandieri e trafficanti, o lasciandosi coinvolgere direttamente (fonte).

Le strategie dei trafficanti

Lo Stato, più che reprimere l’immigrazione clandestina, era interessato a tenere sotto controllo le capacità operative dei trafficanti, per impedirgli di organizzarsi in reti più articolate in grado di coordinare l’intero viaggio dal deserto alla costa.

Le partenze dei migranti verso l’Europa dovevano a quel tempo essere discrete per non dare nell’occhio delle autorità. Le partenze erano di 30/40 migranti alla volta, di notte, con piccole imbarcazioni che potessero passare inosservate. I trafficanti predisponevano, a seconda dello status del migrante, diverse strategie d’ingresso in Italia, dimostrando di essere attenti all’evoluzione delle politiche di accoglienza dei paesi di destinazione. Questa dinamica è ben rappresentata in Io Capitano: il trafficante che propone a Seydou di imbarcarsi come scafista, non solo sa perfettamente che sarà possibile chiamare i soccorsi in acque italiane, ma anche che essendo minorenne non dovrebbe essere incriminato dalle autorità. Spinto dall’urgenza e dalla mancanza di denaro, Seydou finisce per accettare. La crudele ironia è che Fofana Amara, al quale è ispirato questo episodio del film, una volta in Italia è stato arrestato in quanto scafista, nonostante avesse solo 15 anni, e recluso per due mesi nel carcere (per adulti) di Cavadonna, Siracusa (fonte) .

La Rivoluzione del 2011

I trafficanti agirono indisturbati fino al 2008, quando l’avvicinamento fra Europa e Libia e gli accordi economici con il governo italiano spinsero Gheddafi a contrastare i flussi con maggiori controlli. Tutti i principali trafficanti del paese furono arrestati. Non è un particolare insignificante. In carcere, i trafficanti della costa, del deserto e dei confini meridionali del paese poterono conoscersi, preparando il campo per un salto di qualità nell’organizzazione delle reti del traffico che sprigionerà tutta la sua forza subito dopo la Rivoluzione del 2011. Quell’anno, Gheddafi scarcerò tutti i trafficanti, con l’intenzione di riattivare la pressione migratoria sui paesi europei, rei di star supportando le proteste interne contro il regime. Morto il Rais, questi trafficanti si ritrovarono quindi in libertà, più collegati, in uno Stato fallito dove a farla da padrone erano le milizie armate formatesi durante la Rivoluzione. Caduto il vecchio sistema clientelare, le milizie iniziarono a contendersi ogni possibile fonte di finanziamento, compreso il business del trasbordo di migranti irregolari verso l’Europa. Iniziava la seconda fase storica dello sviluppo del traffico di migranti in Libia, quella rappresentata nel film di Garrone.

2012–2017: L’avvento delle milizie armate

La ricostruzione dello Stato libico venne gravemente ostacolata dal mancato smantellamento e reintegro nella società civile delle milizie protagoniste della Rivoluzione. I timidi tentativi di integrarne i membri all’interno delle forze armate, avviati nel 2012, ebbero come unico effetto quello di concedere uno stipendio pubblico e far penetrare nel sistema di sicurezza statale più di 200 mila combattenti. Per di più, venne incentivata la creazione di nuove milizie con lo scopo di predare risorse dallo Stato. Nel 2017 esistevano almeno 1600 di queste formazioni (fonte).

Le milizie lontane da Tripoli e quindi dal potere statale trovarono nel controllo del traffico di migranti una remunerativa fonte di guadagno. Fino al 2014, i gruppi armati si limitarono a riscuotere dai trafficanti una tassa di protezione per poter attraversare il proprio territorio, secondo lo schema tipico del “pizzo” mafioso. Col tempo, queste si trovarono tuttavia sempre più coinvolte nell’organizzazione diretta del traffico. Ciò contribuì ad industrializzare e rendere più efficiente un’attività che prosperava grazie ad un clima d’impunità senza precedenti: da qui il boom di arrivi in Italia fino al 2016. I migranti potevano ora viaggiare su autostrade regolari controllate dalle milizie ed essere ospitati in punti di raccolta più grandi e più vicini alle aree urbane o ai punti di imbarco. Non più costretti a nascondersi, i trafficanti potevano organizzare traversate anche di giorno e con sempre più passeggeri.

