Sono passati cento anni da quel giorno, eppure sembra molto vicino. Cosa sono cento anni nella storia dell’umanità?
Il 30 ottobre 1922, successivamente alla Marcia su Roma, il Re Vittorio Emanuele III conferì a Benito Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo di coalizione. La Marcia iniziò il 26 ottobre, con Perugia come quartier generale dell’iniziativa. Da qui iniziò la manifestazione armata eversiva più importante del nostro Paese. Il giorno seguente circa ventimila camicie nere si diressero verso la capitale. Alle 6 del mattino del 28 ottobre, il governo del liberale Luigi Facta dichiarò lo stato di assedio che non venne accolto dal Re, il quale invece convocò Mussolini a Roma per il conferimento dell’incarico.
Iniziò così il ventennio più nero della storia dell’Italia unita. Nelle settimane successive ci fu il voto per la fiducia alla Camera dei deputati (17 novembre) e al Senato del Regno (29 novembre), che vide una netta presa di posizione pro-fascismo in entrambe le camere, anche se alla Camera ci furono ben 116 contrari, non bastarono a evitare la nomina a Primo Ministro di Mussolini. Votarono la fiducia al futuro Duce anche importanti esponenti del dopoguerra, come Alcide De Gasperi e Giovanni Gronchi.
Perugia. Fascisti attorno all’Hotel Brufani
Sempre nel novembre del 1922 Mussolini pronunciò il famoso discorso del bivacco, di seguito un passaggio che mostra chiaramente quali sarebbero state le successive mosse del Partito Nazionale Fascista: «Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
Fu infatti negli anni successivi che la dittatura iniziò a prendere forma, a partire dalle elezioni del 6 aprile 1924. La campagna elettorale fu segnata da un clima di intimidazione e da ripetute violenze da parte dei sostenitori del Partito Nazionale Fascista, denunciate nella seduta parlamentare del 30 maggio dal segretario socialista Giacomo Matteotti Egli fu rapinato e assassinato il 10 giugno 1924. Secondo le testimonianze stava passeggiando sul lungo Tevere alle 16:15 circa, dirigendosi verso Montecitorio. In quel momento, una macchina lo avvicinò e due individui lo stordirono colpendolo al volto, Matteotti venne portato via ed ucciso. Il magistrato Mauro del Giudice, a seguito delle indagini, individuò nello squadrista Amerigo Dumini l’assassino. Da quel momento chi portava una rosa rossa sulla sua tomba veniva schedato, i carabinieri a cavallo spersero la folla nel giorno della sua commemorazione. Il 27 giugno 1924 circa 130 deputati d’opposizione si riunirono nella sala della Lupa di Montecitorio, oggi nota anche come sala dell’Aventino, decidendo comunemente di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito la propria posizione a proposito della scomparsa di Giacomo Matteotti. Passata alla storia come la Secessione dell’Aventino, l’iniziativa non servì né a convincere il Re a sollevare Mussolini dall’incarico né a far rendere conto all’opinione pubblica della deriva autoritaria verso cui il paese si stava avviando.
La dittatura fascista prese forma e si consolidò tra il 1925 e il 1926 con l’adozione delle leggi fascistissime che prevedevano l’abolizione delle forze politiche di opposizione, della libertà di stampa e del diritto di sciopero, oltre a rendere il Gran Consiglio del Fascismo la suprema autorità costituzionale del Regno d’Italia. Queste leggi furono completate nel 1928 con una modifica della legge elettorale per la Camera dei deputati che prevedeva una lista unica nazionale di 409 candidati scelti dal Gran Consiglio del fascismo da sottoporre agli elettori per l’approvazione in blocco.
Dal delitto Matteotti in poi si completò il progetto autoritario di Mussolini, basato soprattutto sulla retorica del grande Impero Romano, culla della grandezza dell’Italia che, a parer suo, meritava un maestoso ed esteso impero che venne proclamato il 9 maggio 1936 dopo la vittoriosa guerra d’Etiopia. In tanti cercarono di opporsi al regime, numerosi furono mandati al confino, altri vennero uccisi, come i fratelli Carlo e Nello Rosselli o come Antonio Gramsci. Ci fu anche chi provò ad attentare alla vita di Benito Mussolini, come Tito Zaniboni, deputato del Partito Socialista Unitario, che nelle prime ore del mattino del 4 novembre 1925 affittò una camera d’albergo davanti a Palazzo Chigi dalla quale avrebbe voluto sparare al Duce che si sarebbe affacciato al balcone poche ore dopo. Egli fu fermato da un gruppo di investigatori che irruppero nella camera. Poi fu la volta di Violet Gibson, che il 7 aprile 1926 sparò un colpo di pistola verso Mussolini ferendolo al naso; un altro attentatore fu Gino Lucetti che il 26 settembre dello stesso anno lanciò un ordigno esplosivo contro l’auto del Primo Ministro, uscito illeso da entrambe le circostanze.
