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Aprile
6 Aprile 2023

THE WHA­LE: UNA POR­NO­GRA­FIA DEL DOLO­RE TRA LE PAGI­NE DI MOBY DICK

“The Wha­le” si è fat­to atten­de­re. La sen­sa­zio­ne è sta­ta quel­la di una gesta­zio­ne arti­sti­ca. Dar­ren Aro­nof­sky ha pre­so un atto­re, Bren­dan Fra­ser, prin­ci­pal­men­te famo­so per il gene­re bloc­k­bu­ster, pro­dot­to di un’impresa cine­ma­to­gra­fi­ca vol­ta ad intrat­te­ne­re ed eva­de­re e ne ha tira­to fuo­ri le poten­zia­li­tà nasco­ste in un’opera che per mez­zo del­la pel­li­co­la si ele­va a for­ma d’arte.

La pel­li­co­la è un’esperienza pre­gna di spun­ti e rifles­sio­ni di cui ci sen­tia­mo di con­si­glia­re cal­da­men­te la visio­ne.

L’opera ruo­ta attor­no a Char­lie, un pro­fes­so­re d’inglese affet­to da obe­si­tà, copren­do gli ulti­mi set­te gior­ni di vita dell’uomo, il qua­le posto innan­zi ad una mor­te immi­nen­te a cau­sa del­la sua malat­tia, pro­va a rico­strui­re il rap­por­to con la figlia Ellie (Sadie Sink), che ave­va abban­do­na­to a otto anni dopo la sco­per­ta del­la pro­pria omo­ses­sua­li­tà per vive­re un’intensa e tra­gi­ca sto­ria d’amore con Alan. Oggi Ellie è un’adolescente in lot­ta col mon­do, con gra­vi pro­ble­mi sco­la­sti­ci e com­por­ta­men­ta­li.  L’abbandono di Char­lie si riper­cuo­te anche sul­la ex moglie Mary (Saman­tha Mor­ton), con cui man­tie­ne i con­tat­ti solo nell’interesse di Ellie. A cau­sa di un tur­bo­len­to rap­por­to madre-figlia e dell’abbandono del mari­to, la don­na vive un pro­fon­do sen­so di ina­de­gua­tez­za al pun­to da cade­re nell’alcolismo.

Il film, ambien­ta­to all’interno del clau­stro­fo­bi­co appar­ta­men­to del pro­ta­go­ni­sta e rica­ma­to attor­no all’opera di Her­man Mel­vil­le “Moby Dick”, o “The Wha­le” — tito­lo ori­gi­na­ria­men­te scel­to per la pri­ma pub­bli­ca­zio­ne del roman­zo — si sve­la con pre­po­ten­za agli occhi del­lo spet­ta­to­re, nel­la for­ma di un’idra dal­le dimen­sio­ni incal­co­la­bi­li, impos­si­bi­le da inqua­dra­re nel­la sua inte­rez­za ad una pri­ma visio­ne.

Una del­le chia­vi di let­tu­ra nasco­ste dell’opera può esse­re pro­prio l’orientamento ses­sua­le del­lo stes­so Mel­vil­le; nel film si cita­no, infat­ti, le pri­me pagi­ne del roman­zo in cui il nar­ra­to­re Ish­mael gia­ce in un let­to nuzia­le, in atte­sa che un altro uomo, il can­ni­ba­le Quee­queg, appun­to divo­ra­to­re di uomi­ni, si spo­gli e lo rag­giun­ga nel son­no. Sim­bo­li­ca­men­te pos­sia­mo inter­pre­ta­re la sce­na come la pri­ma not­te di noz­ze, che pre­ce­de il risve­glio in cui il can­ni­ba­le cin­ge con un brac­cio Ish­mael qua­si in modo amo­re­vo­le e affet­tuo­so. Non dimen­ti­chia­mo, inol­tre, alcu­ne let­te­re di Mel­vil­le stes­so che mostra­no una for­te con­no­ta­zio­ne roman­ti­ca nei con­fron­ti di altri uomi­ni, in par­ti­co­la­re quel­le indi­riz­za­te al con­tem­po­ra­neo roman­zie­re Natha­niel Haw­thor­ne, auto­re inter alia di “The Scar­let Let­ter”.