Inizialmente, le reti di trafficanti si riattivarono in risposta all’afflusso in Libia di numerosi rifugiati dalla Siria, relativamente benestanti e in fuga dalla guerra verso l’Europa. Con lo scoppio della Seconda guerra civile libica nel 2014, i rifugiati siriani scelsero altre rotte. Ma la macchina era ormai avviata. I trafficanti iniziarono ad abbassare il prezzo della traversata mediterranea, rendendola molto economica e accessibile a chi proveniva dal Corno d’Africa e dall’Africa Occidentale. Migliaia di persone cominciarono a dirigersi in Libia per salpare verso l’Europa. Con la riduzione del prezzo, però, diminuì anche la qualità delle imbarcazioni. Nel 2016, il giro d’affari dell’industria dell’immigrazione illegale raggiunse i 978 milioni di dollari (fonte) e allo stesso tempo il 72% dei decessi sulle rotte migratorie mondiali avveniva nel Mediterraneo Centrale (fonte).

Nel 2017 l’accordo col Ministro dell’Interno Marco Minniti

L’“epoca d’oro” del traffico dei migranti durò fino al 2017, quando il ministro Marco Minniti negoziò un accordo direttamente con le comunità e le milizie stanziate lungo la rotta migratoria libica, in cui si promettevano risorse per lo sviluppo delle comunità locali in cambio del contenimento del flusso di irregolari. L’effetto principale degli accordi italo-libici, tuttavia, fu l’invio di ingenti finanziamenti per colmare le falle nel sistema libico di controllo delle frontiere e della costa. Per opportunità economica, ma anche in cerca di legittimazione politica, le milizie smisero di lucrare sul traffico di migranti per assumere funzioni di controllo e repressione come membri delle forze di polizia e della Guardia Costiera.

Il business dell’estorsione

I trafficanti furono obbligati a tornare a muoversi con prudenza o a limitarsi in modo sistematico allo sfruttamento e all’estorsione dei migranti, come ben presto fecero anche le milizie. Questa divenne una pratica complementare al business del traffico, una sorta di polizza: il trafficante poteva vendere il migrante insolvente o ‘ribelle’ a gruppi armati dediti all’estorsione. Una potenziale perdita divenne all’improvviso un’opportunità di guadagno. Nel film di Garrone emerge molto bene l’estorsione come business parallelo a quello del traffico dei migranti. Operata dai trafficanti, dalle milizie armate o da bande criminali improvvisate, essa può avvenire durante la traversata del deserto o nei centri di detenzione per migranti irregolari. Una guida può cambiare all’improvviso i termini dell’accordo, o in un passaggio di consegne l’intermediario incaricato della tappa successiva può rifarsi di un mancato pagamento direttamente sul migrante. Anche la dinamica del rapimento da parte di uomini armati, con la successiva detenzione e il ricatto raccontata in Io Capitano è assolutamente realistica.

Dal 2017, con la maggiore capacità operativa della Guardia Costiera Libica grazie ai finanziamenti e all’addestramento fornito dai paesi europei, è aumentato il numero dei migranti irregolari intrappolati nei centri di detenzione in cui ONG e Agenzie Internazionali non hanno accesso. Le milizie armate, che hanno assunto il controllo dei centri, dispongono degli ‘ospiti’ con totale arbitrarietà, tentando di estorcergli denaro. Spesso ai familiari dei migranti rapiti vengono indicati conti o persone a cui pagare il riscatto nei propri paesi di residenza, a testimonianza della complessità e transnazionalità raggiunta dalle organizzazioni del traffico libiche (fonte). L’alternativa è essere uccisi, o venduti ai bordelli, o come manodopera agli imprenditori edili e agricoli, o ad altre bande armate le quali ritenteranno di estorcere denaro al migrante, o lo arruoleranno come combattente.