Nello stesso anno ci fu un altro attentato alla vita di Mussolini: il 31 ottobre, quarto anniversario della sua nomina a Primo Ministro, Mussolini si trovava a Bologna per l’inaugurazione dello Stadio Littoriale. Alla fine delle celebrazioni, il duce si diresse verso la stazione a bordo di un’automobile scoperta, guidata da Leandro Arpinati. Alle 17:40 il corteo aveva raggiunto l’angolo tra via Rizzoli e via dell’Indipendenza. Anteo Zamboni, fattorino di professione nella tipografia del padre, si trovava in questa via, appostato tra la folla sotto il primo portico, e mentre l’automobile rallentava per svoltare, sparò contro Mussolini, mancandolo. Il tenente Pasolini (padre di Pier Paolo) distinse l’attentatore, gli afferrò il braccio, aiutato dal pattugliante Giovanni Vallisi, privandolo della rivoltella. La scorta di Mussolini si avventò sul ragazzo trascinandolo dall’altro lato della strada, davanti al Bar Centrale. L’automobile di Mussolini ripartì per la stazione. Il presunto attentatore, colpito a gragnola dai pugnali, fu scaraventato dall’altra parte di Via Ugo Bassi, ai piedi di Palazzo d’Accursio, dove si accasciò. Sono le 18:30 quando il corpo fu portato in una stanza della vicina stazione di Polizia, successivamente all’obitorio in Certosa, dove ore dopo venne riconosciuto dal padre.
Anteo Zamboni
«Se tu vedessi, babbo, che faccia da delinquente ha Mussolini» confidò il sedicenne Anteo Zamboni al padre Mammolo, tipografo bolognese d’idee antifasciste: «Sì, Anteo volle attentare a Mussolini. E noi non ne sapemmo nulla, perché egli seppe non farci sospettare, seppe non farci sapere», scrisse Mammolo Zamboni, padre di Anteo. Egli era un ex anarchico convertitosi al fascismo per ragioni economiche, ciò nonostante, le indagini sull’attentato conversero sulla sua figura, dal momento che Anteo aveva solo 16 anni, ritenuto troppo giovane e inesperto per architettare un piano del genere.
Infatti, furono molti i sospettati mandanti dell’attentato, tra cui alcuni esponenti del fascismo, come Roberto Farinacci che fu segretario del Partito Nazionale Fascista. Egli venne accusato di essere tra i mandanti, ipotesi mai confermata, ma che tuttavia ha avuto molti sostenitori. Nonostante le numerose indagini sull’accaduto non è mai sorta una verità certificata, ci sono state una serie di accuse che non hanno mai trovato un responso certo. Successivamente all’attentato ci fu un ulteriore inasprimento della dittatura, che già stava seguendo la direzione del totalitarismo.
I tentativi di attentare alla vita del Duce non cessarono, ce ne furono altri che però non vennero mai portati a compimento, restarono solo un’idea che non fu possibile applicare. Michele Schirru, anarchico sardo, nel gennaio del 31’ si trovava a Parigi come molti esuli antifascisti, rientrò in Italia progettando di uccidere Mussolini. Alloggiò all’Hotel Royal, luogo strategico per seguire gli abituali itinerari del Duce, ma non riuscì a mettere in atto il suo piano prima di essere fermato dalla polizia, trovato in possesso di un’arma da fuoco e condannato a morte dal Tribunale Speciale Fascista per aver avuto l’intenzione di uccidere Mussolini. Lo stesso destino fu riservato a Angelo Pellegrino Sbardellotto, presente nella lista degli antifascisti più pericoli redatta dal Partito Fascista. Esule in Belgio e poi a Parigi, tornò in Italia il 25 ottobre 1931, con le stesse intenzioni di Schirru. Ma pur avendo tentato di avvicinarsi a Mussolini l’impresa si rivelò impossibile e decise di ritornare in Francia. Egli tentò nuovamente di uccidere il capo del fascismo nel maggio del 32’, fermato da un agente di polizia in Piazza Venezia, venne trovato in possesso di una pistola e un ordigno che gli costarono la stessa pena di Schirru: condanna del Tribunale Speciale e fucilazione nel giugno dello stesso anno.
Tra il 1925 e il 1926 ci furono quattro attentati da Benito Mussolini, nessuno degli attentatori riuscì nel suo scopo, piuttosto essi quasi “aiutarono” a stringere il controllo dello Stato sui cittadini e dettero una svolta in senso autoritario. Egli ne uscì fortificato. I tentativi successivi non furono mai compiuti da Michele Schirru e Angelo Sbardellotto che nonostante le loro chiari intenzioni non riuscirono a portare a conseguire il loro obiettivo. Nel proseguo degli anni 30’ il consenso al regime raggiunse il suo apice, non ci furono più attentati verso il Duce che condusse il paese indisturbato fino al 25 luglio del 43’ quando venne deposto dal Gran Consiglio del Fascismo.