Le allodole sono uccelli di piccola taglia dal canto piacevole e sottile e sono animati da uno spiccato senso della curiosità, per questo vengono attirate con semplici giochi di luce che i cacciatori usano da sempre per ucciderle. Si utilizzano strumenti che ruotano sulla cui sommità vengono installati piccoli specchi riflettenti che, nell’atto di roteare, producono riflessi veloci e irregolari della luce solare. I famosi “specchietti per le allodole” non sono altro che un inganno utile ad attirare l’attenzione di questi uccelli per indurli in trappola. Da qui l’espressione, ormai abusata ma comprensibile a tutti, che ci aiuta a descrivere una situazione nella quale, ad esempio, si viene ingannati facendoci puntare l’attenzione su qualcosa di poca importanza, per nasconderci qualcosa che meritava invece il nostro pieno interesse.
È un po’ quello che sta avvenendo oggi sulla dibattutissima questione del “salario minimo”. Tengo a precisare che sono d’accordo sul fatto che i salari non debbano essere al di sotto di una soglia di buon senso e di dignità per tutti i lavoratori e le lavoratrici, per tutte le mansioni e professioni, comprese quelle autonome e artistiche. Per cui, in sintesi, posso dirmi d’accordo sulla battaglia per stabilire un minimo salariale al di sotto del quale nessuno potrebbe o dovrebbe andare.
In Italia siamo bravi a complicarci la vita e lo facciamo da sempre. Tra le materie più ostiche, non solo dal punto di vista accademico, vi è quella del mercato del lavoro dove, per mezzo di un incastro delicatissimo, si devono mettere assieme bisogni della parte lavoratrice e quelli della parte datoriale. Basta addentrarsi nell’oscura materia del cosiddetto “cuneo fiscale”, ovvero la differenza tra il costo totale sostenuto dal datore di lavoro per pagare uno stipendio e l’effettiva cifra che si mette in tasca il lavoratore, per comprendere quanto sia difficile trovare il bandolo della matassa. Ma non è difficile comprendere che anche il cuneo fiscale incide sull’occupazione, perché è direttamente collegato al costo del lavoro. Dunque, qui entra in gioco il salario minimo che ci pone davanti ad una domanda banale ma allo stesso tempo importante: il salario minimo può influenzare negativamente l’occupazione? Qualcuno sostiene di sì e altri sostengono il contrario. Per via della premessa sul cuneo fiscale, se si decidesse di alzare l’asticella del salario minimo, potrebbe essere logico pensare che un’impresa in difficoltà – per una moltitudine di variabili negative assai frequenti in Italia, dove il 97% delle imprese sono micro-realtà e non potenti multinazionali – si trovi costretta a licenziare una parte della forza lavoro che adesso le viene a costare un po’ di più.
Il che ci porta a sostenere che l’aumento dei salari influisce negativamente su quelle imprese che loro malgrado devono decidere di tagliare la forza lavoro per i costi aumentati, migliorando in parte le condizioni di vita delle persone assunte poiché viene loro riconosciuto un salario leggermente maggiorato e producendo però un’uscita anticipata dal mondo del lavoro di una parte più o meno significativa della manodopera. Per la peculiarità italiana, possiamo anche immaginare che una parte dei contratti che prima erano “in chiaro” si trasformino in “contratti pirata” (o in nero), al fine di un possibile risparmio dato dall’eventuale evasione contributiva da parte dell’impresa. Ma in fin dei conti, numeri alla mano, quale terremoto potrebbe provocare l’adozione di un salario minimo maggiore? La Banca Mondiale dichiara che «l’impatto complessivo delle riforme EPL (legislazione sulla tutela del lavoro) e del salario minimo è inferiore a quanto suggerirebbe l’intensità del dibattito. La maggior parte delle stime degli impatti sui livelli di occupazione tendono a essere insignificanti o modeste». (1)
In poche parole, il salario minimo non gioca un ruolo fondamentale sul sistema. È per questo che il salario minimo è così dibattuto, perché di fatto non sposta l’attenzione sul quadro sistemico generale, quello che in ultima analisi influisce realmente sulle diseguaglianze. Sono semmai le politiche di “flessibilizzazione” del lavoro che hanno comportato perdite devastanti dei diritti dei lavoratori, accanto al fatto che assumere in Italia costa sempre di più alle micro-imprese. La discussione politica sul salario minimo dovrebbe essere spostata quantomeno sul salario medio italiano, tra i più bassi d’Europa, nonché sulle condizioni di precarietà alle quali sono sottoposte intere generazioni di lavoratori e lavoratrici.
