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Maggio
1 Maggio 2023

L’U­NI­VER­SO PSI­CHI­CO DEL MARE: INTER­VI­STA AL COM­PO­SI­TO­RE STE­FA­NO PANUN­ZI

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Dal suo pri­mo album, con il pro­get­to Fjie­ri nato nel 1997 che lo ha visto fon­da­to­re assie­me al bas­si­sta e chi­tar­ri­sta Nico­la Lori, Ste­fa­no Panun­zi arri­va alla sua ulti­ma fati­ca con “Page from the Sea”.
Un album non solo da ascol­ta­re ma anche da inter­pre­ta­re, in un eser­ci­zio di deci­fra­zio­ne musi­ca­le che meri­ta dav­ve­ro di ave­re un orec­chio e un cuo­re atten­ti. Non è cer­to la pri­ma vol­ta che Panun­zi ci invi­ta a supe­ra­re il con­cet­to di ascol­to, per entra­re nel­la dimen­sio­ne più pro­fon­da del sen­ti­re. L’ho incon­tra­to nel suo stu­dio, vici­no al mare, poco fuo­ri Roma.

 

“Page from the Sea” è un pic­co­lo scri­gno di dodi­ci bra­ni che sem­bra­no inca­sto­nar­si benis­si­mo tra loro, nono­stan­te sia­no evi­den­ti le dif­fe­ren­ze tra un bra­no e l’al­tro. Vie­ne da doman­dar­si il sen­tie­ro che hai segui­to per arri­va­re a con­ce­pi­re que­sta rac­col­ta.

Que­sto album è sicu­ra­men­te l’e­vo­lu­zio­ne del pre­ce­den­te, anche se qui ho cer­ca­to di poten­zia­re la sezio­ne rit­mi­ca attra­ver­so il bas­so e la bat­te­ria e con una mag­gio­re pre­sen­za di chi­tar­re elet­tri­che. Que­sto è un pro­get­to che però par­te da mol­to lon­ta­no, ben pri­ma del­la rea­liz­za­zio­ne del mio pri­mo album da soli­sta, “Time­li­nes” del 2005, ma che per diver­se moti­va­zio­ni è rima­sto chiu­so nel cas­set­to.

Ti rife­ri­sci al tema del mare?

Sì, il mare è sta­to sem­pre una fon­te d’i­spi­ra­zio­ne. Poi aven­do­lo sot­to casa e viven­do­lo tut­ti i gior­ni e in tut­te le sta­gio­ni si ini­zia a veder­lo sot­to altri occhi e a cono­scer­lo di più. Lo si annu­sa, lo si acca­rez­za, lo si per­ce­pi­sce sem­pre con diver­se sfac­cet­ta­tu­re e umo­ri; è una sor­ta di enti­tà asso­lu­ta che rive­la, che rac­con­ta, che crea sug­ge­stio­ni. Il mare non è solo quel­lo inte­so comu­ne­men­te, pur ric­co di fasci­no, di miste­ro e di sto­ria, quan­to inve­ce una sor­ta di uni­ver­so psi­chi­co, dove a que­sto “mare inte­rio­re” ci si acce­de solo attra­ver­so un par­ti­co­la­re sta­to di coscien­za che affio­ra a vol­te nel­la dimen­sio­ne del sogno, attra­ver­so il qua­le riu­scia­mo a navi­ga­re nel­le zone più lon­ta­ne e nasco­ste di que­sto mare.

Qua­si un lavo­ro psi­ca­na­li­ti­co, mi ver­reb­be da dire.

Per cer­ti ver­si sì. Il sogna­to­re, inte­so anche come musi­ci­sta, ha l’o­ne­re di accom­pa­gnar­ci nel­le diver­se real­tà paral­le­le che ci cir­con­da­no. Per­ché la musi­ca in fon­do è un sogno, un sogno tut­to da inter­pre­ta­re, dove la men­te si abban­do­na ad imma­gi­ni, colo­ri, sim­bo­li, sce­na­ri fuo­ri dal tem­po, fuo­ri dal pre­sen­te. È qui che emer­ge una par­te del nostro vero Io. Il dai­mon - chia­ma­to alla manie­ra di Socra­te — è quel lato nasco­sto del nostro io che fa da inter­lo­cu­to­re alla men­te coscien­te, è il vero pro­ta­go­ni­sta di tut­te le avven­tu­re oni­ri­che, diur­ne e not­tur­ne,  nel­le qua­li l’io segre­to si rive­la.

 

Le tue musi­che sono una spe­cie di colon­na sono­ra con mol­te­pli­ci fac­ce: a secon­da di quan­do la si ascol­ta, la tua musi­ca appa­re sem­pre diver­sa. È dif­fi­ci­le eti­chet­tar­ti in un gene­re musi­ca­le e so che non ti tro­vi mol­to a tuo agio con le eti­chet­te, però c’è mol­to del gene­re sound­sca­pe nel­le tue musi­che. For­se qui lo sto dicen­do più da regi­sta che da scrit­to­re.