Da settore economico informale a macchina di sfruttamento

Con l’avvento del business dell’estorsione parallelamente a quello del traffico, il migrante viene di fatto mercificato: non più attore di una transazione, egli diviene oggetto di una transazione fra trafficanti, milizie armate e centri di detenzione. Nella letteratura sulle migrazioni, esiste una differenza fra migrant smuggling, ossia l’azione di intermediari che offrono al migrante essenzialmente il servizio di spostarlo da un luogo all’altro, e il trafficking, ossia il traffico di esseri umani vero e proprio, in cui lo spostamento avviene contro la volontà del migrante (Ambrosini 2005, 260). Ma la dinamica libica risulta perversa rispetto alle situazioni di trafficking più ‘classiche’, dove lo spostamento forzoso del migrante avviene con lo scopo di condurlo a una meta, dove questi verrà obbligato a svolgere un’attività specifica. In Libia, nemmeno i trafficanti, i miliziani o gli imprenditori agricoli ed edili coinvolti possono conoscere la fine del circolo di detenzione, estorsione e sfruttamento a cui è condannato il migrante.

Tra favola e realtà

Simona Cella, esperta di cinema africano ed editorialista per Nigrizia, ha contestato la presenza, a suo parere, di un’ambiguità tra un registro realistico e uno più “favolistico” (fonte) in Io Capitano. Ci sono, a mio parere, due piani su cui analizzare questa ambiguità.

Il primo è quello delle immagini e della fotografia. Le scene iconiche di Io Capitano, il passaggio nel deserto e il viaggio in mare, sono caratterizzate da un forte contrasto fra la tragicità dell’evento raccontato e la spettacolarità, la bellezza puramente estetica delle immagini utilizzate. Le inquadrature si svolgono quindi con una logica altra rispetto alla narrazione, a mio parere indebolendola.  Il secondo è quello della sceneggiatura. E in questo caso, non posso che condividere la scelta di Garrone di ibridare, al resoconto realistico, la trama di un film di formazione, o di corredare il film di elementi onirici, simboli del tentativo di Seydou di rifuggire dalle avversità attraverso la memoria, o la fantasia. In questo caso, non siamo in presenza di un’ambiguità, ma di una dialettica fra la pesantezza del reale e la leggerezza con cui l’uomo, e quindi anche l’arte, ha il diritto di approcciarvisi. Certo, il pericolo quando si tratta di fatti tragici della Storia è quello di confondere la leggerezza con l’inattendibilità (vedi Benigni e l’ingresso degli americani ad Auschwitz ne La Vita è Bella): e questo non è assolutamente il caso di Io Capitano, un film in grado di conciliare poesia e attendibilità.

A voler cercare una mancanza, sarebbe stato interessante avere una visione di Garrone anche sul rapporto delle popolazioni libiche con l’industria del traffico. Questo non si riassume solo nelle mere esigenze economiche delle popolazioni emarginate del paese. A Zuwara, località cardine per il traffico dei migranti in Libia, nel 2014 la popolazione si sollevò contro i trafficanti, rei di star conducendo un business mortifero e immorale, che stava costando la vita a centinaia di migranti siriani, recuperati sulle spiagge e in mare da decine e decine di volontari del posto (fonte) . Il quadro reale, per quanto desolante, è quindi meno apocalittico e più umano di come Garrone lo dipinge in Io Capitano. Ma, come per ogni fenomeno, esistono delle complessità che, nel tentativo di raccontare una favola, devono essere semplificate. Una semplificazione che non impedisce allo spettatore di maturare, dalla visione del film, alcune riflessioni sul presente.

Perché interrogarsi su ciò che avviene in Libia

In Italia, l’avere una consapevolezza parziale, ‘filtrata’, di ciò che succede in Libia non rappresenta di certo una novità. Un tema totalmente assente dalla coscienza nazionale, ad esempio, è il genocidio perpetrato a danno delle popolazioni libiche dalle forze d’occupazione italiane fra il 1929 e il 1934, con il fine di liberare terra per i coloni italiani (per una trattazione estesa, vedi Ahmida 2020). Il massacro catturò l’attenzione di diversi gerarchi nazisti, che visitarono la colonia fascista per osservarne il modello di pulizia e sostituzione etnica (Ahmida 2020, 10). Una maggiore consapevolezza di questa pagina buia della Storia italiana forse ci aiuterebbe a contrastare con più veemenza certi rigurgiti apologetici.