Vogliamo istituire un salario minimo più alto? Direi che è sacrosanto. Vogliamo valutare gli impatti che esso potrà avere sul mercato del lavoro? Se ascoltiamo la Banca Mondiale allora non avremmo di che preoccuparci, ma siccome il nostro sistema del mercato del lavoro è quantomeno “particolare”, allora si potrebbe valutare l’impatto del salario minimo, come ha proposto Andrea Garnero, «non partendo con una norma generale, ma sperimentando un salario minimo per legge o griglie salariali basate sui contratti collettivi in un numero limitato di settori, caratterizzati da maggiore criticità, per poterne valutare adeguatamente gli impatti economici e quelli sul sistema di relazioni industriali» (2). Mi sembra però che stiamo eludendo i veri problemi, le vere grandi questioni che dovrebbero impegnare tutto il dibattito pubblico, ovvero quelle delle diseguaglianze, della precarietà e della felicità delle classi lavoratrici.
La precarietà, che è a tutti gli effetti paradigma di buona parte del mercato del lavoro italiano (e non solo), incide sicuramente sugli effetti di un possibile aumento del salario minimo, perché in Italia la platea di persone passibili di “licenziamento facile” è la più numerosa, visti i dati dell’OCSE nel rapporto Strictness of employment protection: dove si evince che un lavoratore italiano è più licenziabile di un lavoratore tedesco, polacco o ungherese (3). Se il salario minimo aumenta, è probabile che una parte di tutta quella fascia di persone, che si trovano ai margini del mondo del lavoro (giovani, donne, precari ecc.) e che solitamente vivono di contratti precari, vedano la perdita pressoché immediata della propria occupazione. Ma se la precarietà gioca un ruolo decisivo, allora è qui che dovremmo puntare la nostra attenzione ed è qui (e non solo) che giocano i grandi.
La precarietà è uno degli elementi principali che dovremmo considerare per arrivare al nocciolo della questione. La precarietà fa male alla salute mentale e il lavoro, soprattutto da parte delle nuove generazioni, viene inteso ormai solo come strumento di mera sopravvivenza e nient’altro, in una dimensione che rende l’individuo estraneo dalla società. Con tutto ciò che ne consegue in partecipazione attiva alla vita politica del Paese. La precarietà non è una condizione recente e non è una condizione solo italiana. Era molto diffusa almeno per i primi settant’anni dello sviluppo industriale dalla metà dell’Ottocento, dove gli individui si occupavano di diverse attività lavorative simultaneamente, per assicurarsi la sussistenza qualora l’attività principale fosse venuta meno. Solo dopo il secondo dopo-guerra, nella metà del secolo scorso, sempre più crescenti fette della manodopera si stabilizzarono in luoghi di lavoro per molto tempo, spesso per tutta la vita, anche sulla spinta delle scelte keynesiane da parte dei governi, che introducevano l’occupazione a tempo indeterminato dei lavoratori come l’elemento fondamentale delle politiche economiche del tempo. Non per niente gli “Uffici della Massima Occupazione”, istituiti dal Ministro Fanfani nel 1948, avevano preso questo nome che oggi potremmo leggere solamente nella didascalia di una vignetta satirica. Questo modello è entrato in crisi dagli anni Settanta, fino ad arrivare alla sostituzione della “lotta alla disoccupazione” con la “lotta all’inflazione” con tutte le conseguenze economico-sociali che sono emerse, dalla riduzione delle politiche di welfare alle riforme del lavoro che hanno spinto nuovamente verso la precarietà intere masse di lavoratori e lavoratrici. Che dite? Possiamo affermare che il mondo del lavoro ha fatto un salto indietro di cento anni?
