“The Whale” si è fatto attendere. La sensazione è stata quella di una gestazione artistica. Darren Aronofsky ha preso un attore, Brendan Fraser, principalmente famoso per il genere blockbuster, prodotto di un’impresa cinematografica volta ad intrattenere ed evadere e ne ha tirato fuori le potenzialità nascoste in un’opera che per mezzo della pellicola si eleva a forma d’arte.
La pellicola è un’esperienza pregna di spunti e riflessioni di cui ci sentiamo di consigliare caldamente la visione.
L’opera ruota attorno a Charlie, un professore d’inglese affetto da obesità, coprendo gli ultimi sette giorni di vita dell’uomo, il quale posto innanzi ad una morte imminente a causa della sua malattia, prova a ricostruire il rapporto con la figlia Ellie (Sadie Sink), che aveva abbandonato a otto anni dopo la scoperta della propria omosessualità per vivere un’intensa e tragica storia d’amore con Alan. Oggi Ellie è un’adolescente in lotta col mondo, con gravi problemi scolastici e comportamentali. L’abbandono di Charlie si ripercuote anche sulla ex moglie Mary (Samantha Morton), con cui mantiene i contatti solo nell’interesse di Ellie. A causa di un turbolento rapporto madre-figlia e dell’abbandono del marito, la donna vive un profondo senso di inadeguatezza al punto da cadere nell’alcolismo.
Il film, ambientato all’interno del claustrofobico appartamento del protagonista e ricamato attorno all’opera di Herman Melville “Moby Dick”, o “The Whale” — titolo originariamente scelto per la prima pubblicazione del romanzo — si svela con prepotenza agli occhi dello spettatore, nella forma di un’idra dalle dimensioni incalcolabili, impossibile da inquadrare nella sua interezza ad una prima visione.
Una delle chiavi di lettura nascoste dell’opera può essere proprio l’orientamento sessuale dello stesso Melville; nel film si citano, infatti, le prime pagine del romanzo in cui il narratore Ishmael giace in un letto nuziale, in attesa che un altro uomo, il cannibale Queequeg, appunto divoratore di uomini, si spogli e lo raggiunga nel sonno. Simbolicamente possiamo interpretare la scena come la prima notte di nozze, che precede il risveglio in cui il cannibale cinge con un braccio Ishmael quasi in modo amorevole e affettuoso. Non dimentichiamo, inoltre, alcune lettere di Melville stesso che mostrano una forte connotazione romantica nei confronti di altri uomini, in particolare quelle indirizzate al contemporaneo romanziere Nathaniel Hawthorne, autore inter alia di “The Scarlet Letter”.
Altra chiave di lettura dell’opera è l’esplorazione del mondo interiore di Charlie, della sua solitudine e del suo dolore, che negli ultimi sette giorni della sua vita si incancreniscono innanzi al suo disperato tentativo di ricongiungere i rapporti con i suoi cari. L’unica persona a poter entrare in questo mondo interiore, simboleggiato dall’appartamento claustrofobico dell’uomo, è Liz (Hong Chau), sorella del defunto Alan e infermiera di Charlie. Questa lo riempie di premure sebbene sia pienamente cosciente del treno autodistruttivo su cui Charlie viaggia. Successivamente all’interno dell’appartamento entra anche Thomas (Ty Simpkins), che si presenta come un giovane volontario in missione presso New Life, l’associazione cristiana cui faceva parte anche Alan; in realtà, Thomas ha un vissuto ben più turbolento legato alla tossicodipendenza e tenta di espiare le sue colpe indottrinando Charlie.
All’esterno di questo intreccio di personaggi, compare il fattorino delle pizze, prima rappresentazione di quell’istintivo bisogno di contatto umano, e poi degli occhi giudicanti del mondo esterno, specchio del disgusto e della pena che Charlie prova per sé stesso.
Quella di Charlie è, infatti, una condizione di vuoto esistenziale che lo pone di fronte al baratro dello svilimento e della non-percezione del corpo. Non è una semplice disillusione nei confronti di concetti come “amore” o “futuro” ma una condizione autodistruttiva ben più radicale e incancrenita, che affligge una psiche incapace oramai di contenere o affrontare la realtà, per il dolore che essa comporta. La visione stessa del film può porre uno spettatore sano a vivere un istintivo rigetto o persino disgusto nei confronti del protagonista, ma l’accettazione di questa inquietudine consente di differenziarsi e sanamente difendersi dal vortice cui è confinato Charlie. Oltrepassato questo iniziale e grezzo sentire si raggiunge una consapevolezza più intima, profonda, che, accettati i fatti — le difficoltà fisiche, la morte imminente, la sofferenza mentale — permette di dare voce alla complessità più recondita della persona.