Ma a cosa serve, oggi, approfondire l’evoluzione dell’industria del traffico dei migranti in Libia?

In primo luogo, è un esercizio che ci permette di valutare il grado di influenza, o le reali intenzioni, delle scelte dei nostri governi sulle azioni di attori non così impotenti e distanti come si potrebbe pensare.

Io Capitano tratta, come abbiamo detto, di condizioni legate a un periodo storico preciso, precedente agli accordi fra Italia e milizie per il controllo dei flussi migratori. Tuttavia, come abbiamo visto,  le reti del traffico nel Mediterraneo si sono dimostrate molto flessibili nell’adattarsi ai tentativi europei di arrestare i flussi migratori. Ciò si spiega con una semplice considerazione economica: finché ci sarà domanda, qualcuno si occuperà dell’offerta. La disuguaglianza globale del diritto alla mobilità, tema centrale di Io Capitano, è un fatto di cui sono responsabili anche le politiche migratorie sempre più restrittive applicate dai paesi europei, le quali, lungi dal disincentivare i migranti, li spingono al contrario a cercare soluzioni sempre più pericolose. Nel 2022, più di 80mila persone sono partite dalle coste libiche per raggiungere l’Europa, un picco che non si vedeva dal 2017 (fonte). La visione del film di Garrone ci tiene quindi ancorati a un dramma globale ancora attuale.

Come abbiamo visto, l’approccio securitario dei paesi europei, incentrato sul rafforzamento delle forze di polizia libiche, è un’altra fonte di sofferenza e morte per i migranti bloccati in Libia. Nel 2021, a fronte di 27.551 migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera Libica, il Dipartimento per il controllo dell’immigrazione illegale censiva solo 7.000 ospiti nei propri centri di detenzione. Delle altre 20.000 persone si sono perse le tracce (Wirts & van Reisen 2023, 615–616). Una commissione indipendente dell’Onu ha dichiarato, nel 2022, come ci sia ragione di affermare che nei centri siano commessi crimini contro l’umanità (fonte). Nonostante ciò, Giorgia Meloni, nella sua visita ufficiale al Governo libico del gennaio 2023, ha promesso di fornire alla Guardia Costiera Libica cinque nuove motovedette (finanziate dall’Ue), in concomitanza con la firma di un accordo da 8 miliardi di euro fra Eni e la Compagnia nazionale petrolifera libica. Questo accordo è stato osteggiato da scioperi e da diversi ministri e uomini di governo libici, probabilmente interessati ad accedere ai proventi del settore energetico per alimentare le proprie reti di clientelismo (fonte). È lecito chiedersi se il continuo afflusso di risorse alle forze di sicurezza libiche, cioè alle milizie, con la scusa del contrasto all’emigrazione, possa essere un modo per tutelare gli interessi energetici italiani e dell’Eni.

Dall’Inferno Libico alla Fortezza Italia

Comprendere il funzionamento delle reti del traffico in Libia ci permette anche di riflettere sulle nostre politiche interne in tema di immigrazione.

L’accordo fra Italia e Albania per lo stanziamento dei migranti recuperati nel Meditarreneo Centrale è notizia di queste settimane. Secondo quest’accordo, i migranti salvati dalle Autorità Italiane nel Mediterraneo Centrale saranno condotti al porto di Seinjin, in Albania. Il porto si trova a 700 chilometri di distanza dalle coste meridionali della Sicilia, un viaggio che sottoporrebbe ad una traversata di un giorno e mezzo-due persone già in mare da diverso tempo e in condizioni di estrema vulnerabilità. Donne, bambini e persone fragili saranno invece portate in Italia. Quest’aspetto richiama la logica degli ‘sbarchi selettivi’ già impugnata dal TAR di Catania a novembre 2022. In quanto potenziale trattamento degradante, l’ulteriore viaggio verso l’Albania imposto ai migrati è invece in contrasto con la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Una volta in Albania, coloro che a un primo esame sommario dovessero dimostrare scarse possibilità di ottenere asilo in Italia, verrebbero detenuti in una struttura facente le veci di un Centro di Permanenza e Rimpatrio (CPR) (fonte). E quest’ultimo aspetto riveste una particolare gravità.