Se sul piano nazionale assistiamo allo scivolamento verso il passato di un centinaio di anni, sul piano sovra-nazionale assistiamo ad un salto indietro molto più grande, con il ritorno di nuovi sistemi di schiavitù vera e propria, soprattutto in quei Paesi che qualcuno ama definire “in via di sviluppo” — se per “sviluppo” intendiamo il mondo precario e disordinato, fatto di diseguaglianza e sfruttamento, che tanto accettano sia le destre che le sinistre del politically correct occidentali. Così, con le politiche economiche nazionali di precarizzazione preventiva abbiamo per di più assistito (e assistiamo) a delocalizzazioni di alcune imprese italiane che preferiscono spostare la produzione in Paesi “lontani”, al cui interno coesistono politiche del diritto del lavoro e della salvaguardia dell’ambiente meno stringenti o pressoché inesistenti. Così nel frattempo l’Italia perde quantità e qualità di lavoro, alimentando disparità e concorrenza non solo tra lavoratori interni al sistema-Paese ma anche tra lavoratori di Paesi diversi. Solo tra i Paesi europei, l’Italia si ritrova con il 14% circa di occupati in meno rispetto alla media comunitaria, che peraltro ricevono un salario considerevolmente più basso dei rispettivi colleghi europei. Secondo l’Eurostat, nel 2021 gli stipendi medi in Europa hanno raggiunto i 33.511 euro: 3.560 euro in più di quelli che guadagna un dipendente italiano. Mi viene da pensare che il problema sia molto più grande e che il discorso vada allargato al “mondo del lavoro italiano” in generale, senza accontentarci di parlare di salario minimo che, sì è necessario, ma non cambia gli ingranaggi della macchina.
Vorrei fare una precisazione. Parlare oggi di sistemi nazionali sembra un po’ come non guardare alla realtà e ai nuovi sistemi di potere globali che guidano le scelte del mondo intero (colossi multinazionali che riescono ad influenzare le decisioni dei governi nazionali e sovra-nazionali), ma credo che concentrarci sul sistema-Paese, non solo sia più semplice, ma sia condizione per comprendere che la parola “glocale” ha la sua effettiva validità ancora oggi.
Non solo la globalizzazione, e con essa le nuove frontiere della politica e dell’economia transazionali e cosmopolitiche, ma anche le recenti frontiere dell’innovazione tecnologica contribuiscono all’impoverimento del lavoro come “luogo e tempo” della collettività. La tecnologia, più precisamente la robotizzazione e l’informatizzazione dei processi produttivi, passando per l’intelligenza artificiale, da una parte può evitare all’uomo e alla donna il compimento di mansioni pericolose o altamente stressanti, ma dall’altra riduce la forza lavoro necessaria. Possono essere un veicolo di miglioramento delle condizioni di lavoro, ma possono sostituire il lavoro umano e, senza una equa redistribuzione delle risorse economiche generate dalla tecnologia, ci troveremmo in pochi anni davanti ad una massa enorme di disoccupati ben più ampia di quella che possiamo contare oggi. Credo che le due cose possano però andare di pari passo: liberare i lavoratori e le lavoratrici dalle mansioni più deprimenti e de-personalizzanti (o alienanti), garantendo a tutti un salario universale che consegni a tutti il diritto a vivere dignitosamente, un lavoro di buona qualità (e pagato equamente) accompagnato da un reddito di diritto per quelli che non potranno, inevitabilmente per tutta una serie di circostanze, accedere al mondo del lavoro per tempi più o meno lunghi. L’antico motto “lavorare meno, lavorare tutti” possiede oggi gli strumenti tecnologici per potersi esprimere nella realtà concreta. Abbiamo a disposizione la tecnologia adatta, abbiamo a disposizione la quantità di risorse economiche utile per fare questo passaggio epocale: manca la volontà, sia politica che, sopratutto, “di classe”. Alla domanda che solitamente si pone ora, e cioè dove trovare le risorse per un salario universale garantito, si risponde con alcuni numeri eccellenti: l’evasione fiscale, gli extra-profitti delle grandi multinazionali, la riduzione delle spese in armamenti e così via. Si capisce, parlando di questi argomenti e di questi numeri, che il salario minimo è argomento davvero, davvero misero.
