Fotografie: Gabriele Galimberti
Testo: Gea Scancarello
Più dello Yemen, del Libano, dell’Iraq. Di Paesi dilaniati da guerre civili, di popolazioni senza governi, di nazioni non più nazioni. Senza distinzioni di razza, di genere o di religione. Perché di fedi a cui affidarsi ce ne possono essere parecchie, ma la liturgia in cui si compiono è unica, e si sostanzia nei numeri: 393 a 328. Milioni. Le prime sono armi; i secondi abitanti. Proporzioni: centoventi ogni cento; poco più di una a testa. Significa, insomma, che negli Stati Uniti ci sono più pistole che persone: armi da fuoco comprate e possedute legalmente da civili; di quelle illegali, forse anche più numerose, non ci sono tracce. Al limite, se ne vedono le conseguenze, ogni volta che un pazzo si mette a sparare contro bambini, studenti, gente al cinema, ragazzi che si divertono. Ma questa è un’altra storia, di cui parleremo dopo.
Di cui sempre si parla dopo.
Dicono le statistiche che complessivamente, nel mondo, alla fine del 2017, c’erano 857 milioni di armi in mano a cittadini per scopi non militari: e se poco meno della metà sono concentrate negli Stati Uniti d’America non è un caso e neppure una questione di solo mercato. Piuttosto, di tradizione: di garanzia costituzionale.
È la storia del secondo emendamento, ratificato nel 1791, tre anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione americana. «Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia ben organizzata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non può essere infranto», recita il testo.
Sull’interpretazione da darne si scontrano da decenni insigni giuristi e attivisti, politici e sognatori, élite urbane e classe media; ma la genesi e la successiva storia dell’articolo sono invece molto chiare, così come le valutazioni dei magistrati periodicamente chiamati a esprimere pareri.
Si pensava, nel 1791, che consentire ai cittadini di armarsi potesse essere il modo per organizzarli rapidamente in milizie nel caso di attacchi da parte di forze straniere: il timore era che la ex madrepatria, la Gran Bretagna, provasse a riprendersi i territori perduti. Tuttavia, una volta che gli sforzi richiesti nella Guerra d’Indipendenza ebbero dimostrato che i cittadini non sarebbero stati sufficienti a proteggere la nazione, e assodato che il nuovo governo federale avrebbe dovuto necessariamente creare e gestire un esercito oltre a eventuali milizie, si radicò negli abitanti dei territori freschi d’indipendenza la paura che quello stesso governo federale potesse, un giorno, prevaricare loro; addirittura opprimerli. Erano i primi vagiti dell’ideale di libertà su cui si fonda l’intera narrazione americana: possibilità infinite, pochi vincoli, autodeterminazione. Garantiti dalle armi. Il secondo emendamento nacque per dirimere lo scontro tra questi cittadini sospettosi della nuova autorità costituita e gli entusiasti del governo federale, facendo il gioco di entrambi gli schieramenti: la Costituzione cui fa riferimento il testo garantiva infatti il potere sull’esercito al governo centrale, mentre l’emendamento garantiva il diritto ad armarsi dei cittadini. In altre parole: una soluzione per fare tutti contenti senza prendere una decisione definitiva sulla questione.
E se nei secoli e decenni trascorsi da allora l’esercito americano è diventato il più potente al mondo, e l’idea di invasori da combattere con milizie auto-organizzate si è fatta evanescente (quantomeno negli Stati Uniti), il secondo emendamento, carico delle sue implicazioni politiche e sociali, è rimasto un caposaldo della vita americana. «Penso che i revolver siano la quintessenza di questo Paese», ci ha detto durante le chiacchierate fatte per questo libro Stephen F. Wagner, sessantaseienne istruttore di tiro della Pennsylvania. E i tribunali gli danno ragione.
Nel 2008, in un caso divenuto celebre (District of Columbia Vs. Heller) la Corte costituzionale rovesciò una legge federale che proibiva ai cittadini di possedere pistole nella capitale, Washington D.C.; due anni dopo, la Corte si espresse in maniera analoga contro un simile divieto imposto però dallo Stato dell’Illinois (McDonald Vs. City of Chicago, 2010).
Il legame tra gli americani e le armi, un legame viscerale e intriso di ardore, aspirazioni e appartenenza, continua insomma a essere protetto. Anche se negli anni è cambiato, si è allargato, rafforzato e arricchito: si è fatto mercato, lavoro ed economia mentre si vestiva di nuovi ideali, tensioni e passioni. E delle loro contraddizioni.
Emergono — debordano — anch’esse nei numeri: 135 e 38. Mila. La dinamicità del business e le sue conseguenze. Centotrentacinquemila sono, approssimativamente, i negozi che hanno una licenza per poter vendere armi nel Paese: dieci volte più dei McDonald’s, simbolo globale e globalizzato dell’America e delle sue abitudini di consumo; 38.658 sono invece, negli Stati Uniti, le vittime di un proiettile ogni anno: più di cento al giorno, il 15% dei decessi mondiali per armi da fuoco in scenari non di guerra. Soltanto il Guatemala, il Venezuela, la Colombia e il Messico fanno peggio, e non c’è bisogno di sottolineare le differenze socio-economiche medie tra i due blocchi. Nessun’altra nazione del cosiddetto primo mondo, e men che meno del G8, entra nelle statistiche, così come nessuna ha leggi sulla vendita di pistole ugualmente dibattute e contestate, nonché controlli anche più controversi.