Altra chia­ve di let­tu­ra dell’opera è l’esplorazione del mon­do inte­rio­re di Char­lie, del­la sua soli­tu­di­ne e del suo dolo­re, che negli ulti­mi set­te gior­ni del­la sua vita si incan­cre­ni­sco­no innan­zi al suo dispe­ra­to ten­ta­ti­vo di ricon­giun­ge­re i rap­por­ti con i suoi cari. L’unica per­so­na a poter entra­re in que­sto mon­do inte­rio­re, sim­bo­leg­gia­to dall’appartamento clau­stro­fo­bi­co dell’uomo, è Liz (Hong Chau), sorel­la del defun­to Alan e infer­mie­ra di Char­lie. Que­sta lo riem­pie di pre­mu­re seb­be­ne sia pie­na­men­te coscien­te del tre­no auto­di­strut­ti­vo su cui Char­lie viag­gia. Suc­ces­si­va­men­te all’interno dell’appartamento entra anche Tho­mas (Ty Sim­p­kins), che si pre­sen­ta come un gio­va­ne volon­ta­rio in mis­sio­ne pres­so New Life, l’associazione cri­stia­na cui face­va par­te anche Alan; in real­tà, Tho­mas ha un vis­su­to ben più tur­bo­len­to lega­to alla tos­si­co­di­pen­den­za e ten­ta di espia­re le sue col­pe indot­tri­nan­do Char­lie.

All’esterno di que­sto intrec­cio di per­so­nag­gi, com­pa­re il fat­to­ri­no del­le piz­ze, pri­ma rap­pre­sen­ta­zio­ne di quell’istintivo biso­gno di con­tat­to uma­no, e poi degli occhi giu­di­can­ti del mon­do ester­no, spec­chio del disgu­sto e del­la pena che Char­lie pro­va per sé stes­so.

Quel­la di Char­lie è, infat­ti, una con­di­zio­ne di vuo­to esi­sten­zia­le che lo pone di fron­te al bara­tro del­lo svi­li­men­to e del­la non-per­ce­zio­ne del cor­po. Non è una sem­pli­ce disil­lu­sio­ne nei con­fron­ti di con­cet­ti come “amo­re” o “futu­ro” ma una con­di­zio­ne auto­di­strut­ti­va ben più radi­ca­le e incan­cre­ni­ta, che afflig­ge una psi­che inca­pa­ce ora­mai di con­te­ne­re o affron­ta­re la real­tà, per il dolo­re che essa com­por­ta. La visio­ne stes­sa del film può por­re uno spet­ta­to­re sano a vive­re un istin­ti­vo riget­to o per­si­no disgu­sto nei con­fron­ti del pro­ta­go­ni­sta, ma l’accettazione di que­sta inquie­tu­di­ne con­sen­te di dif­fe­ren­ziar­si e sana­men­te difen­der­si dal vor­ti­ce cui è con­fi­na­to Char­lie. Oltre­pas­sa­to que­sto ini­zia­le e grez­zo sen­ti­re si rag­giun­ge una con­sa­pe­vo­lez­za più inti­ma, pro­fon­da, che, accet­ta­ti i fat­ti — le dif­fi­col­tà fisi­che, la mor­te immi­nen­te, la sof­fe­ren­za men­ta­le — per­met­te di dare voce alla com­ples­si­tà più recon­di­ta del­la per­so­na.

Ricor­dia­mo che il film è la nar­ra­zio­ne del­la disce­sa negli infe­ri che Char­lie affron­ta negli ulti­mi gior­ni del­la sua vita, lascian­do alla nostra imma­gi­na­zio­ne la rico­stru­zio­ne del per­cor­so che l’ha con­dot­to a quel pun­to e del­la sof­fe­ren­za che ha pro­va­to ogni gior­no.

Ma non è solo Char­lie a far­si meta­fo­ra del dolo­re uma­no, anche le sce­ne del­la rab­bia di Ellie, del­la fru­stra­zio­ne di Liz (for­se il per­so­nag­gio che più silen­zio­sa­men­te sof­fre), dell’insicurezza di Mary, del sen­so di col­pa di Tho­mas con­tri­bui­sco­no ad arric­chi­re que­sto dolo­re, che divie­ne pal­pa­bi­le soprat­tut­to nei momen­ti in cui il nome del defun­to Alan sfug­ge dal­la boc­ca dei suoi cari, inca­pa­ci di ela­bo­ra­re il lut­to.