Ma torniamo alla precarietà, che porta con sé tutte considerazioni purtroppo vecchie come il capitalismo. In una situazione del genere come è possibile pensare di costruire progetti di vita? Il ritorno alla pluri-attività (come a metà dell’Ottocento, dicevamo) non consente al precario quella serenità decisionale che gli permette d’intraprendere un sentiero stabile e definitivo durante la propria esistenza. Di pari passo quel sistema di welfare immaginato e costruito (non dagli industriali) durante il periodo della prima industrializzazione non funziona più, così come i meccanismi che assicuravano un reddito ai pensionati tramite la contribuzione generata dai lavoratori attivi. L’alta aspettativa di vita dei nostri anziani non va di pari passo con il versamento dei contributi necessari al pagamento delle loro pensioni. In fin dei conti il precariato non conviene ai lavoratori, non conviene ai pensionati, non conviene alla maggior parte dei cittadini e dei non-cittadini italiani. Conviene però al capitalismo e ai grossi gruppi industriali, ai quali puoi benissimo parlare di istituire un salario minimo, ma non puoi pensare di sederti con loro per ridisegnare un Paese (o un mondo) più equo. Ed è questo il punto: stiamo parlando di alzare i livelli salariali ad un minimo di nove o dieci euro l’ora, non solo mentre in Germania il salario minimo è assestato già a dodici euro orari, ma mentre stiamo tralasciando tutto il resto. Si è evoluta la tecnologia ma con essa non si è evoluta la società e la politica arranca ad aggrapparsi a piccoli e insignificanti spazi di potere, quando il potere (lo sanno anche i sassi) è stato consegnato tempo fa al capitale. «Quelli che abbiamo eletto non hanno il potere. E quelli che hanno il potere non li abbiamo eletti», ci ricorda Ulrich Beck. (4)
Tutto il panorama politico nazionale con la prima fila occupata dai cosiddetti “progressisti di sinistra” stanno discutendo di come svuotare il mare con il secchiello, mentre là fuori una massa indefinita di persone frustrate (dentro e fuori l’Europa) guarda con sempre maggiore simpatia a quei movimenti politici il cui scopo è quello di mantenere la situazione così com’è, alimentando la guerra fra poveri, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista culturale e politico. L’impegno per un mondo del lavoro più giusto passa anche da un salario minimo corrispondente alle reali necessità delle classi lavoratrici (non solo dipendenti, ma anche autonome), ma non possiamo fermarci qui e pensare che qualche euro in più all’ora nelle tasche di chi lavora (meglio che niente) possa reindirizzare il mondo del lavoro verso la strada di una maggiore stabilità. Sveliamo finalmente un segreto a tutti gli appassionati di salario minimo: la soddisfazione personale, collettiva, e la felicità dei singoli individui non passa attraverso pochi euro in più al mese, ma soprattutto attraverso la condizione di sicurezza per il futuro e di appartenenza delle persone alla società. Se il salario minimo è l’obbiettivo per poter giustificare la propaganda politica e la sopravvivenza di alcune forze nel panorama parlamentare, siamo davanti ad un nuovo specchietto per le allodole e, beninteso, le allodole siamo noi.
- World Bank, 2013. World Development Report 2013: Jobs. World Bank Publications, Washington DC, p. 261
- https://lavoce.info/archives/101592/sul-salario-minimo-ce-ancora-tanto-da-discutere/
- https://stats.oecd.org/Index.aspx?DataSetCode=EPL_OV
- U. Beck, Potere e contropotere nell’età globale, Laterza, prefazione, 2019