La questione riaffiora come un fiume carsico dopo ogni sparatoria di massa e ogni esibizione di lacrime obbligatoriamente associata, dopo ogni marcia e ogni polemica. Ne parlano progressisti e conservatori, favorevoli e contrari, credenti e laici, media e cittadini. Ma ne parlano per parlarne, forse più che per cambiare. L’ultimo tentativo serio di intervenire sulle norme che regolano il possesso di armi venne fatto dal presidente Barack Obama nel 2016, dopo le stragi nella scuola elementare Sandy Hook e in una discoteca di Orlando, che causarono rispettivamente 27 e 49 vittime: i buoni propositi affondarono nell’inerzia del Congresso, foraggiato dalla lobby delle armi. E nella paura delle ricadute elettorali.
Dunque serve sì la maggiore età per comprare un’arma in America — 18 anni per pistole e fucili; 21 per altri tipi di armi, e la distinzione già racchiude un mondo di possibilità che spesso sfugge al senso comune — ed è necessario sottoporsi a verifiche governative: l’FBI controlla per esempio che il potenziale acquirente non abbia gravi problemi mentali, che non abbia precedenti penali incompatibili col possesso di armi come la violenza domestica, che non sia stato in galera per più di un anno, che non sia un latitante e che non sia un immigrato irregolare. Ma i controlli non si fanno tra privati, tra coloro che acquistano sui fornitissimi scaffali di Internet, o che si incontrano alle fiere di armi diffuse in tutti gli Stati, in tutte le stagioni. E se già questo aumenta a dismisura i rischi che chi non dovrebbe riesca a possedere un’arma, le possibilità si fanno molto più concrete nel caso in cui l’FBI non ultimi le verifiche entro tre giorni, il tempo massimo per l’evasione della pratica: una volta trascorsi, l’acquirente ha il diritto di avere comunque la propria pistola. Quello che succede dopo, spesso, finisce nelle pagine di cronaca: nel 2015 fu per esempio un uomo che non avrebbe passato i controlli, se solo li avessero ultimati in tempo, ad aprire il fuoco su un gruppo di persone di colore dentro a una chiesa, a Charleston, in South Carolina, nove i morti.
Eppure, va detto, non sono queste vittime a gonfiare i numeri della violenza per armi da fuoco in America. Le sparatorie di massa fanno notizia, spesso indignano, talvolta angosciano — sempre meno intensamente e meno a lungo: ci si abitua a tutto — ma, statisticamente, non sono rilevanti. Due terzi dei decessi per armi da fuoco, in media, sono suicidi; “appena” un terzo sono omicidi, di cui pochissimi per stragi. Tra i 38.658 morti del 2016, le persone che si sono tolte la vita erano 22.938; quelle ammazzate da altri 14.415, di cui “solo” 71 in sparatorie di massa. Poco più di 1.300, infine, gli incidenti domestici.
È una contabilità fredda e spietata, ma non sterile: dice della nazione forse qualcosa di più profondo dei titoli strillati sui giornali. «Il vero problema di questo Paese è la depressione. E un’arma non è certo l’unico modo per uccidersi», ci ha raccontato Robert Baldwin Jr., collezionista di pistole e pilota professionista, quando lo abbiamo incontrato a casa sua, in Nevada.
Come moltissimi altri cittadini che hanno acquistato legalmente le proprie armi, le cui immagini e storie troverete nelle prossime pagine, Robert Baldwin Jr tiene il punto. Rifiuta di farsi accomunare coi molti che hanno ammassato arsenali piccoli e grandi acquistandoli in modo illegale, che nessuno può controllare. Ribadisce che non servono altre leggi, bensì un’applicazione migliore di quelle esistenti. E riafferma il principio sacro del secondo emendamento, un diritto costituzionale che non è più unicamente quello dell’autodifesa ma una più ampia garanzia del proprio stile di vita, delle proprie passioni, persino delle tradizioni di famiglia.
È proprio la nuova linfa del secondo emendamento che raccontiamo in questo volume, il filo conduttore di immagini e testi raggruppati in quattro categorie di valori: la libertà, la famiglia, le passioni e proprio lo stile di vita, inteso come diritto all’esibizionismo, alla moda, all’acquisto compulsivo, alla bellezza, anche attraverso le armi, che in nessun luogo come in America sono un prodotto di consumo come tutti gli altri. Sono i principi, gli ideali, le aspirazioni, le abitudini e le convinzioni che raccontano cosa cementa il legame di molti degli abitanti degli Stati Uniti con le loro pistole: non tutti, ma una maggioranza che non ha paragoni nel mondo. E che, contrariamente alle convinzioni diffuse, è distribuita sull’intero territorio nazionale e in ogni strato sociale, in ogni appartenenza etnica e culturale. Non esiste una dicotomia tra città e campagna, ricchi e poveri, intellettuali e manovali: l’ambizione ultima di ogni cittadino americano è la libertà: libertà di essere, fare, avere e libertà da governi, pressioni, intrusioni. Il mezzo per garantirla sono i proiettili, anche quando non vengono usati.