Le mie musi­che sono sen­za dub­bio le colon­ne sono­re del­le mie emo­zio­ni. Devo esse­re sin­ce­ro, non mi sono mai posto dal­la par­te di chi ascol­ta e non per ego­cen­tri­smo. Le moti­va­zio­ni che fan­no nasce­re una mia musi­ca sono sem­pre al-di-quà del­la musi­ca stes­sa, sono den­tro di me ed esi­sto­no men­tre la com­pon­go. Direi che è più un mio eser­ci­zio men­ta­le e arti­sti­co dal qua­le sca­tu­ri­sce la musi­ca. Una sor­ta di esor­ci­smo e di cono­scen­za del­lo spi­ri­to. Poi cer­to, se pia­ce agli altri meglio, ma il com­pia­ce­re non è mai sta­to il mio obiet­ti­vo prin­ci­pa­le. Mi pon­go il pro­ble­ma di risol­ve­re, di capi­re un miste­ro che fa par­te di tut­ti noi, ma che all’origine è den­tro me.

Già dal­le pas­sa­te col­la­bo­ra­zio­ni che ti han­no por­ta­to alla pub­bli­ca­zio­ne di diver­si album, sape­va­mo che da lì in poi il miste­ro di quel­la musi­ca ci avreb­be fat­to scen­de­re sem­pre di più nel ven­tre dei sen­si. La tua car­rie­ra musi­ca­le ha visto col­la­bo­ra­zio­ni inter­na­zio­na­li come il can­tan­te Jak­ko M Jakszyk dei King Crim­son, Richard Bar­bie­ri, tastie­ri­sta dei Por­cu­pi­ne Tree, il bas­si­sta Mick Karn, bat­te­ri­sti come Pat Maste­lot­to e Gavin Har­ri­son, e can­tan­ti come Tim Bow­ness, Andrea Chi­men­ti, per arri­va­re a Rob­by Ace­to anche lui del giro del pri­mo David Syl­vian. Insom­ma col­la­bo­ra­zio­ni più che eccel­len­ti…

Le tan­te col­la­bo­ra­zio­ni con i diver­si gran­di arti­sti mi han­no dato la pos­si­bi­li­tà di guar­dar­mi meglio den­tro. L’ul­ti­mo mio album è anche un pro­ces­so di matu­ra­zio­ne arti­sti­ca, ma for­se come tut­ti i lavo­ri che si suc­ce­de­ran­no, ogni espe­rien­za è un tas­sel­lo in più che ti for­ma, ti apre la men­te, ti fa vede­re le cose anche con gli occhi degli altri per­ché il tuo esse­re crea­ti­vo alla fine non è altro che la som­ma di tut­to ciò che fil­tri intor­no a te.

La tua musi­ca sem­bra distan­te da quel­lo che sia­mo abi­tua­ti ad ascol­ta­re in radio quo­ti­dia­na­men­te. Come si è evo­lu­ta la musi­ca negli ulti­mi 30 anni?

Bel­la doman­da. Sicu­ra­men­te alcu­ni ele­men­ti han­no influi­to sul­la musi­ca negli ulti­mi decen­ni, come l’elettronica, inter­net e la glo­ba­liz­za­zio­ne. Volen­do fare una pano­ra­mi­ca mol­to sin­te­ti­ca, pos­so con­sta­ta­re come i luo­ghi del­la musi­ca si sia­no amplia­ti e diver­si­fi­ca­ti: non più tea­tri, sale da con­cer­to e da bal­lo, ma ora anche musei, gal­le­rie d’arte, salo­ni espo­si­ti­vi, instal­la­zio­ni di ogni tipo. Per non par­la­re del­le musi­che che ora­mai nasco­no per sod­di­sfa­re esclu­si­va­men­te i sem­pre più sofi­sti­ca­ti video­gio­chi.
La glo­ba­liz­za­zio­ne ha libe­ra­to filo­ni e cor­ren­ti etni­che che si sono fuse con le musi­che da bal­lo, con l’hip hop, con il rock, con il jazz, con la dan­ce, quin­di musi­che afri­ca­ne, asia­ti­che, gia­mai­ca­ne che han­no rag­giun­to le hit mon­dia­li e sono entra­te nel­le radio e nel­le tv di tut­to il mon­do, e spes­so que­ste influen­ze han­no deter­mi­na­to più che un gene­re musi­ca­le, un vero e pro­prio mani­fe­sto socia­le e cul­tu­ra­le. Anche qui, se voglia­mo, c’è un mare da sco­pri­re.

 

Testo e foto­gra­fie di Ada­mo Mastran­ge­lo

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