Ricordiamo che il film è la narrazione della discesa negli inferi che Charlie affronta negli ultimi giorni della sua vita, lasciando alla nostra immaginazione la ricostruzione del percorso che l’ha condotto a quel punto e della sofferenza che ha provato ogni giorno.
Ma non è solo Charlie a farsi metafora del dolore umano, anche le scene della rabbia di Ellie, della frustrazione di Liz (forse il personaggio che più silenziosamente soffre), dell’insicurezza di Mary, del senso di colpa di Thomas contribuiscono ad arricchire questo dolore, che diviene palpabile soprattutto nei momenti in cui il nome del defunto Alan sfugge dalla bocca dei suoi cari, incapaci di elaborare il lutto.
Eppure, in questa narrazione pungente ci sono dei momenti in cui la speranza balugina, seppur lontana. Sono i momenti in cui osserviamo come Charlie sia disposto a compiere piccoli gesti rivoluzionari per il tipo di vita che conduce allo scopo di accogliere la figlia Ellie nella sua quotidianità: si lava, si fa la barba, prova a mettersi in piedi. Questi gesti, eroici per una persona depressa e vicina alla fine dei propri giorni, sono qualcosa di magnifico, che invita lo spettatore a riflettere su come la presenza di qualcuno a cui si vuole bene può spingere le persone a prendersi cura di sé stesse e a fare un passo verso il benessere. Tuttavia, il rapporto tra Charlie ed Ellie è lontano dall’essere positivo, è carico di un’emotività corrotta e ambivalente. Ellie rigetta Charlie, è incapace di perdonarlo per la ferita che le ha consapevolmente inferto abbandonandola in tenera età, mentre l’uomo si appende disperatamente alla figlia, al suo essay su “Moby Dick” scritto quando la ragazzina aveva solo 8 anni, ormai incapace di trovare in sé stesso il senso per cui vivere. Charlie ama onestamente Ellie, ma ne dipende poiché ne fa la sua ragione di vita: il suo tentativo di salvare Ellie dal baratro è, in ultima istanza, un tentativo di salvare sé stesso.
E dunque Ellie è un modo per Charlie di espiare le sue colpe, nel bene o nel male. Charlie tenta di redimere il proprio fallimento personale provando a trasmettere ad Ellie una dimensione interiore più profonda, dandole affetto, lasciandole qualcosa di cui far tesoro, ma, soprattutto, lasciandole qualcosa di sé stesso che possa continuare a vivere al di fuori del suo corpo malato dopo la morte.
Charlie, pertanto, ricorre alle persone attorno a sé per dare alla sua vita quel valore che dopo la morte dell’amato Alan è incapace di ritrovare altrove, cercando una catarsi nel tentativo di salvare chi è ancora salvabile, mostrandogli con l’esempio del proprio stesso vissuto come la realtà non vada rifuggita — come ha fatto lui — ma vada affrontata con responsabilità e autenticità.
Perciò lui rincorre affannosamente le persone che lo circondano, provando disperatamente ad aiutare gli altri, negandosi l’aiuto di cui ha bisogno e, anzi, facendosi carnefice di sé stesso, rinchiuso nel proprio appartamento, metafora della trappola psicotica in cui si trova imprigionato. Fa così con Ellie, con i suoi studenti, con Liz, con Mary, con Thomas e verosimilmente — in passato — con Alan: prova ad aiutarli, a fargli scoprire sé stessi con la sua maieutica, a rassicurarli sulla sua condizione.
Questo atteggiamento di Charlie è in realtà evidente soprattutto dal discorso tra lui e Mary, delicato e struggente. Un discorso che, come una lama sottile che penetra sempre più a fondo nella carne, rivela il cortocircuito nella mente di Charlie. Mary lo attacca, lo ferisce, lo umilia e lo fa sentire in colpa, ma Charlie la consola e le dà conforto; Charlie è, forse, felice di sopportare il dolore altrui, di poter perdonare i suoi interlocutori così da espiare anche le sue auto-colpevolizzazioni.