Eppu­re, in que­sta nar­ra­zio­ne pun­gen­te ci sono dei momen­ti in cui la spe­ran­za balu­gi­na, sep­pur lon­ta­na. Sono i momen­ti in cui osser­via­mo come Char­lie sia dispo­sto a com­pie­re pic­co­li gesti rivo­lu­zio­na­ri per il tipo di vita che con­du­ce allo sco­po di acco­glie­re la figlia Ellie nel­la sua quo­ti­dia­ni­tà: si lava, si fa la bar­ba, pro­va a met­ter­si in pie­di. Que­sti gesti, eroi­ci per una per­so­na depres­sa e vici­na alla fine dei pro­pri gior­ni, sono qual­co­sa di magni­fi­co, che invi­ta lo spet­ta­to­re a riflet­te­re su come la pre­sen­za di qual­cu­no a cui si vuo­le bene può spin­ge­re le per­so­ne a pren­der­si cura di sé stes­se e a fare un pas­so ver­so il benes­se­re. Tut­ta­via, il rap­por­to tra Char­lie ed Ellie è lon­ta­no dall’essere posi­ti­vo, è cari­co di un’emotività cor­rot­ta e ambi­va­len­te. Ellie riget­ta Char­lie, è inca­pa­ce di per­do­nar­lo per la feri­ta che le ha con­sa­pe­vol­men­te infer­to abban­do­nan­do­la in tene­ra età, men­tre l’uomo si appen­de dispe­ra­ta­men­te alla figlia, al suo essay su “Moby Dick” scrit­to quan­do la ragaz­zi­na ave­va solo 8 anni, ormai inca­pa­ce di tro­va­re in sé stes­so il sen­so per cui vive­re. Char­lie ama one­sta­men­te Ellie, ma ne dipen­de poi­ché ne fa la sua ragio­ne di vita: il suo ten­ta­ti­vo di sal­va­re Ellie dal bara­tro è, in ulti­ma istan­za, un ten­ta­ti­vo di sal­va­re sé stes­so.

E dun­que Ellie è un modo per Char­lie di espia­re le sue col­pe, nel bene o nel male. Char­lie ten­ta di redi­me­re il pro­prio fal­li­men­to per­so­na­le pro­van­do a tra­smet­te­re ad Ellie una dimen­sio­ne inte­rio­re più pro­fon­da, dan­do­le affet­to, lascian­do­le qual­co­sa di cui far teso­ro, ma, soprat­tut­to, lascian­do­le qual­co­sa di sé stes­so che pos­sa con­ti­nua­re a vive­re al di fuo­ri del suo cor­po mala­to dopo la mor­te.

Char­lie, per­tan­to, ricor­re alle per­so­ne attor­no a sé per dare alla sua vita quel valo­re che dopo la mor­te dell’amato Alan è inca­pa­ce di ritro­va­re altro­ve, cer­can­do una catar­si nel ten­ta­ti­vo di sal­va­re chi è anco­ra sal­va­bi­le, mostran­do­gli con l’esempio del pro­prio stes­so vis­su­to come la real­tà non vada rifug­gi­ta — come ha fat­to lui — ma vada affron­ta­ta con respon­sa­bi­li­tà e auten­ti­ci­tà.

Per­ciò lui rin­cor­re affan­no­sa­men­te le per­so­ne che lo cir­con­da­no, pro­van­do dispe­ra­ta­men­te ad aiu­ta­re gli altri, negan­do­si l’aiuto di cui ha biso­gno e, anzi, facen­do­si car­ne­fi­ce di sé stes­so, rin­chiu­so nel pro­prio appar­ta­men­to, meta­fo­ra del­la trap­po­la psi­co­ti­ca in cui si tro­va impri­gio­na­to. Fa così con Ellie, con i suoi stu­den­ti, con Liz, con Mary, con Tho­mas e vero­si­mil­men­te — in pas­sa­to — con Alan: pro­va ad aiu­tar­li, a far­gli sco­pri­re sé stes­si con la sua maieu­ti­ca, a ras­si­cu­rar­li sul­la sua con­di­zio­ne.