Eredi dei Centri di Permanenza Temporanei introdotti dalla legge Turco-Napolitano nel 1998, i CPR sono strutture detentive in cui vengono trattenuti i migranti irregolari intercettati sul territorio italiano e su cui pende un ordine di espulsione. Si tratta di una detenzione amministrativa, non legata ad alcun reato penale ma improntata a facilitare l’esecuzione di un atto amministrativo, in questo caso l’espulsione del migrante. Sono generalmente luoghi in cui è difficile accedere per gli esterni, e per chi volesse valutarne le condizioni all’interno. Da qualche mese, con l’attuazione del Decreto Cutro, la necessità di velocizzare la gestione delle richieste d’asilo ha indotto il governo ad utilizzare i CPR come fulcro di un nuovo sistema, in cui detenzione e accoglienza si ibridano e di cui il progetto albanese è un caso esemplare. I richiedenti asilo provenienti da paesi considerati “sicuri” verranno trattenuti durante l’esamina della loro richieste nei CPR di frontiera o nei luoghi di sbarco, e poi mobilitati tramite una serie di centri appositi nel caso in cui dovessero venire espulsi. Per coloro che volessero trascorrere in libertà il periodo di esamina della loro richiesta, il Decreto Cutro prevede una fideiussione bancaria di 4938 euro che il migrante dovrebbe consegnare al momento dello sbarco, come garanzia. Oltre ad aver dimostrato un impatto limitato sul numero di rimpatri eseguiti, i CPR presentano diverse altre criticità, evidenziate da Action Aid nel suo recente rapporto “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”. Il sistema è al momento gestito in un regime di privatizzazione de facto, in cui sono penetrate multinazionali for profit specializzate più nella gestione di strutture detentive che nell’assistenza a persone vulnerabili. In un ottica di risparmio della spesa pubblica, i servizi richiesti a queste società sono diminuiti nel tempo, creando una situazione che mina fortemente le possibilità del migrante di interagire con l’esterno e far valere i propri diritti. Al momento, per esempio, ogni detenuto nei CPR dispone di un traduttore per solo una mezz’ora alla settimana, e di un’informativa legale e di supporto psicologico per nove minuti la settimana.

Ma cosa c’è di diverso, nel concetto, fra un miliziano che nel deserto libico ti chiede migliaia di dollari per non ammazzarti, o che ti perquisisce per rubarti fino all’ultimo centesimo, e lo Stato italiano che impone di versare una fideiussione bancaria di 5.000 euro a un migrante che non voglia esser detenuto durante l’esame della sua richiesta d’asilo? O fra il senso d’impotenza che un uomo deve provare in un centro di detenzione libico, e l’isolamento a cui è costretto nei CPR, senza contatti con l’esterno? Cosa cambia, fra l’essere intercettato dalla Guardia Costiera Libica e ricondotto in un centro di detenzione, e l’essere scortato dalla Marina Militare Italiana in Albania? Le uniche differenze, a mio parere, derivano dal contesto. In un caso ci troviamo in uno Stato fallito e in cui le ambizioni di governi stranieri contribuiscono a mantenere un clima violento e predatorio; nell’altro in una democrazia occidentale che deve dare una parvenza di rispetto dei diritti umani, persino nelle sue misure più razziste e degradanti. Ma la logica e gli strumenti con cui questo Stato cerca di criminalizzare i migranti assomigliano sempre di più a quelli utilizzati dai miliziani e trafficanti libici per mercificarli, tanto più se nel sistema vengono introdotte aziende for profit più interessate, come i trafficanti, ai propri guadagni che alla cura e all’assistenza del migrante. Una convergenza che dovrebbe convincerci definitivamente circa la deriva disumanizzante delle politiche migratorie adottate dai nostri governi, di ogni colore, negli ultimi anni, e a respingere con decisione ogni tentativo di giustificarla.

Bibliografia

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