Se Charlie, nel suo estremo soffrire, si sforza di comunicare e sente come suo il dolore altrui, dall’altro lato possiede un senso di alienazione e di quasi totalizzante incapacità di trasmettere il proprio dolore e la propria esperienza di vita. Come si osserva nel dialogo con Thomas, che fino alla fine cerca di imporre ciecamente e con ingenua arroganza la sua personale interpretazione del mondo e della vita di Charlie, ormai sprofondato nella sua malattia. La stessa dinamica permea poi il rapporto tra Ellie e Thomas, poiché anche Ellie prova ad imporre una soluzione forzata al ragazzo smascherandolo agli occhi della New Life, la comunità cristiana per cui lavorava, e della famiglia. Perdonato da quest’ultima, esce di scena alleggerito dai pesi che lo turbavano, senza riuscire a crescere come persona ma sbarazzandosi sterilmente dei propri sensi di colpa, nella presunzione ingenua che la sua sia la via migliore per condurre la vita, cioè pentirsi del peccato. Trincerato dietro alla visione propugnata da New Life, è l’unico personaggio a retrocedere, a nascondersi dietro ad una fede e a non guardare in faccia la dignità delle sofferenze di chi gli sta davanti. La domanda che sorge in seguito è se Ellie lo abbia fatto per cattiveria, per noia o perchè, lei stessa incapace di affrontare la realtà, cerca di imporla nuda e cruda agli altri come dispetto.
Tuttavia, questo atteggiamento di apertura che distingue Charlie dalla figlia, in apparenza sano, ha un peso sul benessere psicologico dell’uomo, che finisce con l’affondare nel binge-eating.
Quando la fine si avvicina, il dolore si materializza, il fantasma di Alan, che aleggia in tutto il film, prende corpo nelle parole della sorella Liz, Charlie getta la maschera dell’anonimato dietro cui si celava, rivelandosi pienamente consapevole della situazione in cui si è trovato intrappolato negli anni.
La dolorosa visione di “The Whale” non può che essere associata alla potenza di un altro film che ha pure debuttato durante la settantanovesima edizione della Biennale del Cinema di Venezia: “Blonde”. Entrambi, seppur con toni ed estetiche differenti, ritraggono una sorta di pornografia del dolore: un’analisi minuziosa della sofferenza di protagonisti intrappolati in un corpo, un’identità che non gli appartiene e che li fa soffrire.
In “The Whale”, come in “Blonde”, infatti, tutto è dolore fino alla fine, ogni scena, ogni inquadratura dell’onnipresente corpo di Charlie, pesante come la sua sofferenza, che decade e si decompone sempre di scena in scena; nell’immagine del corpo malato e obeso di Charlie si rispecchia quello giovane e bello di Marilyn Monroe, anch’essa schiava della sua dimensione fisica, di un’avvenenza di cui vorrebbe liberarsi, ma a cui non riesce a rinunciare e che la conduce verso il baratro di una morte precoce. Il lento degenerare nella sofferenza dei due protagonisti e la loro catarsi finale costituiscono i punti focali di due film che dialogano tra loro.
Al contempo, la pellicola ricorda un’altra opera di Darren Aronofsky, “Black Swan”: c’è una grazia e una delicatezza coadiuvata dalla magistrale regia e interpretazione del protagonista. “The Whale” coi suoi primi piani sugli occhi ora gonfi di pianto, ora carichi di positività e gioia per la vita, trasmette esattamente come fa “Black Swan” una danza di emozioni che riescono a creare con naturalezza un legame stretto con lo spettatore.
E quando il cerchio si chiude, i toni di grigio che dominano la pellicola si schiudono in una luce calda che illumina il viso di Ellie, il film finisce con le stesse battute con cui inizia e, come in “Blonde”, è catarsi, la catarsi cui Charlie anelava; finalmente Charlie capisce che non è necessariamente lui a dover perdonare gli altri, ma che egli stesso è meritevole del perdono altrui.
Il cinema dopo la visione della pellicola prende un ampio respiro con l’opera di Aronofsky, che stringe il cuore e schiaccia gli spettatori sotto il peso di un’angoscia implacabile, donando loro però un finale liberatorio e la possibilità di rientrare in contatto con la propria umanità. Dal palpito del disgusto all’imprevedibilità registica, il film si fa guardare, in una revisione personale dell’opera di Melville in cui ci si chiede se sia più liberatorio uccidere, negare o annullare i demoni interiori — la morte di Alan — o esterni, la sofferenza di Ellie per un padre assente, oppure venire a patti con la natura indifferente della balena, a cui non importa tanto dei sentimenti che struggono il capitano ma che nonostante ciò esiste con tutta la sua mastodontica, pesante ed indifferente presenza. Usciti dalla sala ci si sente arricchiti di un’esperienza angosciosa ma purificante. L’opera sensibilizza lo spettatore al tema del malessere psicologico, posto ai margini di una società che sacrifica il valore di vivere le proprie emozioni autenticamente sull’altare di una ricerca ostinata della felicità. Aronofsky ci invita a riflettere su come la sofferenza vada esplorata in quanto parte sacra dell’esistenza, e ci ammonisce sui rischi di scegliere una via d’uscita facile, conformista ed eretica della bellezza dell’individualità.