Que­sto atteg­gia­men­to di Char­lie è in real­tà evi­den­te soprat­tut­to dal discor­so tra lui e Mary, deli­ca­to e strug­gen­te. Un discor­so che, come una lama sot­ti­le che pene­tra sem­pre più a fon­do nel­la car­ne, rive­la il cor­to­cir­cui­to nel­la men­te di Char­lie. Mary lo attac­ca, lo feri­sce, lo umi­lia e lo fa sen­ti­re in col­pa, ma Char­lie la con­so­la e le dà con­for­to; Char­lie è, for­se, feli­ce di sop­por­ta­re il dolo­re altrui, di poter per­do­na­re i suoi inter­lo­cu­to­ri così da espia­re anche le sue auto-col­pe­vo­liz­za­zio­ni.

Se Char­lie, nel suo estre­mo sof­fri­re, si sfor­za di comu­ni­ca­re e sen­te come suo il dolo­re altrui, dall’altro lato pos­sie­de un sen­so di alie­na­zio­ne e di qua­si tota­liz­zan­te inca­pa­ci­tà di tra­smet­te­re il pro­prio dolo­re e la pro­pria espe­rien­za di vita. Come si osser­va nel dia­lo­go con Tho­mas, che fino alla fine cer­ca di impor­re cie­ca­men­te e con inge­nua arro­gan­za la sua per­so­na­le inter­pre­ta­zio­ne del mon­do e del­la vita di Char­lie, ormai spro­fon­da­to nel­la sua malat­tia. La stes­sa dina­mi­ca per­mea poi il rap­por­to tra Ellie e Tho­mas, poi­ché anche Ellie pro­va ad impor­re una solu­zio­ne for­za­ta al ragaz­zo sma­sche­ran­do­lo agli occhi del­la New Life, la comu­ni­tà cri­stia­na per cui lavo­ra­va, e del­la fami­glia. Per­do­na­to da quest’ultima, esce di sce­na alleg­ge­ri­to dai pesi che lo tur­ba­va­no, sen­za riu­sci­re a cre­sce­re come per­so­na ma sba­raz­zan­do­si ste­ril­men­te dei pro­pri sen­si di col­pa, nel­la pre­sun­zio­ne inge­nua che la sua sia la via miglio­re per con­dur­re la vita, cioè pen­tir­si del pec­ca­to. Trin­ce­ra­to die­tro alla visio­ne pro­pu­gna­ta da New Life, è l’unico per­so­nag­gio a retro­ce­de­re, a nascon­der­si die­tro ad una fede e a non guar­da­re in fac­cia la digni­tà del­le sof­fe­ren­ze di chi gli sta davan­ti. La doman­da che sor­ge in segui­to è se Ellie lo abbia fat­to per cat­ti­ve­ria, per noia o per­chè, lei stes­sa inca­pa­ce di affron­ta­re la real­tà, cer­ca di impor­la nuda e cru­da agli altri come dispet­to.

Tut­ta­via, que­sto atteg­gia­men­to di aper­tu­ra che distin­gue Char­lie dal­la figlia, in appa­ren­za sano, ha un peso sul benes­se­re psi­co­lo­gi­co dell’uomo, che fini­sce con l’affondare nel bin­ge-eating.

Quan­do la fine si avvi­ci­na, il dolo­re si mate­ria­liz­za, il fan­ta­sma di Alan, che aleg­gia in tut­to il film, pren­de cor­po nel­le paro­le del­la sorel­la Liz, Char­lie get­ta la masche­ra dell’anonimato die­tro cui si cela­va, rive­lan­do­si pie­na­men­te con­sa­pe­vo­le del­la situa­zio­ne in cui si è tro­va­to intrap­po­la­to negli anni.

La dolo­ro­sa visio­ne di “The Wha­le” non può che esse­re asso­cia­ta alla poten­za di un altro film che ha pure debut­ta­to duran­te la set­tan­ta­no­ve­si­ma edi­zio­ne del­la Bien­na­le del Cine­ma di Vene­zia: “Blon­de”. Entram­bi, sep­pur con toni ed este­ti­che dif­fe­ren­ti, ritrag­go­no una sor­ta di por­no­gra­fia del dolo­re: un’analisi minu­zio­sa del­la sof­fe­ren­za di pro­ta­go­ni­sti intrap­po­la­ti in un cor­po, un’identità che non gli appar­tie­ne e che li fa sof­fri­re.