Lo dimostrano le persone immortalate nelle prossime pagine, che includono eredi di famiglie benestanti e ingegneri della Silicon Valley, camionisti del profondo Sud e indiani Navajo; uomini e donne, adolescenti e pensionati, democratici e repubblicani, iscritti alla National Rifle Association (NRA, la potentissima lobby delle armi) e critici feroci della stessa, equamente rappresentati nel nostro campione.
Hanno acconsentito a posare, a raccontare e a condividere pezzi del loro mondo, intenzionati a dimostrare una volta per tutte che non sono loro quelli da guardare con sospetto: «L’unica cosa che ferma un cattivo con una pistola è un buono con la pistola», ci ha detto e ridetto Floyd McMillin in Kansas, facendosi portavoce di una convinzione diffusa. Nonché di una certezza spesso ereditata dai genitori e dai nonni, frequentemente insieme a una collezione piccola o grande di armi, quasi una dote d’altri tempi: un pezzo della propria storia, da conservare e tramandare, insieme ai ricordi di quando si è sparato insieme al proprio padre per la prima volta, o delle battute di caccia in famiglia. È una questione di valori, appunto: per questo la famiglia è uno dei cardini del nostro libro.
C’è poi la passione, che diventa collezionismo o sport, intrattenimento o investimento economico, che si fonde con il mito della natura e della frontiera e con quello di una storia di conquiste, vittorie, celebrazioni. Esiste una parola, negli Stati Uniti, per raccontare tutto questo ed è “Americana”; l’ha scelta Will Renke, trentacinquenne imprenditore del South Carolina, per parlarci del suo legame con le armi: «Sparare è stata un’esperienza stupefacente: sapevo che nell’oggetto che avevo in mano c’erano tanto rispetto e tanto coinvolgimento, sapevo di essere parte dell’Americana».
Sono così convinti e così orgogliosi della loro passione, i cittadini che vedrete in queste pagine, da sfidare la censura preventiva e la disapprovazione digitale, mettendo in mostra le proprie armi laddove oggi tutto si mostra: sui social network. Si tratta di una novità, anche metodologica, di questa ricerca.
I soggetti ritratti, dalle Hawaii a New York, sono stati contattati per lo più attraverso Instagram, Facebook e YouTube, su cui hanno pagine personali in cui raccontano la propria routine con fucili e pistole o dove addirittura hanno canali dedicati a esibire le armi, a insegnare a utilizzarle o anche a promuoverle. In modo disinteressato e non: c’è chi esibisce il proprio stile di vita per rivendicarlo, affiancando allenamenti in palestra e sessioni al poligono, borsette e revolver, auto da corsa e kalashnikov, e c’è chi è stato intercettato dalle industrie produttrici di armi per diventare un influencer, così come ne esistono ormai per ogni prodotto, dai libri agli abiti.
I social network sono la frontiera su cui si è spostata la possibilità non solo di fare pubblicità — proibita sui media tradizionali per le armi da fuoco — ma anche di intervenire sull’immaginario collettivo, di creare mode e modelli, di assimilare nel concetto di trendy e desiderabile anche oggetti ritenuti tradizionalmente freddi come le armi. E persino di creare un nuovo femminismo delle pari opportunità, a suon di proiettili: uno strumento di difesa che, secondo le proponenti, rende infine le donne più libere e meno dipendenti dagli uomini, anche per la propria difesa. È una delle declinazioni dell’idea di libertà in cui oggi si compie la celebrazione del secondo emendamento, accanto al diritto alla proprietà privata, alla riservatezza, alla non ingerenza dello Stato e dunque, in certa misura, all’autodeterminazione del proprio destino.
Che il neofemminismo delle armi sia marketing delle intenzioni o realtà, condivide con gli altri valori cardine l’importanza della vetrina digitale in cui viene esibito. Ed è per questo che abbiamo scelto di affiancare ai ritratti fatti da Gabriele Galimberti le immagini pubblicate spontaneamente dai soggetti sui propri account: momenti del loro quotidiano che raccontano l’imprescindibilità delle armi, il legame con la storia famigliare, le abitudini, i divertimenti, le aspirazioni. In altre parole, la loro identità.
«Non ho un’arma preferita: per me sono come figli, non puoi preferirne uno», ha risposto a una delle nostre domande Mia Farinelli, una quindicenne della Virginia che ancora non ha figli e nemmeno l’età legale per girare armata. Spara per sport, una passione che le ha trasmesso il padre, dopo averle messo in mano il primo fucile a sette anni. Era il fucile di uno zio e aveva un nomignolo, The Cricket, proprio come un qualsiasi membro della famiglia: lo spaccato perfetto di cosa rappresenti, oggi, il diritto costituzionale del secondo emendamento.