In “The Wha­le”, come in “Blon­de”, infat­ti, tut­to è dolo­re fino alla fine, ogni sce­na, ogni inqua­dra­tu­ra dell’onnipresente cor­po di Char­lie, pesan­te come la sua sof­fe­ren­za, che deca­de e si decom­po­ne sem­pre di sce­na in sce­na; nell’immagine del cor­po mala­to e obe­so di Char­lie si rispec­chia quel­lo gio­va­ne e bel­lo di Mari­lyn Mon­roe, anch’essa schia­va del­la sua dimen­sio­ne fisi­ca, di un’avvenenza di cui vor­reb­be libe­rar­si, ma a cui non rie­sce a rinun­cia­re e che la con­du­ce ver­so il bara­tro di una mor­te pre­co­ce. Il len­to dege­ne­ra­re nel­la sof­fe­ren­za dei due pro­ta­go­ni­sti e la loro catar­si fina­le costi­tui­sco­no i pun­ti foca­li di due film che dia­lo­ga­no tra loro.

Al con­tem­po, la pel­li­co­la ricor­da un’altra ope­ra di Dar­ren Aro­nof­sky, “Black Swan”: c’è una gra­zia e una deli­ca­tez­za coa­diu­va­ta dal­la magi­stra­le regia e inter­pre­ta­zio­ne del pro­ta­go­ni­sta. “The Wha­le” coi suoi pri­mi pia­ni sugli occhi ora gon­fi di pian­to, ora cari­chi di posi­ti­vi­tà e gio­ia per la vita, tra­smet­te esat­ta­men­te come fa “Black Swan” una dan­za di emo­zio­ni che rie­sco­no a crea­re con natu­ra­lez­za un lega­me stret­to con lo spet­ta­to­re.

E quan­do il cer­chio si chiu­de, i toni di gri­gio che domi­na­no la pel­li­co­la si schiu­do­no in una luce cal­da che illu­mi­na il viso di Ellie, il film fini­sce con le stes­se bat­tu­te con cui ini­zia e, come in “Blon­de”, è catar­si, la catar­si cui Char­lie ane­la­va; final­men­te Char­lie capi­sce che non è neces­sa­ria­men­te lui a dover per­do­na­re gli altri, ma che egli stes­so è meri­te­vo­le del per­do­no altrui.

Il cine­ma dopo la visio­ne del­la pel­li­co­la pren­de un ampio respi­ro con l’opera di Aro­nof­sky, che strin­ge il cuo­re e schiac­cia gli spet­ta­to­ri sot­to il peso di un’angoscia impla­ca­bi­le, donan­do loro però un fina­le libe­ra­to­rio e la pos­si­bi­li­tà di rien­tra­re in con­tat­to con la pro­pria uma­ni­tà. Dal pal­pi­to del disgu­sto all’imprevedibilità regi­sti­ca, il film si fa guar­da­re, in una revi­sio­ne per­so­na­le dell’opera di Mel­vil­le in cui ci si chie­de se sia più libe­ra­to­rio ucci­de­re, nega­re o annul­la­re i demo­ni inte­rio­ri — la mor­te di Alan —  o ester­ni,  la sof­fe­ren­za di Ellie per un padre assen­te, oppu­re veni­re a pat­ti con la natu­ra indif­fe­ren­te del­la bale­na, a cui non impor­ta tan­to dei sen­ti­men­ti che strug­go­no il capi­ta­no ma che nono­stan­te ciò esi­ste con tut­ta la sua masto­don­ti­ca, pesan­te ed indif­fe­ren­te pre­sen­za. Usci­ti dal­la sala ci si sen­te arric­chi­ti di un’esperienza ango­scio­sa ma puri­fi­can­te. L’opera sen­si­bi­liz­za lo spet­ta­to­re al tema del males­se­re psi­co­lo­gi­co, posto ai mar­gi­ni di una socie­tà che sacri­fi­ca il valo­re di vive­re le pro­prie emo­zio­ni auten­ti­ca­men­te sull’altare di una ricer­ca osti­na­ta del­la feli­ci­tà. Aro­nof­sky ci invi­ta a riflet­te­re su come la sof­fe­ren­za vada esplo­ra­ta in quan­to par­te sacra dell’esistenza, e ci ammo­ni­sce sui rischi di sce­glie­re una via d’uscita faci­le, con­for­mi­sta ed ere­ti­ca del­la bel­lez­za dell’individualità.

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